NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA
DEI LAVORATORI
INDICE
IL RICORSO ALL’ORGANO DI VIGILANZA
IN MERITO A MANCATA TUTELA DI SALUTE E SICUREZZA
|
1
|
DANNO DA STRESS
LAVORO-CORRELATO: IL RISARCIMENTO AL DIPENDENTE CHE NON USUFRUISCE DEI RIPOSI
|
4
|
MOBBING, DISAGI E
STRESS DA LAVORO: QUANDO SI CONFIGURANO
|
|
MOVIMENTI RIPETITIVI:
RISCHI PER LA SALUTE, ESPOSIZIONE E PREVENZIONE
|
6
|
SICUREZZA SUL LAVORO:
L’IMPORTANZA DELL’ADDESTRAMENTO
|
8
|
IMPARARE DAGLI ERRORI:
L’UTILITA’ DEI DPI DEL CORPO
|
11
|
REQUISITI E COMPITI
DEL RESPONSABILE DEL RISCHIO AMIANTO
|
14
|
IL RICORSO ALL’ORGANO DI VIGILANZA
IN MERITO A MANCATA TUTELA DI SALUTE E SICUREZZA
Occorre
premettere che tutti i problemi lamentati dai lavoratori relativamente a
mancata tutela di salute e sicurezza sono legati a mancati adempimenti da parte
del datore di lavoro e/o dei dirigenti della loro azienda rispetto agli
obblighi di legge previsti per tale tutela, così come definiti dal Decreto
Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 (il cosiddetto “Testo Unico della
sicurezza”, che indicherò nel seguito come “Decreto”).
Tali obblighi devono essere
ottemperati, pena le sanzioni penali previste dal Decreto.
Nel
caso che il datore di lavoro e/o i dirigenti di un’azienda risultino
inadempienti, essi quindi commettono un “reato” come definito dal Codice Penale
e i lavoratori hanno il diritto di richiedere formalmente l’ottemperanza agli
obblighi di legge e di segnalare alla autorità di vigilanza il loro mancato
adempimento e quindi il reato commesso.
Tale
diritto, secondo il Decreto, viene esercitato per mezzi del Rappresentante dei
Lavoratori per la Sicurezza
(RLS) che i lavoratori hanno la facoltà di eleggere, ai sensi dell’articolo 47,
commi 2, 3, 4:
“2. In
tutte le aziende, o unità produttive, è eletto o designato il rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza.
3. Nelle aziende o unità
produttive che occupano fino a 15 lavoratori il rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza è di norma eletto direttamente dai lavoratori al loro interno
oppure è individuato per più aziende nell’ambito territoriale o del comparto
produttivo secondo quanto previsto dall’articolo 48.
4. Nelle aziende o unità
produttive con più di 15 lavoratori il rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza è eletto o designato dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze
sindacali in azienda. In assenza di tali rappresentanze, il rappresentante è
eletto dai lavoratori della azienda al loro interno”.
Il
RLS è quindi colui che si fa portavoce delle esigenze dei lavoratori
relativamente a tutto quanto attiene alle esigenze di salute e sicurezza sul
lavoro.
Nel
caso che il RLS non sia stato eletto o designato, le sue funzioni sono svolte
dal Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza Territoriale
(RLST) stabilito dall’articolo 48, comma 1 del Decreto:
“Il rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza territoriale [...], esercita le competenze del rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza di cui all’articolo 50 nei termini e con le modalità ivi previste con
riferimento a tutte le aziende o unità produttive del territorio o del comparto
di competenza nelle quali non sia stato eletto o designato il rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza”.
Il
RLS ha la possibilità di segnalare al datore di lavoro e/o ai dirigenti ogni
mancato adempimento alla normativa vigente, chiedendo loro i necessari
adeguamenti.
Tale
possibilità è sancita dall’articolo 50, comma 1, lettere m) ed n):
“Fatto salvo quanto stabilito in
sede di contrattazione collettiva, il rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza:
[...]
m) fa proposte in merito
alla attività di prevenzione;
n) avverte il responsabile
della azienda dei rischi individuati nel corso della sua attività;
[...]”.
Inoltre,
nel caso che a seguito di tali segnalazioni e proposte, l’azienda non provveda
a ottemperare ai relativi obblighi definiti dagli articoli del Decreto, il RLS
ha la facoltà di segnalare i mancati adempimenti all’organo di vigilanza (come
definito dal Decreto), richiedendone l’intervento, secondo quanto stabilito
dall’articolo 50, comma 1, lettera o):
“Fatto salvo quanto stabilito in
sede di contrattazione collettiva, il rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza:
[...]
o) può fare ricorso alle
autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione
dai rischi adottate dal datore di lavoro o dai dirigenti e i mezzi impiegati
per attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il
lavoro”.
Nel caso invece che il RLS o il RLST non ritengano di avvalersi delle
facoltà previste dall’articolo 50, qualunque lavoratore può segnalare alla
autorità di vigilanza i mancati adempimenti (cioè i reati) riscontrati
relativamente alla protezione della salute e della sicurezza.
Tale facoltà, del tutto generica, è data dall’articolo 333, commi 1 e
2 del Codice di Procedura Penale:
“Ogni
persona che ha notizia di un reato perseguibile di ufficio può farne denuncia.
La legge determina i casi in cui la denuncia è obbligatoria. La denuncia è
presentata oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore
speciale, al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria; se è
presentata per iscritto, è sottoscritta dal denunciante o da un suo procuratore
speciale”.
Per quanto riguarda la tutela della
salute e della sicurezza, gli organi di vigilanza competenti sono definiti
dall’articolo 13, comma 1 del Decreto:
“La vigilanza sull’applicazione
della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è
svolta dalla azienda sanitaria locale competente per territorio e, per quanto
di specifica competenza, dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco [...]”.
Le considerazioni a seguire sono relative alle Azienda sanitarie
locali (ASL), ma analoghe considerazioni si applicano per il Corpo nazionale
dei vigili del fuoco
Le richieste di intervento degli ispettori della ASL da parte dei RLS
o dei lavoratori deve essere fatta in maniera formale, cioè con lettera scritta
di denuncia di reato, inviata tramite Raccomandata RR oppure Posta Elettronica
Certificata (in partenza e in arrivo), sia alla ASL, che, per conoscenza, al
Pubblico Ministero della Procura della Repubblica di competenza, che ha il compito
di verificare il corretto operato degli ispettori (vedi dopo).
Va osservato che gli ispettori ASL sono Ufficiali di Polizia
Giudiziaria.
Infatti l’articolo 19, comma 1, lettera b) del Decreto Legislativo n.758 del
19 dicembre 1994 definisce come “organi di vigilanza” relativamente ai reati relativi alla salute e
alla sicurezza sul lavoro:
“il personale ispettivo di cui
all’articolo 21, terzo comma, della legge 23 dicembre 1978, n.833, fatte salve
le diverse competenze previste da altre norme”.
A sua volta l’articolo 21 della Legge 23 dicembre
1978, n.833 stabilisce che:
“In applicazione di quanto disposto nell’ultimo
comma dell’articolo 27, D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, spetta al prefetto
stabilire su proposta del presidente della regione, quali addetti ai servizi di
ciascuna unità sanitaria locale, nonché ai presidi e servizi [...] assumano ai sensi delle leggi vigenti la
qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, in relazione alle funzioni
ispettive e di controllo da essi esercitate relativamente all’applicazione
della legislazione sulla sicurezza del lavoro”.
In quanto Ufficiali di Polizia Giudiziaria gli ispettori ASL ai quali
è stato formalmente comunicato il reato devono intervenire obbligatoriamente ai
sensi dell’articolo 55, comma 1 del Codice di Procedura Penale:
“La polizia giudiziaria deve,
anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano
portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti
necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant`altro possa
servire per l`applicazione della legge penale”;
per impartire al datore di lavoro la prescrizione per l’adempimento
dell’obbligo, secondo la procedura fissata dall’articolo 20 del D.Lgs.758/94:
“1. Allo scopo di eliminare la
contravvenzione accertata, l’organo di vigilanza, nell’esercizio delle funzioni
di polizia giudiziaria di cui all’articolo 55 del codice di procedura penale,
impartisce al contravventore un’apposita prescrizione, fissando per la
regolarizzazione un termine non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario. Tale termine è
prorogabile a richiesta del contravventore, per la particolare complessità o
per l’oggettiva difficoltà dell’adempimento. In nessun caso esso può superare i
sei mesi. Tuttavia, quando specifiche circostanze non imputabili al
contravventore determinano un ritardo nella regolarizzazione, il termine di sei
mesi può essere prorogato per una sola volta, a richiesta del contravventore,
per un tempo non superiore ad ulteriori sei mesi, con provvedimento motivato
che è comunicato immediatamente al pubblico ministero.
2. Copia della prescrizione
è notificata o comunicata anche al rappresentante legale dell’ente nell’ambito
o al servizio del quale opera il contravventore.
3. Con la prescrizione l’organo
di vigilanza può imporre specifiche misure atte a far cessare il pericolo per
la sicurezza o per la salute dei lavoratori durante il lavoro.
4. Resta fermo l’obbligo
dell’organo di vigilanza di riferire al pubblico ministero la notizia di reato
inerente alla contravvenzione ai sensi dell’articolo 347 del codice di
procedura penale”.
Gli ispettori ASL devono inoltre verificare che la prescrizione sia
ottemperata nei tempi impartiti dalla prescrizione stessa, secondo l’articolo
21 del D.Lgs.758/94:
“1. Entro
e non oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella
prescrizione, l’organo di vigilanza verifica se la violazione è stata eliminata
secondo le modalità e nel termine indicati dalla prescrizione.
2. Quando risulta l’adempimento
alla prescrizione, l’organo di vigilanza ammette il contravventore a pagare in
sede amministrativa, nel termine di trenta giorni, una somma pari al quarto del
massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa. Entro centoventi
giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, l’organo di
vigilanza comunica al pubblico ministero l’adempimento alla prescrizione,
nonché l’eventuale pagamento della predetta somma.
3. Quando risulta l’inadempimento
alla prescrizione, l’organo di vigilanza ne dà comunicazione al pubblico
ministero e al contravventore entro novanta giorni dalla scadenza del termine
fissato nella prescrizione”.
Di tutti questi passi, come si evince dal testo degli articoli, l’ASL
come organismo di vigilanza deve dare comunicazione al Pubblico Ministero, come
anche disposto dall’articolo 347 comma 1 del Codice di Procedura Penale:
“Acquisita la notizia di reato, la Polizia Giudiziaria,
senza ritardo, riferisce al Pubblico Ministero, per iscritto, gli elementi
essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti, indicando le
fonti di prova e le attività compiute, delle quali trasmette la relativa
documentazione”.
In caso di adempimento e di pagamento della sanzione il reato penale è
estinto. In caso contrario (mancato adempimento o mancato pagamento della
sanzione) viene avviato dal Pubblico Ministero nei confronti del datore di
lavoro il procedimento penale.
Se a seguito di denuncia formale, i funzionari ASL non intervengono,
commettono a loro volta reato penale, secondo l’articolo 328 del Codice Penale:
“Il pubblico
ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un
atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o
di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è
punito con la reclusione da sei mesi a due anni”.
In questo caso occorre denunciare il fatto alla
Procura della Repubblica (cioè al Pubblico Ministero), allegando la lettera
inviata alla ASL corredata della cartolina di RR (oppure messaggio di ricevuta
della Posta Elettronica Certificata) e segnalando da parte dei funzionari ASL
il mancato adempimento degli obblighi di cui all’articolo 20 del D.Lgs.758/94
e dell’articolo 55, comma 1 del Codice di Procedura Penale sopra
citati.
Inoltre si può richiedere al Pubblico Ministero la
richiesta di intervento da parte della ASL ai sensi dell’articolo 22, comma 1
del D.Lgs.758/94:
“Se il
pubblico ministero prende notizia di una contravvenzione di propria iniziativa
ovvero la riceve da privati o da pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico
servizio diversi dall’organo di vigilanza, ne dà immediata comunicazione all’organo
di vigilanza per le determinazioni inerenti alla prescrizione che si rende
necessaria allo scopo di eliminare la contravvenzione”.
Marco Spezia
DANNO
DA STRESS LAVORO-CORRELATO: IL RISARCIMENTO AL DIPENDENTE CHE NON USUFRUISCE
DEI RIPOSI
Da Studio Cataldi
31 ottobre 2016
avvocato Francesco
Pandolfi
Nota di commento alla
sentenza della Corte di Cassazione civile n. 25069/2015
Nell’ambito di un
rapporto di lavoro subordinato, il dipendente che non usufruisce dei riposi può
diventare vittima di stress lavoro-correlato: la circostanza, a sua volta,
diventa fonte di danno risarcibile.
In effetti, l’usura
che deriva da un maggiore sforzo profuso per il lavoro, di regola dovrebbe
trovare una forma di compensazione contrattuale, così che la retribuzione
accordata al lavoratore non subisca una decurtazione ingiusta per effetto
dell’eccessivo dispendio di energie lavorative.
E’ il caso di quei
dipendenti (conducenti di linea) che hanno avuto ragione in causa dopo aver
chiesto che venisse riconosciuto il loro diritto ad avere un’indennità
sostitutiva per ogni ora o frazione di ora di riposo giornaliero/settimanale
non goduto nei termini del Regolamento CEE n. 3228 del 20/12/85 richiamato dal
Decreto Legislativo n. 285 del 30 aprile 1992 (articolo 174).
In questa causa, la Corte territoriale ha
ritenuto utile la documentazione prodotta dai dipendenti al fine di dimostrare
il danno da usura lavorativa.
Sono stati prodotti
infatti in giudizio tanto i fogli delle competenze mensili quanto i relativi prospetti
paga, dai quali desumere con facilità i turni giornalieri nelle distinte
residenze di servizio.
Tra l’altro, mentre i
dipendenti interessati hanno allegato tale documentazione, l’azienda ha
trascurato di adempiere all’ordine di esibizione dei registri contenenti i
turni effettuati dai ricorrenti (per verificare se questi potevano apparire
difformi da quelli prodotti dagli antagonisti).
Il risultato del
comportamento processuale delle parti è stato il riconoscimento del danno in
questione.
Il danno da usura
psico fisica quindi:
-
è
stato ritenuto provato sulla base delle presunzioni costituite dalla maggiore
penosità scaturita dal costante prolungamento dell’attività lavorativa, in
assenza di riposi adeguati e fisiologici,
-
è
stato quantificato equitativamente.
Particolare menzione
merita il terzo argomento utilizzato dalla Cassazione in tema di quantificazione
del risarcimento.
Il punto di partenza
per arrivare a soluzione è questo: il lavoratore ha l’onere di allegare e dimostrare
il tipo di danno sofferto, inoltre deve provarne il nesso causale con
l’inadempimento del datore.
Bisogna infatti
distinguere il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello
produttivo di danno, essendo il danno eventuale: la regola è che la violazione
di un dovere non equivale in automatico a un danno.
Nello specifico, la
mancata concessione di riposi compensativi integra l’ipotesi di danno non patrimoniale
(per usura psicofisica) da fatto illecito o inadempimento contrattuale,
risarcibile nel caso si provi un reale pregiudizio alla salute.
Siamo nel campo
quindi del cosiddetto danno da stress, in questo caso derivante dal mancato
riconoscimento di soste obbligatorie nella guida (ma gli esempi potrebbero
essere tanti e diversi).
In buona sostanza: il
danno da usura è una parte del più generale danno non patrimoniale da fatto
illecito e la sua risarcibilità presuppone l’esistenza di un concreto
pregiudizio subito dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere
della prova anche attraverso presunzioni semplici.
La liquidazione
equitativa del danno è stata quindi ritenuta corretta perché basata sulla prova
dei mancati riposi, dalla quale il Giudice ha presunto la maggiore gravosità
del lavoro svolto in periodi destinati al riposo.
MOBBING,
DISAGI E STRESS DA LAVORO: QUANDO SI CONFIGURANO
Da
Studio Cataldi
31
ottobre 2016
avvocato
Francesco Pandolfi
Nota
di commento alla sentenza del TAR Trieste n. 325/2016
Un
Ispettore Capo della Polizia di Stato sostiene che il Ministero dell’Interno lo
ha vessato in un contesto di episodi conflittuali nell’ambito di un nuovo posto
di lavoro, occupato a seguito di trasferimento (dal settore di polizia di
frontiera al settore di polizia ferroviaria).
I
contrasti, secondo la sua ricostruzione, nascono da conflitti con l’ispettore
capo comandante.
Fa
degli esempi: alcuni suoi incarichi vengono affidati al suo subordinato, varie
contestazioni gli vengono fatte alla presenza di altre persone, non ha un suo
cassetto personale, non ha una sua postazione, viene scavalcato dall’emanazione
di ordini di servizio ed è costretto a svolgere mansioni inferiori.
In
buona sostanza, vive questa esperienza lavorativa “ai margini”, con notevole
sofferenza.
Ben
presto il clima all’interno del posto di polizia diventa intollerabile e si
compromettono i rapporti: il ricorrente, all’aggravarsi del suo quadro clinico
(insonnia e altre patologie), viene collocato prima in aspettativa e poi in
quiescenza.
Il
comportamento vessatorio sfocia in una querela, poi tolta per effetto di scuse.
Il
ricorrente, già dipendente della Polizia di Stato, in quiescenza, propone la
causa per il risarcimento del danno nascente dalla persecuzione tenuta
dall’amministrazione nei suoi confronti.
In
primo luogo, la giurisdizione in questa materia è del TAR in quanto il
comportamento qualificabile come mobbing nei confronti di un militare viene
collegato a specifici fatti giuridici.
In
secondo luogo, l’osservazione doverosa è che nell’ambito del rapporto di
pubblico impiego il mobbing si sostanzia in una condotta del datore o superiore
gerarchico continuata e protratta nel tempo con comportamenti intenzionalmente
ostili, ripetuti, sistematici, esorbitanti, incongrui rispetto ad una gestione
ordinaria del rapporto: comportamenti che esprimono un disegno di persecuzione
e vessazione del dipendente, di intensità tale da essere dannosi per la salute.
A
giudizio del TAR Trieste (sentenza n. 325/2016), gli elementi che debbono
ricorrere nella fattispecie di mobbing (perché si possa ritenere provato) sono
i seguenti:
-
molteplicità
di comportamenti a carattere persecutorio,
-
evento
lesivo della salute psicofisica del dipendente,
-
nesso
tra condotta del datore e lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore.
Va
quindi posta la massima attenzione al momento di instaurazione del giudizio, in
quanto singoli atti illegittimi del superiore di per sè non sono idonei ad
esprimere un comportamento mobbizzante.
Occorre
sempre dimostrare il complessivo disegno persecutorio, qualificato da comportamenti
materiali o provvedimenti segnati dalla finalità di volontaria ed organica
vessazione e discriminazione.
Al
fine di raggiungere questa prova il Tar ritiene utile, ad esempio:
-
impugnare
tempestivamente i singoli atti/provvedimenti illegittimi disposti via via dal
datore nei confronti del dipendente,
-
evitare
il bilanciamento di prove a carico con le prove a discarico, in altri termini
evitare l’insufficienza di prove a favore (cosa che può accadere quando tali
prove sono controbilanciate da episodi di segno contrario),
-
la
stessa “remissione” della querela può trasformarsi in un elemento indiziario
sfavorevole per comprovare il mobbing.
MOVIMENTI RIPETITIVI:
RISCHI PER LA SALUTE, ESPOSIZIONE E PREVENZIONE
Da:
PuntoSicuro
27
ottobre 2016
Un
volume dedicato alle PMI e al mondo dell’artigianato riepiloga la normativa in
materia di salute e sicurezza. Focus sui rischi correlati ai movimenti
ripetitivi: rischi per la salute, condizioni di esposizione, valutazione,
sorveglianza e prevenzione.
In
questi ultimi anni uno dei rischi emergenti, uno dei rischi su cui si è
concentrata l’attenzione di molti ricercatori, è il rischio da sovraccarico
biomeccanico correlato ai movimenti ripetitivi. Un rischio che è stato studiato
inizialmente nel settore metalmeccanico, ma che si è rilevato essere presente
anche in molti altri settori industriali, in agricoltura, nei servizi e nel
settore artigianale.
E
proprio il mondo dell’artigianato, nel volume “Salute e Sicurezza nelle imprese
artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare”, realizzato
dall’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia (OPRA
Lombardia) e dai vari Organismi Paritetici Territoriali Artigiani (OPTA), a
questo rischio ha dedicato un capitolo specifico su cui ci soffermiamo oggi per
ricordare gli aspetti normativi, le conseguenze sulla salute e le possibilità
di valutare il rischio e migliorare le condizioni di sicurezza.
Nel
capitolo “I rischi per la salute dei lavoratori: i movimenti ripetitivi” si
ricorda che nel Testo Unico per la sicurezza nei luoghi di lavoro (il D.Lgs.
81/08) all’articolo 15 si prescrive che il Datore di Lavoro deve adottare le
misure generali di tutela dei lavoratori che comprendono anche “il rispetto dei
principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti
di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di
lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute
del lavoro monotono e di quello ripetitivo”.
Relativamente
a quali siano i rischi per la salute del lavoratore si segnala che eseguire
determinate operazioni in maniera ripetitiva può sollecitare strutture ossee,
articolari e muscolari, tendinee, nervose e vascolari, determinando col tempo
l’insorgenza di veri e propri quadri invalidanti.
E
che i rischi per la salute da movimenti ripetitivi possono essere classificati
in 2 grandi gruppi:
-
sindromi
infiammatorie muscolo-tendinee, quali le tendiniti della spalla, le tendiniti
del gomito, le tendiniti del distretto mano-polso;
-
le
sindromi da intrappolamento dei nervi periferici, fra cui la Sindrome del tunnel
carpale.
Inoltre
si indica che le condizioni lavorative che espongono a tali rischi sono state
individuate e si presentano spesso combinate tra loro:
-
movimentazione
manuale dei carichi;
-
vibrazioni
trasmesse a tutto il corpo;
-
movimenti
di torsione abnormi del tronco;
-
posture
incongrue;
-
elevata
ripetitività delle azioni;
-
sforzi
eccessivi;
-
tempi
di recupero insufficienti.
In
particolare si sottolinea che i movimenti, stimolando una determinata parte del
corpo in un limitato periodo di tempo, provocano una sofferenza delle strutture
anatomiche della zona, con infiammazione delle articolazioni, delle strutture
vascolo-nervose, con interessamento osseo e tendineo. Si ricorda poi che il
comparto delle costruzioni è quello più rappresentato, per problematiche
relative a movimenti ripetuti aggravate dalla possibile co-presenza di
vibrazioni trasmesse al sistema mano-braccio.
Come
PuntoSicuro abbiamo presentato in passato diversi materiali e schede sulle
modalità e sui risultati della valutazione del rischio da movimenti ripetitivi
degli arti superiori in relazione a molteplici attività, anche spesso presenti
nel mondo dell’artigianato.
Riguardo
alla valutazione del rischio da movimenti ripetitivi degli arti superiori, il
documento segnala che incidono fortemente sul rischio alcuni fattori, che
identificati, quantificati e considerati nel loro insieme, caratterizzano
l’esposizione lavorativa in relazione alla rispettiva durata:
-
frequenza
di azione elevata;
-
uso
eccessivo di forza;
-
postura
e movimenti di arti superiori incongrui o stereotipati;
-
carenza
di periodi di recupero adeguati.
In
merito poi alla sorveglianza sanitaria, non potendo considerare fonte di
rischio per la salute del lavoratore ogni attività di movimentazione, si
segnala che per definire se è necessaria l’attività di sorveglianza sanitaria
occorre in realtà considerare anche quale è la frequenza di movimentazione
nell’arco della giornata lavorativa-tipo, se occorre effettuare movimenti di torsione
del tronco, eventuali carenze di spazio, la necessità di piegarsi per
raccogliere il carico, se il carico è stabile, ecc. Ovvero, traducendo quanto
detto, occorre valutare il rischio.
Ed
è solo a seguito della valutazione che potrà meglio essere definita la
eventuale necessità di fare ricorso alla sorveglianza sanitaria.
Dopo
aver ricordato che particolare informazione deve essere data al lavoratore, in
merito alle corrette azioni da eseguire, in modo tale da evitare movimenti
inutili per gli arti superiori (ad esempio, ripartire le azioni tra le due
braccia ed eseguire solo le azioni previste per ogni singola mansione), il
documento si sofferma sulle misure per migliorare le condizioni di sicurezza.
Si
indica che il modo più semplice per migliorare le condizioni di salubrità è
quello di fare ricorso ad attrezzature meccaniche.
Laddove
ciò non risulti possibile, possono essere adottate misure organizzative (pause,
turnazione, cambiamento di mansioni anche nell’arco della giornata, ecc.)
idonee a ridurre il rischio. Diventa significativa l’attività di sorveglianza
sanitaria, che consente di diagnosticare preventivamente situazioni di rischio
a carico del singolo lavoratore e di monitorare nel tempo l’insorgenza di
eventuali patologie e/o disturbi.
Concludiamo
ricordando che nel documento è presente anche un estratto di una breve check
list dedicata ai movimenti ripetitivi. Lista di controllo che chiede di
verificare se vi è un’alta ripetitività delle azioni, se le movimentazioni
frequenti sono realizzate con l’aiuto di mezzi meccanici, se viene impartita
un’adeguata formazione e informazione, se è possibile effettuare pause durante
l’attività e, infine, se i lavoratori con frequente movimentazione manuale sono
sottoposti a sorveglianza sanitaria.
Il
documento dell’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia
“Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e
cosa si deve fare” è scaricabile all’indirizzo:
SICUREZZA SUL LAVORO:
L’IMPORTANZA DELL’ADDESTRAMENTO
Da:
PuntoSicuro
03
novembre 2016
di
Riccardo Borghetto e Ugo Fonzar
La
prevenzione degli infortuni sul lavoro si ottiene di più con l’addestramento
che con la formazione generale e specifica.
Il
Legislatore italiano nell’ambito della normativa relativa alla sicurezza sul
lavoro ha dato negli ultimi anni moltissima enfasi alla formazione, partendo
dal presupposto che la formazione è una efficace barriera per prevenire
incidenti e infortuni sul lavoro (nonché le malattie professionali).
L’importanza
che il legislatore attribuisce alla formazione lo troviamo già nelle
definizioni (articolo 2, comma 1, lettera aa) del D.Lgs. 81/08):
“processo
educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti
del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili
alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi
compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei
rischi”.
Il
concetto di “processo” educativo vorrebbe intendere una attività svolta con
carattere di continuità. Qualcosa di diverso rispetto a quanto indicato negli
Accordi Stato Regioni sulla formazione basati su una formazione iniziale (parte
generale e rischi specifici) più un momento di aggiornamento da svolgersi al
massimo entro cinque anni di minimo 6 ore.
Il
concetto di “acquisizione di competenze per svolgimento in sicurezza dei
rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, riduzione e gestione dei
rischi”, presuppone che la formazione, da sola, sia in grado di governare il
comportamento futuro del lavoratore, mettendolo in sicurezza.
E’
ormai universamente noto che il problema degli incidenti e infortuni sul lavoro
è un problema di natura prevalentemente comportamentale. Molti studi concordano
nell’individuare la causa radice degli infortuni nel comportamento umano
secondo percentuali che a seconda degli studi oscillano dal 50% al 94%.
Ma
la formazione non determina il comportamento umano.
Supponiamo
che un carrellista frequenti il miglior corso disponibile, con il miglior
docente e ne esca “formato” in modo efficace.
Inseriamolo
in un magazzino di un interporto ove in un giorno vengono caricati e scaricati
centinaia di camion con ritmi molto spinti. Supponiamo anche che il
responsabile gerarchico del nostro carrellista debba rispettare degli obiettivi
di produttività sui quali ci sono importanti incentivi economici.
Al
nostro carrellista “formato” è stato sicuramente insegnato di moderare la
velocità, soprattutto in curva, incroci, di mettere sempre la cintura ecc. Ma
non appena lo farà, rispettando le regole che ha appreso, sarà pesantemente
richiamato dal responsabile ad aumentare i propri ritmi di lavoro senza perdere
tempo in inutili regole di sicurezza.
E’
evidente che, nonostante la formazione appresa, il carrellista si adeguerà a
quanto imposto dall’esterno. In pratica il suo comportamento si adeguerà alle
conseguenze ricevute, ovvero agli stimoli ambientali del contesto in cui opera
attivando comportamenti a rischio di cui è perfettamente cosciente.
Facciamo
un altro esempio: in una azienda sgangherata, che non ha fatto nulla di
formazione, c’è un giudizioso capo magazziniere (leggi “preposto”) che, senza
alcun corso fatto dall’azienda, segue amorevolmente i propri sottoposti,
mostrando loro come si guida un carrello, l’uso delle cinture di sicurezza, le
manovre da fare, parlandone in pausa caffè in modo naturale e appassionato,
ascoltando le varie problematiche, dando una bella pacca sulla spalla ai più
attenti e proattivi, organizzando le attività in modo che le corse e l’impegno
sia razionalizzato tra i lavoratori e, anche se celere, non frettoloso. Come vi
attendete il comportamento dei “suoi carrellisti”?
In
pratica la formazione (da sola) non influisce direttamente sul comportamento.
Il comportamento è sotto il controllo delle “conseguenze ricevute”.
Se
non si è ancora convinti di questo basta pensare agli incidenti stradali,
commessi da cittadini che sono tutti “formati” e “abilitati”, che sanno
benissimo l’elevato rischio che corrono in strada e ciononostante mentre
guidano messaggiano sullo smartphone o telefonano sapendo benissimo che si
tratta di comportamenti pericolosi, oltre che vietati. In questo caso il problema
non è mancata formazione, ma il fatto che i comportamenti a rischio sono
rinforzati da conseguenze ambientali immediate piacevoli e che derivano
dall’uso degli smartphone.
Una
parte importante degli incidenti e infortuni gravi e/o mortali che accadono
all’interno dei siti industriali sono prevalentemente legati a:
-
situazioni
di elevato pericolo ove è necessario l’utilizzo di DPI di terza categoria (come
lavori in quota, lavori elettrici, spazi confinati ecc.);
-
lavori
che prevedono l’uso di macchine/impianti/attrezzature molto pericolosi (o
meglio “attrezzature che richiedono conoscenze e responsabilità particolari” di
cui all’articolo 71, comma 7 del D.Lgs. 81/08)
Tra
le misure più importanti per la prevenzione delle situazioni sopra citate è di
fondamentale importanza l’addestramento, esplicitamente indicato come
obbligatorio per i DPI di terza categoria e l’uso di macchine di cui sopra.
Sicuramente
per tali tipologie di rischio ha un valore praticamente nullo o estremamente
basso a fini prevenzionali il programma della formazione parte generale e
specifica per i lavoratori in base all’Accordo Stato Regioni del 21/12/11
(molti si attendono che tale formazione sia sufficiente: si noti che tale
formazione copre il titolo I e qualche altro titolo del D.Lgs. 81/08, ma non
l’addestramento specifico).
Negli
ultimi anni riguardo la formazione sono stati normati:
-
i
soggetti formatori e organizzatori;
-
i
requisiti dei docenti;
-
i
programmi;
-
la
durata dei corsi e relativo aggiornamento;
-
la
metodologia di verifica di apprendimento;
-
i
contenuti minimi riportati nell’attestato;
-
la
modalità di archiviazione della documentazione;
-
i
termini temporali entro i quali è necessario effettuare la formazione in caso
di assunzione di personale o cambio mansione;
...
e qualche Regione si è spinta a definire persino il tipo di carta e relativa
grammatura che deve avere l’attestato.
Dell’addestramento
(definito come “complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori
l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi,
anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro”) la normativa si
limita a indicare solamente che “l’addestramento viene effettuato da persona
esperta e sul luogo di lavoro”.
Il
fatto che la formazione è normata fin nei minimi dettagli e l’addestramento no,
ha portato tutta la filiera della sicurezza (aziende, consulenti, RSPP, enti di
formazione, organi di vigilanza) a concentrarsi in modo deciso sulla
formazione, trascurando l’addestramento.
Si
sono erogate milioni di ore per corsi di formazione, che in buona parte
risultano poco utili per prevenire eventi di tipo infortunistico, drenando
risorse economiche, di tempo ed energie umane in una direzione poco efficace.
L’addestramento
ai fini strettamente prevenzionali è una attività più importante della formazione.
Mentre
per la formazione si può anche pensare di aspettare i 60 giorni concessi per
formare i neo assunti, nessuno si sognerebbe di mettere un lavoratore su una
macchina/impianto/ attrezzatura pericolosa o DPI di terza categoria prima di
avere svolto un adeguato addestramento.
L’addestramento
permette un apprendimento più rapido e resistente, in quanto basato sul concetto
di modeling (la forma di apprendimento basata sull’osservazione del
comportamento altrui mediante neuroni specchio). Inoltre le modalità di
apprendimento negli adulti (andragogia) privilegiano forme di apprendimento
pratico che interessano di più l’adulto (“fare” piuttosto che “ascoltare”).
Cosa
invece è stata la formazione? Aule piene di lavoratori spesso annoiati e
docenti in giacca e cravatta a dire cose inutili (richieste da obblighi
normativi) e talvolta controproducenti per le organizzazioni.
Si
noti poi che le sentenze di Cassazione riportano spesso la condanna del datore
di lavoro per l’adozione da parte del lavoratore di comportamenti scorretti
attribuiti dai giudici a mancanza di formazione.
Questa
motivazione non è corretta dal punto di vista tecnico-scientifico. E’ lo schema
logico dominante che coinvolge anche le istituzioni, chi scrive le norme e chi
le interpreta, tutti digiuni delle leggi scientifiche che regolano il
comportamento umano. Ci sono moltissimi casi in cui il comportamento corretto
non viene erogato pur avendo effettuato la formazione corretta. Ciononostante
per il giudice il fatto che il comportamento sicuro non venga erogato è una
condizione sufficiente per affermare che c’è mancanza di formazione e quindi
sanzionare.
Si
aggiunga poi che la vigilanza, con la filosofia del “comanda e controlla” non
ha sempre frutti buoni (con le cattive non si ottiene tutto, anzi, si ottengono
molti “furbi”).
Non
è facendo più formazione che si risolve il problema, ma agendo sulle cause
radice che determinano l’erogazione di conseguenze che agiscono sui comportamenti
(come nel caso del carrellista) facendo più addestramento pratico e soprattutto
controllando frequentemente e correggendo il comportamento dei lavoratori con
tecniche idonee.
Che
fare allora?
Per
i macchinari: il manuale delle istruzioni per l’uso, “fonte di sapere e di
istruzioni di sicurezza” non lo legge mai nessuno, anzi sì: gli avvocati, i
consulenti tecnici e i giudici durante il processo... mentre in reparto o in
cantiere, nessuno si sogna di prender in mano un manuale prima di usare una attrezzatura
di lavoro.
Si
faccia quindi delle sintesi, delle “schede macchina”, che indichino ad esempio:
-
i
rischi presenti
-
le
misure di sicurezza previste
-
i
DPI da usare
-
cosa
fare
-
cosa
non fare
-
in
caso di “anomalia” come comportarsi (è uno dei momenti più critici da valutare,
dove avvengono i maggiori casi di infortunio).
E
poi, dopo aver esposto/consegnato/plastificato queste sintesi, incontrare a uno
a uno i lavoratori “on the job” e, facendo legger loro tali documenti, capire
se si sono scritte cose giuste, corrette, oppure sono istruzioni “non
sostenibili” o “poco reali”, facendo emergere le osservazioni e magari anche
correggendo tali istruzioni di lavoro, condividendole con gli interessati,
facendo magari simulazioni e prove.
Poi
si aprirà una discussione al fine di comprendere se tutte gli aspetti
analizzati sono stati compresi (fino a far un questionario di domande e
risposte formali). Se poi si va a formalizzare tutta questa attività, si
otterranno anche documenti utili e “opponibili a terzi” ai fini della dimostrazione
della cura attuata per tale attività di addestramento (e vera formazione).
IMPARARE
DAGLI ERRORI: L’UTILITA’ DEI DPI DEL CORPO
Da: PuntoSicuro
03 novembre 2016
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni correlati al mancato o
errato uso di tute di lavoro e di dispositivi di protezione del corpo.
Infortuni in attività edili e in un terminal portuale di contenitori.
Informazioni generali sui dispositivi di protezione.
Se in molte attività lavorative e in assenza
di particolari rischi il “vestiario da lavoro” può fornire una sufficiente
protezione, vi sono attività che presentano rischi particolari e che richiedono
l’utilizzo di specifici indumenti, gli indumenti di protezione, che possono
coprire o sostituire gli indumenti personali e hanno specifiche caratteristiche
protettive.
Il viaggio di “Imparare dagli errori”, la
rubrica che PuntoSicuro dedica al racconto e all’analisi degli infortuni,
attraverso le conseguenze dell’uso errato o mancato dei dispositivi di
protezione nei luoghi di lavoro, si sofferma oggi sui dispositivi per la
protezione del corpo.
Le dinamiche degli infortuni presentati sono
tratte dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi
di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e
gravi.
Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto
in un terminal portuale di contenitori.
Un autotrasportatore, che era alla guida di
autoarticolato, è stato caricato di un contenitore.
Il lavoratore scende dal camion per fissare i
twist lock di chiusura del contenitore al semirimorchio. Prima chiude i due dal
lato verso il parco di deposito dei contenitori, e successivamente si porta
verso quello posteriore esterno lato viabilità.
Un dipendente della compagnia portuale alla
guida di un’autovettura di servizio, sta transitando in prossimità del punto di
carico del camion, e per evitare la collisione con dei new jersey, delle
barriere che delimitano una buca, si sposta verso il camion rasentandolo, e
investe l’autotrasportatore che viene colpito dal paraurti dell’auto e di
contraccolpo picchia con la testa sul parabrezza del veicolo, procurandosi un
trauma cranico.
Nel terminal vigeva la regola scritta sul
foglio di prelievo del contenitore di divieto di scendere dal mezzo in area
operativa, ma non era prevista un’area apposita destinata al fissaggio dei
twist per cui era frequente che l’operazione di chiusura dei twist venisse
svolta sulla viabilità.
La larghezza del passaggio in quel punto
avrebbe consentito il transito in sicurezza della macchina. L’infortunato, come
è pratica frequente da parte degli autotrasportatori in aree portuali, non
indossava il gilet ad alta visibilità al momento dell’infortunio, gilet peraltro
disponibile.
Questi i fattori causali individuati dalla
scheda:
-
un’autovettura
transitava in maniera imprudente molto vicino al camion per evitare una buca;
-
l’infortunato
scendeva dal camion sulla viabilità per chiudere i twist lock di vincolo del contenitore
al semirimorchio;
-
mancato
utilizzo del gilet alta visibilità.
Il secondo caso riguarda un infortunio
avvenuto in attività edile e relativo alla rifinitura di un massetto, un
elemento costruttivo adottato per raggiungere vari obiettivi (ad esempio livellare
una superficie, ripartire il carico degli elementi sovrastanti, ricevere la
pavimentazione finale, ecc.).
Un lavoratore nell’intento di rifinire
manualmente il massetto per il ballatoio, utilizzando una staggia di alluminio,
utensile non idoneo, poggia le ginocchia sopra al calcestruzzo appena gettato
nella casseforma assumendo un’errata posizione e procurandosi un’ustione di II
grado agli arti inferiori.
L’infortunato non utilizzava tuta da lavoro.
Questi i fattori causali:
-
il
lavoratore utilizzava una staggia di alluminio, utensile non idoneo, assumendo
un’errata posizione;
-
mancato
utilizzo di tuta da lavoro.
I casi presentati ci offrono la percezione
dell’importanza dell’abbigliamento protettivo, sia con riferimento anche a una
semplice tuta da lavoro, sia in relazione all’utilizzo di indumenti che hanno
anche una funzione segnaletica.
Prima di passare, in una prossima puntata di
“Imparare dagli errori” a parlare di infortuni e indumenti specifici contro il
rischio di taglio, presentiamo oggi una breve rassegna generale di dispositivi
di protezione del corpo.
E per farlo facciamo riferimento al progetto
multimediale Impresa Sicura (elaborato da EBER, EBAM, Regione Marche, Regione
Emilia Romagna e INAIL), progetto che ha prodotto diversi materiali relativi
alla prevenzione in molti comparti lavorativi (metalmeccanica, cantieristica
navale, lavorazione del legno, calzature, ecc.) e una raccolta dettagliata di
informazioni sui Dispositivi di Protezione Individuale nel documento “Impresa
Sicura: DPI”.
Il documento segnala che gli indumenti di
protezione possono essere:
-
abiti
di protezione: indumenti che coprono tutto il corpo o la maggior parte di esso;
-
capi
di abbigliamento: componenti individuali il cui uso protegge solo la parte del
corpo che coprono.
E ci sono indumenti:
-
a
protezione locale: utilizzati se il rischio riguarda una sola parte del corpo
(ad esempio grembiuli per schizzi frontali, ecc.); in caso di utilizzo
contemporaneo di altri DPI è necessario verificare che tutti offrano adeguata protezione,
e non vi sia passaggio di materiali pericolosi nelle giunture: la direzione
dalla quale si prevede che provenga il pericolo indicherà quale componente
rimarrà all’esterno (per esempio la giacca posta fuori dai pantaloni per
proteggere dalla caduta di liquidi dall’alto); un’ulteriore protezione è
fornita da giunture doppie sovrapposte inserite, specialmente se i due
componenti possono essere uniti insieme con stringhe o lacci, eccetera; I
materiali di tali indumenti sono permeabili all’aria;
-
a
copertura limitata: per rischi non gravi e per bassa probabilità di
accadimento; questi indumenti devono poter essere tolti velocemente in caso di
contaminazione (ad esempio camici, giacche, ecc.); i materiali di tali
indumenti sono permeabili all’aria;
-
a
copertura completa: quando l’inquinante ha capacità di penetrazione tramite la
pelle ovvero è in grado di intaccare la pelle stessa; si ricorre a indumenti
alimentati ad aria fino ad arrivare a quelli impermeabili ai gas, in grado di
isolare completamente l’operatore dall’ambiente esterno; i materiali di tali
indumenti sono impermeabili all’aria.
E gli indumenti di protezione si possono
suddividere anche in sottotipologie diverse che si differenziano, ad esempio,
per il genere di rischio da cui ciascuna tipologia protegge e con riferimento
al “livello di prestazione” (tale livello espresso da numeri, è ottenuto in
laboratorio, a seguito di specifiche prove, non necessariamente riferite alle
condizioni effettive sul posto di lavoro).
E dunque l’indumento di protezione dovrebbe
essere selezionato tenendo conto delle condizioni e dei compiti relativi al
processo dell’utilizzatore finale, considerando il rischio implicato e i dati
forniti dal fabbricante nella nota informativa in relazione alle prestazioni
dell’indumento di protezione contro il pericolo o i pericoli in questione.
Riportiamo in conclusione un elenco,
parziale, di tipologie di indumenti di protezione:
-
indumenti
di protezione in ambienti severi caldi e severi freddi;
-
indumenti
di protezione per lavoratori dell’industria esposti al calore;
-
indumenti
di protezione dalle radiazioni UV;
-
indumenti
di protezione contro il calore ed il fuoco (calore per contatto);
-
indumenti
di protezione per la saldatura e procedimenti similari;
-
indumenti
protettivi per elettricisti;
-
indumenti
di protezione contro le azioni meccaniche;
-
indumenti
protettivi per operazioni di sabbiatura con abrasivi in grani;
-
indumenti
di protezione da puntura o taglio;
-
indumenti
per la protezione della parte inferiore del corpo;
-
indumenti
per la protezione della parte superiore del corpo;
-
indumenti
di protezione ventilati contro la contaminazione radioattiva sotto forma di
particelle;
-
indumenti
di protezione non ventilati contro la contaminazione radioattiva sotto forma di
particelle;
-
indumenti
di protezione contro le sostanze chimiche;
-
indumenti
di Protezione contro microorganismi;
-
indumenti
ad alta visibilità per uso professionale.
Il sito web di INFOR.MO. di cui nell’articolo
abbiamo presentato le schede numero 1048 e 3322 è il seguente:
Il documento “Impresa Sicura DPI” elaborato
da EBER, EBAM, Regione Marche, Regione Emilia Romagna e INAIL è scaricabile
all’indirizzo:
REQUISITI E COMPITI
DEL RESPONSABILE DEL RISCHIO AMIANTO
Da:
PuntoSicuro
04
novembre 2016
I
ruoli e le competenze del Responsabile del Rischio Amianto nella gestione degli
immobili contenenti amianto: un aiuto concreto per gli RSPP e i datori di
lavoro.
Sono
disponibili sul sito di INAIL gli atti del 9° Seminario di aggiornamento dei
professionisti Contarp (Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione di
INAIL) “Reti, sinergie, appropriatezza, innovazione: professioni tecniche verso
il futuro della salute e sicurezza sul lavoro”.
Pubblichiamo
un estratto tratto dalla sessione “Nuovi cicli e rapporti lavorativi, nuove
tecnologie, nuovi rischi” a cura di Massera e Novembre di INAIL Direzione
Generale Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione e Cavariani di
AUSL Viterbo Centro Regionale Amianto del Lazio.
I
RUOLI E LE COMPETENZE DEL RESPONSABILE DEL RISCHIO AMIANTO NELLA GESTIONE DEI
PATRIMONI IMMOBILIARI
Salvo
rari casi, una volta che in un edificio vengono individuati materiali
contenenti amianto (MCA) non scatta automaticamente un obbligo di bonifica in
capo al proprietario/gestore.
Nella
quasi totalità dei casi si tratta di gestire il rischio legato alla presenza
dei materiali con una serie di attività di controllo e prevenzione delle quali
la bonifica, totale o parziale, può essere solo una delle fasi.
Tra
queste misure la prima è quella della nomina del cosiddetto Responsabile
Rischio Amianto (RRA), cioè il responsabile per la gestione dei MCA, figura
disciplinata dal Punto 4 del D.M. 06/09/94. Il proprietario dell’edificio e/o
il responsabile delle attività che si svolgono, una volta nominata questa
figura, dovrà dare evidenza di aver provveduto, per sua mano, a:
-
redigere
un piano di controllo e manutenzione per tutte le attività che potenzialmente potessero
coinvolgere i MCA;
-
informare
gli occupanti e le ditte terze della situazione rilevata;
-
etichettare
i MCA rilevati a seguito delle risultanze analitiche;
-
verificare
periodicamente lo stato di conservazione dei materiali;
-
procedere
a monitoraggi periodici dell’aria per confutare eventuali contaminazioni.
In
collaborazione con il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
(RSPP) lo stesso RRA dovrà verificare l’aggiornamento dei documenti unici di
valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI e il coordinamento con tutti i
vari soggetti a vario titolo coinvolti nelle attività dell’immobile in
questione.
REQUISITI
E ATTRIBUZIONI DEL RRA
Il
RRA deve necessariamente avere un bagaglio di conoscenze e capacità specifiche:
-
deve
saper coordinare e gestire al meglio le attività di manutenzione sui MCA;
-
deve
essere in grado di accertare la presenza di materiali contenenti amianto per
assistere il proprietario e/o il responsabile nelle attività di censimento;
-
deve
conoscere e saper applicare le metodiche specifiche sulla valutazione dei
rischi associati alla presenza dei materiali (indici versar, algoritmi, indici
ecc.) in modo da assistere il suo committente su questa attività;
-
deve
saper gestire le attività di custodia in modo codificato redigendo il piano di
controllo e manutenzione sui MCA;
-
deve
conoscere le tecniche di bonifica e i rischi, oltre che i costi, a queste
associate in modo da indirizzare al meglio il proprio committente;
-
deve
essere, caratteristica quest’ultima non specificata nel decreto ma di assoluta
importanza, in grado di gestire la comunicazione del rischio, non di rado anche
in condizioni critiche di contrapposizione tra le varie parti coinvolte nella
gestione dei MCA (imprese, utenti, occupanti ecc.).
Relativamente
ai compiti che la normativa affida al RRA, il quadro è meno complesso di quanto
sembra. Il RRA ha l’unico compito di coordinare le attività manutentive che
possono riguardare i MCA. Le altre attività quali i censimenti, le informative,
la segnalazione dei materiali rimangono in capo al proprietario e/o al
responsabile delle attività svolte nell’immobile così come precedentemente
descritti.
Nella
pratica comune il RRA è diventato il “responsabile del rischio amianto”, ma in
verità lo spirito originario del Decreto era differente. Nell’ottica del 1994,
anno in cui praticamente in ogni sito esistevano MCA, il RRA era una figura
alla quale il legislatore intendeva affidare il compito di evitare che i materiali
venissero perturbati per errato coordinamento tra i vari soggetti coinvolti
nella loro custodia e manutenzione. E’ evidente che, considerata la
professionalità necessaria per rivestire questo ruolo, il RRA diventa il
referente a tutto tondo per il problema amianto in un edificio, ma è bene
ricordare che la maggior parte delle attività che svolge le conduce in veste di
figura che assiste il suo committente.
Coerentemente
con quanto elencato finora, non sono stabilite sanzioni o ammende in capo al
RRA per omissioni di natura prevenzionale.
Chiaramente
questa figura potrebbe essere chiamata in causa per colpa professionale, in
caso di errate valutazioni o di negligenza nella messa in atto dei propri
compiti.
Non
si può altresì escludere che il RRA venga, prima o poi, chiamato in causa per
lesioni nei confronti di terzi; questo qualora delle patologie asbesto
correlate venissero messe in relazione a sue omissioni o errate valutazioni. In
ogni caso, a conferma della ridotta diffusione della figura del RRA e delle sue
incerte attribuzioni normative, non si rilevano, allo stato, sentenze od
orientamenti giurisprudenziali definiti nei confronti di questa figura.
Va
anche detto che è verosimile pensare che la tendenza alla progressiva
responsabilizzazione delle figure dei consulenti (Servizio di Prevenzione e
Protezione compreso) prima o poi investirà anche la figura del RRA.
ATTIVITA’
E CRITICITA’ NELLA GESTIONE DEI PATRIMONI IMMOBILIARI
Fatte
salve le difficoltà interpretative del ruolo del RRA di cui ai paragrafi
precedenti (leggi documento integrale), questa figura ha assunto nel tempo
sempre maggiore visibilità e importanza.
Questo
lento processo di affermazione della figura del RRA, comunque incompleto, si è
sviluppato di pari passo con l’aumento della percezione del rischio sul
problema amianto dal 1994 a
oggi.
La Contarp gestisce il rischio
amianto in numerosi immobili con i propri professionisti e con il proprio
Laboratorio di Igiene Industriale qualificato su diverse tecniche analitiche
dal Ministero della sanità ai sensi del D.M. 14/05/96.
Le
attività messe in campo per questo tipo di prestazioni, sintetizzate nella
figura 1, sono quelle di seguito dettagliate:
-
effettuazione
di censimenti e mappatura dell’amianto anche con ricorso a sistemi di localizzazione
informatizzati;
-
assistenza
agli RSPP per le valutazioni del rischio;
-
attività
analitica per campioni massivi e analisi su membrana per varie centinaia di
campioni all’anno;
-
redazione
e divulgazione di informative per gli occupanti degli immobili e per le imprese
a vario titolo presenti;
-
svolgimento
di sedute di formazione e informazione;
-
segnalazione
ed etichettatura di MCA, in particolare dei materiali soggetti a frequenti manutenzioni;
-
segnalazione
agli organi di controllo e gestione dei rapporti con gli stessi mediante sopralluoghi
congiunti e scambio di informazioni;
-
assistenza
alla redazione di capitolati di appalto per attività di bonifica e di rimozione
dei MCA;
-
assistenza
al direttore dei lavori di cantieri di bonifica;
-
attività
di campionamento e analisi per il controllo dei cantieri di bonifica con
ricorso a laboratori qualificati e personale adeguatamente formato;
-
assistenza
alla gestione dei rapporti con la stampa in occasione di casi particolari che
sono andati all’attenzione del mass media;
-
assistenza
ai committenti in occasione di contenziosi giudiziari.
CONCLUSIONI
Quello
del RRA è un ruolo che si colloca a cavallo tra una normativa per molti versi
superata e l’ottica gestionale attualmente più affermata per la salute e la
sicurezza sul lavoro. Le attività connesse a questa figura hanno assunto sempre
maggiore importanza con l’aumento della percezione del rischio amianto. Al
tempo stesso, l’affermarsi di questa figura ha determinato eccessi di rischio
professionale, conflittualità esasperate e difficoltà di azione.
Nella
disamina di questo articolo sono state passate in rassegna alcune delle
principali criticità sperimentate nella gestione del rischio amianto in
patrimoni immobiliari. Le stesse potranno fornire spunti di riflessione
nell’ottica della stesura dell’ormai improcrastinabile Testo Unico Amianto:
-
definire
a livello nazionale e condiviso quali sono i requisiti professionali e il
percorso formativo del RRA;
-
ridisegnare
i ruoli individuando nel RRA una figura di consulente analoga a quella del RSPP
con compiti e funzioni ben definiti sui censimenti e la gestione del rischio;
-
continuare
l’attività di professionalizzazione dei laboratori qualificati a svolgere
analisi sull’amianto individuando criteri coerenti con la delicatezza dei temi
trattati;
-
estendere
le competenze del RRA in modo da coprire anche le situazioni attualmente non
comprese come le attrezzature e i terreni;
-
individuare
indici di valutazione coerenti a livello nazionale, abbandonando le tentazioni
localistiche che, evidentemente, non hanno riscontro in termini sanitari;
-
supportare
l’attività di questa delicata figura con un’informazione coerente con le conoscenze
in materia abbandonando le tentazioni sensazionalistiche che non concorrono a
un’adeguata gestione di questo tema delicato.
In
definitiva, a oltre 20 anni dalla data di istituzione di questa figura, stiamo
assistendo all’affermazione e al riconoscimento dei compiti del RRA. Le
attività descritte risentono comunque di una serie di limitazioni e contraddizioni
introdotte dal progressivo legiferare in materia.
Conferma
che è necessario supportare tutto il processo di gestione del rischio amianto,
con lo snellimento e l’armonizzazione delle norme e che renda il quadro
legislativo più coerente con le attuali conoscenze in materia di salute e
sicurezza sul lavoro.
Il
documento “I ruoli e le competenze del responsabile del rischio amianto nella
gestione dei patrimoni immobiliari” è scaricabile all’indirizzo:
Nessun commento:
Posta un commento