sabato 12 novembre 2016

11 novembre - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! NEWSLETTER N. 273 DEL 11/11/16



NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

IL RICORSO ALL’ORGANO DI VIGILANZA IN MERITO A MANCATA TUTELA DI SALUTE E SICUREZZA
1
DANNO DA STRESS LAVORO-CORRELATO: IL RISARCIMENTO AL DIPENDENTE CHE NON USUFRUISCE DEI RIPOSI
4
MOBBING, DISAGI E STRESS DA LAVORO: QUANDO SI CONFIGURANO
5
MOVIMENTI RIPETITIVI: RISCHI PER LA SALUTE, ESPOSIZIONE E PREVENZIONE
6
SICUREZZA SUL LAVORO: L’IMPORTANZA DELL’ADDESTRAMENTO
8
IMPARARE DAGLI ERRORI: L’UTILITA’ DEI DPI DEL CORPO
11
REQUISITI E COMPITI DEL RESPONSABILE DEL RISCHIO AMIANTO
14





IL RICORSO ALL’ORGANO DI VIGILANZA IN MERITO A MANCATA TUTELA DI SALUTE E SICUREZZA

Occorre premettere che tutti i problemi lamentati dai lavoratori relativamente a mancata tutela di salute e sicurezza sono legati a mancati adempimenti da parte del datore di lavoro e/o dei dirigenti della loro azienda rispetto agli obblighi di legge previsti per tale tutela, così come definiti dal Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 (il cosiddetto “Testo Unico della sicurezza”, che indicherò nel seguito come “Decreto”).
Tali obblighi devono essere ottemperati, pena le sanzioni penali previste dal Decreto.

Nel caso che il datore di lavoro e/o i dirigenti di un’azienda risultino inadempienti, essi quindi commettono un “reato” come definito dal Codice Penale e i lavoratori hanno il diritto di richiedere formalmente l’ottemperanza agli obblighi di legge e di segnalare alla autorità di vigilanza il loro mancato adempimento e quindi il reato commesso.

Tale diritto, secondo il Decreto, viene esercitato per mezzi del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) che i lavoratori hanno la facoltà di eleggere, ai sensi dell’articolo 47, commi 2, 3, 4:
2. In tutte le aziende, o unità produttive, è eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
3. Nelle aziende o unità produttive che occupano fino a 15 lavoratori il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è di norma eletto direttamente dai lavoratori al loro interno oppure è individuato per più aziende nell’ambito territoriale o del comparto produttivo secondo quanto previsto dall’articolo 48.
4. Nelle aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è eletto o designato dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda. In assenza di tali rappresentanze, il rappresentante è eletto dai lavoratori della azienda al loro interno”.
Il RLS è quindi colui che si fa portavoce delle esigenze dei lavoratori relativamente a tutto quanto attiene alle esigenze di salute e sicurezza sul lavoro.

Nel caso che il RLS non sia stato eletto o designato, le sue funzioni sono svolte dal Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza Territoriale (RLST) stabilito dall’articolo 48, comma 1 del Decreto:
Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale [...], esercita le competenze del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di cui all’articolo 50 nei termini e con le modalità ivi previste con riferimento a tutte le aziende o unità produttive del territorio o del comparto di competenza nelle quali non sia stato eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

Il RLS ha la possibilità di segnalare al datore di lavoro e/o ai dirigenti ogni mancato adempimento alla normativa vigente, chiedendo loro i necessari adeguamenti.
Tale possibilità è sancita dall’articolo 50, comma 1, lettere m) ed n):
Fatto salvo quanto stabilito in sede di contrattazione collettiva, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza:
[...]
m) fa proposte in merito alla attività di prevenzione;
n) avverte il responsabile della azienda dei rischi individuati nel corso della sua attività;
[...]”.

Inoltre, nel caso che a seguito di tali segnalazioni e proposte, l’azienda non provveda a ottemperare ai relativi obblighi definiti dagli articoli del Decreto, il RLS ha la facoltà di segnalare i mancati adempimenti all’organo di vigilanza (come definito dal Decreto), richiedendone l’intervento, secondo quanto stabilito dall’articolo 50, comma 1, lettera o):
Fatto salvo quanto stabilito in sede di contrattazione collettiva, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza:
[...]
o) può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro o dai dirigenti e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro”.

Nel caso invece che il RLS o il RLST non ritengano di avvalersi delle facoltà previste dall’articolo 50, qualunque lavoratore può segnalare alla autorità di vigilanza i mancati adempimenti (cioè i reati) riscontrati relativamente alla protezione della salute e della sicurezza.
Tale facoltà, del tutto generica, è data dall’articolo 333, commi 1 e 2 del Codice di Procedura Penale:
Ogni persona che ha notizia di un reato perseguibile di ufficio può farne denuncia. La legge determina i casi in cui la denuncia è obbligatoria. La denuncia è presentata oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria; se è presentata per iscritto, è sottoscritta dal denunciante o da un suo procuratore speciale”.

Per quanto riguarda la tutela della salute e della sicurezza, gli organi di vigilanza competenti sono definiti dall’articolo 13, comma 1 del Decreto:
La vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è svolta dalla azienda sanitaria locale competente per territorio e, per quanto di specifica competenza, dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco [...]”.
Le considerazioni a seguire sono relative alle Azienda sanitarie locali (ASL), ma analoghe considerazioni si applicano per il Corpo nazionale dei vigili del fuoco

Le richieste di intervento degli ispettori della ASL da parte dei RLS o dei lavoratori deve essere fatta in maniera formale, cioè con lettera scritta di denuncia di reato, inviata tramite Raccomandata RR oppure Posta Elettronica Certificata (in partenza e in arrivo), sia alla ASL, che, per conoscenza, al Pubblico Ministero della Procura della Repubblica di competenza, che ha il compito di verificare il corretto operato degli ispettori (vedi dopo).

Va osservato che gli ispettori ASL sono Ufficiali di Polizia Giudiziaria.
Infatti l’articolo 19, comma 1, lettera b) del Decreto Legislativo n.758 del 19 dicembre 1994 definisce come “organi di vigilanza” relativamente ai reati relativi alla salute e alla sicurezza sul lavoro:
il personale ispettivo di cui all’articolo 21, terzo comma, della legge 23 dicembre 1978, n.833, fatte salve le diverse competenze previste da altre norme”.
A sua volta l’articolo 21 della Legge 23 dicembre 1978, n.833 stabilisce che:
In applicazione di quanto disposto nell’ultimo comma dell’articolo 27, D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, spetta al prefetto stabilire su proposta del presidente della regione, quali addetti ai servizi di ciascuna unità sanitaria locale, nonché ai presidi e servizi [...] assumano ai sensi delle leggi vigenti la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, in relazione alle funzioni ispettive e di controllo da essi esercitate relativamente all’applicazione della legislazione sulla sicurezza del lavoro”.

In quanto Ufficiali di Polizia Giudiziaria gli ispettori ASL ai quali è stato formalmente comunicato il reato devono intervenire obbligatoriamente ai sensi dell’articolo 55, comma 1 del Codice di Procedura Penale:
La polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant`altro possa servire per l`applicazione della legge penale”;
per impartire al datore di lavoro la prescrizione per l’adempimento dell’obbligo, secondo la procedura fissata dall’articolo 20 del D.Lgs.758/94:
1. Allo scopo di eliminare la contravvenzione accertata, l’organo di vigilanza, nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria di cui all’articolo 55 del codice di procedura penale, impartisce al contravventore un’apposita prescrizione, fissando per la regolarizzazione un termine non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario. Tale termine è prorogabile a richiesta del contravventore, per la particolare complessità o per l’oggettiva difficoltà dell’adempimento. In nessun caso esso può superare i sei mesi. Tuttavia, quando specifiche circostanze non imputabili al contravventore determinano un ritardo nella regolarizzazione, il termine di sei mesi può essere prorogato per una sola volta, a richiesta del contravventore, per un tempo non superiore ad ulteriori sei mesi, con provvedimento motivato che è comunicato immediatamente al pubblico ministero.
2. Copia della prescrizione è notificata o comunicata anche al rappresentante legale dell’ente nell’ambito o al servizio del quale opera il contravventore.
3. Con la prescrizione l’organo di vigilanza può imporre specifiche misure atte a far cessare il pericolo per la sicurezza o per la salute dei lavoratori durante il lavoro.
4. Resta fermo l’obbligo dell’organo di vigilanza di riferire al pubblico ministero la notizia di reato inerente alla contravvenzione ai sensi dell’articolo 347 del codice di procedura penale”.
Gli ispettori ASL devono inoltre verificare che la prescrizione sia ottemperata nei tempi impartiti dalla prescrizione stessa, secondo l’articolo 21 del D.Lgs.758/94:
1. Entro e non oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, l’organo di vigilanza verifica se la violazione è stata eliminata secondo le modalità e nel termine indicati dalla prescrizione.
2. Quando risulta l’adempimento alla prescrizione, l’organo di vigilanza ammette il contravventore a pagare in sede amministrativa, nel termine di trenta giorni, una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa. Entro centoventi giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, l’organo di vigilanza comunica al pubblico ministero l’adempimento alla prescrizione, nonché l’eventuale pagamento della predetta somma.
3. Quando risulta l’inadempimento alla prescrizione, l’organo di vigilanza ne dà comunicazione al pubblico ministero e al contravventore entro novanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione”.

Di tutti questi passi, come si evince dal testo degli articoli, l’ASL come organismo di vigilanza deve dare comunicazione al Pubblico Ministero, come anche disposto dall’articolo 347 comma 1 del Codice di Procedura Penale:
Acquisita la notizia di reato, la Polizia Giudiziaria, senza ritardo, riferisce al Pubblico Ministero, per iscritto, gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute, delle quali trasmette la relativa documentazione”.

In caso di adempimento e di pagamento della sanzione il reato penale è estinto. In caso contrario (mancato adempimento o mancato pagamento della sanzione) viene avviato dal Pubblico Ministero nei confronti del datore di lavoro il procedimento penale.

Se a seguito di denuncia formale, i funzionari ASL non intervengono, commettono a loro volta reato penale, secondo l’articolo 328 del Codice Penale:
Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”.

In questo caso occorre denunciare il fatto alla Procura della Repubblica (cioè al Pubblico Ministero), allegando la lettera inviata alla ASL corredata della cartolina di RR (oppure messaggio di ricevuta della Posta Elettronica Certificata) e segnalando da parte dei funzionari ASL il mancato adempimento degli obblighi di cui all’articolo 20 del D.Lgs.758/94 e dell’articolo 55, comma 1 del Codice di Procedura Penale sopra citati.

Inoltre si può richiedere al Pubblico Ministero la richiesta di intervento da parte della ASL ai sensi dell’articolo 22, comma 1 del D.Lgs.758/94:
Se il pubblico ministero prende notizia di una contravvenzione di propria iniziativa ovvero la riceve da privati o da pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio diversi dall’organo di vigilanza, ne dà immediata comunicazione all’organo di vigilanza per le determinazioni inerenti alla prescrizione che si rende necessaria allo scopo di eliminare la contravvenzione”.

Marco Spezia



DANNO DA STRESS LAVORO-CORRELATO: IL RISARCIMENTO AL DIPENDENTE CHE NON USUFRUISCE DEI RIPOSI

Da Studio Cataldi
31 ottobre 2016
avvocato Francesco Pandolfi

Nota di commento alla sentenza della Corte di Cassazione civile n. 25069/2015

Nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato, il dipendente che non usufruisce dei riposi può diventare vittima di stress lavoro-correlato: la circostanza, a sua volta, diventa fonte di danno risarcibile.
In effetti, l’usura che deriva da un maggiore sforzo profuso per il lavoro, di regola dovrebbe trovare una forma di compensazione contrattuale, così che la retribuzione accordata al lavoratore non subisca una decurtazione ingiusta per effetto dell’eccessivo dispendio di energie lavorative.
E’ il caso di quei dipendenti (conducenti di linea) che hanno avuto ragione in causa dopo aver chiesto che venisse riconosciuto il loro diritto ad avere un’indennità sostitutiva per ogni ora o frazione di ora di riposo giornaliero/settimanale non goduto nei termini del Regolamento CEE n. 3228 del 20/12/85 richiamato dal Decreto Legislativo n. 285 del 30 aprile 1992 (articolo 174).

In questa causa, la Corte territoriale ha ritenuto utile la documentazione prodotta dai dipendenti al fine di dimostrare il danno da usura lavorativa.
Sono stati prodotti infatti in giudizio tanto i fogli delle competenze mensili quanto i relativi prospetti paga, dai quali desumere con facilità i turni giornalieri nelle distinte residenze di servizio.
Tra l’altro, mentre i dipendenti interessati hanno allegato tale documentazione, l’azienda ha trascurato di adempiere all’ordine di esibizione dei registri contenenti i turni effettuati dai ricorrenti (per verificare se questi potevano apparire difformi da quelli prodotti dagli antagonisti).

Il risultato del comportamento processuale delle parti è stato il riconoscimento del danno in questione.
Il danno da usura psico fisica quindi:
-         è stato ritenuto provato sulla base delle presunzioni costituite dalla maggiore penosità scaturita dal costante prolungamento dell’attività lavorativa, in assenza di riposi adeguati e fisiologici,
-         è stato quantificato equitativamente.

Particolare menzione merita il terzo argomento utilizzato dalla Cassazione in tema di quantificazione del risarcimento.
Il punto di partenza per arrivare a soluzione è questo: il lavoratore ha l’onere di allegare e dimostrare il tipo di danno sofferto, inoltre deve provarne il nesso causale con l’inadempimento del datore.
Bisogna infatti distinguere il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello produttivo di danno, essendo il danno eventuale: la regola è che la violazione di un dovere non equivale in automatico a un danno.

Nello specifico, la mancata concessione di riposi compensativi integra l’ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psicofisica) da fatto illecito o inadempimento contrattuale, risarcibile nel caso si provi un reale pregiudizio alla salute.
Siamo nel campo quindi del cosiddetto danno da stress, in questo caso derivante dal mancato riconoscimento di soste obbligatorie nella guida (ma gli esempi potrebbero essere tanti e diversi).

In buona sostanza: il danno da usura è una parte del più generale danno non patrimoniale da fatto illecito e la sua risarcibilità presuppone l’esistenza di un concreto pregiudizio subito dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della prova anche attraverso presunzioni semplici.

La liquidazione equitativa del danno è stata quindi ritenuta corretta perché basata sulla prova dei mancati riposi, dalla quale il Giudice ha presunto la maggiore gravosità del lavoro svolto in periodi destinati al riposo.


MOBBING, DISAGI E STRESS DA LAVORO: QUANDO SI CONFIGURANO

Da Studio Cataldi
31 ottobre 2016
avvocato Francesco Pandolfi

Nota di commento alla sentenza del TAR Trieste n. 325/2016

Un Ispettore Capo della Polizia di Stato sostiene che il Ministero dell’Interno lo ha vessato in un contesto di episodi conflittuali nell’ambito di un nuovo posto di lavoro, occupato a seguito di trasferimento (dal settore di polizia di frontiera al settore di polizia ferroviaria).
I contrasti, secondo la sua ricostruzione, nascono da conflitti con l’ispettore capo comandante.
Fa degli esempi: alcuni suoi incarichi vengono affidati al suo subordinato, varie contestazioni gli vengono fatte alla presenza di altre persone, non ha un suo cassetto personale, non ha una sua postazione, viene scavalcato dall’emanazione di ordini di servizio ed è costretto a svolgere mansioni inferiori.

In buona sostanza, vive questa esperienza lavorativa “ai margini”, con notevole sofferenza.
Ben presto il clima all’interno del posto di polizia diventa intollerabile e si compromettono i rapporti: il ricorrente, all’aggravarsi del suo quadro clinico (insonnia e altre patologie), viene collocato prima in aspettativa e poi in quiescenza.
Il comportamento vessatorio sfocia in una querela, poi tolta per effetto di scuse.

Il ricorrente, già dipendente della Polizia di Stato, in quiescenza, propone la causa per il risarcimento del danno nascente dalla persecuzione tenuta dall’amministrazione nei suoi confronti.
In primo luogo, la giurisdizione in questa materia è del TAR in quanto il comportamento qualificabile come mobbing nei confronti di un militare viene collegato a specifici fatti giuridici.
In secondo luogo, l’osservazione doverosa è che nell’ambito del rapporto di pubblico impiego il mobbing si sostanzia in una condotta del datore o superiore gerarchico continuata e protratta nel tempo con comportamenti intenzionalmente ostili, ripetuti, sistematici, esorbitanti, incongrui rispetto ad una gestione ordinaria del rapporto: comportamenti che esprimono un disegno di persecuzione e vessazione del dipendente, di intensità tale da essere dannosi per la salute.

A giudizio del TAR Trieste (sentenza n. 325/2016), gli elementi che debbono ricorrere nella fattispecie di mobbing (perché si possa ritenere provato) sono i seguenti:
-         molteplicità di comportamenti a carattere persecutorio,
-         evento lesivo della salute psicofisica del dipendente,
-         nesso tra condotta del datore e lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore.

Va quindi posta la massima attenzione al momento di instaurazione del giudizio, in quanto singoli atti illegittimi del superiore di per sè non sono idonei ad esprimere un comportamento mobbizzante.
Occorre sempre dimostrare il complessivo disegno persecutorio, qualificato da comportamenti materiali o provvedimenti segnati dalla finalità di volontaria ed organica vessazione e discriminazione.

Al fine di raggiungere questa prova il Tar ritiene utile, ad esempio:
-         impugnare tempestivamente i singoli atti/provvedimenti illegittimi disposti via via dal datore nei confronti del dipendente,
-         evitare il bilanciamento di prove a carico con le prove a discarico, in altri termini evitare l’insufficienza di prove a favore (cosa che può accadere quando tali prove sono controbilanciate da episodi di segno contrario),
-         la stessa “remissione” della querela può trasformarsi in un elemento indiziario sfavorevole per comprovare il mobbing.




MOVIMENTI RIPETITIVI: RISCHI PER LA SALUTE, ESPOSIZIONE E PREVENZIONE

Da: PuntoSicuro
27 ottobre 2016

Un volume dedicato alle PMI e al mondo dell’artigianato riepiloga la normativa in materia di salute e sicurezza. Focus sui rischi correlati ai movimenti ripetitivi: rischi per la salute, condizioni di esposizione, valutazione, sorveglianza e prevenzione.

In questi ultimi anni uno dei rischi emergenti, uno dei rischi su cui si è concentrata l’attenzione di molti ricercatori, è il rischio da sovraccarico biomeccanico correlato ai movimenti ripetitivi. Un rischio che è stato studiato inizialmente nel settore metalmeccanico, ma che si è rilevato essere presente anche in molti altri settori industriali, in agricoltura, nei servizi e nel settore artigianale.

E proprio il mondo dell’artigianato, nel volume “Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare”, realizzato dall’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia (OPRA Lombardia) e dai vari Organismi Paritetici Territoriali Artigiani (OPTA), a questo rischio ha dedicato un capitolo specifico su cui ci soffermiamo oggi per ricordare gli aspetti normativi, le conseguenze sulla salute e le possibilità di valutare il rischio e migliorare le condizioni di sicurezza.

Nel capitolo “I rischi per la salute dei lavoratori: i movimenti ripetitivi” si ricorda che nel Testo Unico per la sicurezza nei luoghi di lavoro (il D.Lgs. 81/08) all’articolo 15 si prescrive che il Datore di Lavoro deve adottare le misure generali di tutela dei lavoratori che comprendono anche “il rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo”.

Relativamente a quali siano i rischi per la salute del lavoratore si segnala che eseguire determinate operazioni in maniera ripetitiva può sollecitare strutture ossee, articolari e muscolari, tendinee, nervose e vascolari, determinando col tempo l’insorgenza di veri e propri quadri invalidanti.
E che i rischi per la salute da movimenti ripetitivi possono essere classificati in 2 grandi gruppi:
-         sindromi infiammatorie muscolo-tendinee, quali le tendiniti della spalla, le tendiniti del gomito, le tendiniti del distretto mano-polso;
-         le sindromi da intrappolamento dei nervi periferici, fra cui la Sindrome del tunnel carpale.

Inoltre si indica che le condizioni lavorative che espongono a tali rischi sono state individuate e si presentano spesso combinate tra loro:
-         movimentazione manuale dei carichi;
-         vibrazioni trasmesse a tutto il corpo;
-         movimenti di torsione abnormi del tronco;
-         posture incongrue;
-         elevata ripetitività delle azioni;
-         sforzi eccessivi;
-         tempi di recupero insufficienti.
In particolare si sottolinea che i movimenti, stimolando una determinata parte del corpo in un limitato periodo di tempo, provocano una sofferenza delle strutture anatomiche della zona, con infiammazione delle articolazioni, delle strutture vascolo-nervose, con interessamento osseo e tendineo. Si ricorda poi che il comparto delle costruzioni è quello più rappresentato, per problematiche relative a movimenti ripetuti aggravate dalla possibile co-presenza di vibrazioni trasmesse al sistema mano-braccio.
Come PuntoSicuro abbiamo presentato in passato diversi materiali e schede sulle modalità e sui risultati della valutazione del rischio da movimenti ripetitivi degli arti superiori in relazione a molteplici attività, anche spesso presenti nel mondo dell’artigianato.

Riguardo alla valutazione del rischio da movimenti ripetitivi degli arti superiori, il documento segnala che incidono fortemente sul rischio alcuni fattori, che identificati, quantificati e considerati nel loro insieme, caratterizzano l’esposizione lavorativa in relazione alla rispettiva durata:
-         frequenza di azione elevata;
-         uso eccessivo di forza;
-         postura e movimenti di arti superiori incongrui o stereotipati;
-         carenza di periodi di recupero adeguati.

In merito poi alla sorveglianza sanitaria, non potendo considerare fonte di rischio per la salute del lavoratore ogni attività di movimentazione, si segnala che per definire se è necessaria l’attività di sorveglianza sanitaria occorre in realtà considerare anche quale è la frequenza di movimentazione nell’arco della giornata lavorativa-tipo, se occorre effettuare movimenti di torsione del tronco, eventuali carenze di spazio, la necessità di piegarsi per raccogliere il carico, se il carico è stabile, ecc. Ovvero, traducendo quanto detto, occorre valutare il rischio.
Ed è solo a seguito della valutazione che potrà meglio essere definita la eventuale necessità di fare ricorso alla sorveglianza sanitaria.

Dopo aver ricordato che particolare informazione deve essere data al lavoratore, in merito alle corrette azioni da eseguire, in modo tale da evitare movimenti inutili per gli arti superiori (ad esempio, ripartire le azioni tra le due braccia ed eseguire solo le azioni previste per ogni singola mansione), il documento si sofferma sulle misure per migliorare le condizioni di sicurezza.
Si indica che il modo più semplice per migliorare le condizioni di salubrità è quello di fare ricorso ad attrezzature meccaniche.
Laddove ciò non risulti possibile, possono essere adottate misure organizzative (pause, turnazione, cambiamento di mansioni anche nell’arco della giornata, ecc.) idonee a ridurre il rischio. Diventa significativa l’attività di sorveglianza sanitaria, che consente di diagnosticare preventivamente situazioni di rischio a carico del singolo lavoratore e di monitorare nel tempo l’insorgenza di eventuali patologie e/o disturbi.

Concludiamo ricordando che nel documento è presente anche un estratto di una breve check list dedicata ai movimenti ripetitivi. Lista di controllo che chiede di verificare se vi è un’alta ripetitività delle azioni, se le movimentazioni frequenti sono realizzate con l’aiuto di mezzi meccanici, se viene impartita un’adeguata formazione e informazione, se è possibile effettuare pause durante l’attività e, infine, se i lavoratori con frequente movimentazione manuale sono sottoposti a sorveglianza sanitaria.

Il documento dell’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia “Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare” è scaricabile all’indirizzo:




SICUREZZA SUL LAVORO: L’IMPORTANZA DELL’ADDESTRAMENTO

Da: PuntoSicuro
03 novembre 2016
di Riccardo Borghetto e Ugo Fonzar

La prevenzione degli infortuni sul lavoro si ottiene di più con l’addestramento che con la formazione generale e specifica.

Il Legislatore italiano nell’ambito della normativa relativa alla sicurezza sul lavoro ha dato negli ultimi anni moltissima enfasi alla formazione, partendo dal presupposto che la formazione è una efficace barriera per prevenire incidenti e infortuni sul lavoro (nonché le malattie professionali).

L’importanza che il legislatore attribuisce alla formazione lo troviamo già nelle definizioni (articolo 2, comma 1, lettera aa) del D.Lgs. 81/08):
“processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi”.

Il concetto di “processo” educativo vorrebbe intendere una attività svolta con carattere di continuità. Qualcosa di diverso rispetto a quanto indicato negli Accordi Stato Regioni sulla formazione basati su una formazione iniziale (parte generale e rischi specifici) più un momento di aggiornamento da svolgersi al massimo entro cinque anni di minimo 6 ore.
Il concetto di “acquisizione di competenze per svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, riduzione e gestione dei rischi”, presuppone che la formazione, da sola, sia in grado di governare il comportamento futuro del lavoratore, mettendolo in sicurezza.

E’ ormai universamente noto che il problema degli incidenti e infortuni sul lavoro è un problema di natura prevalentemente comportamentale. Molti studi concordano nell’individuare la causa radice degli infortuni nel comportamento umano secondo percentuali che a seconda degli studi oscillano dal 50% al 94%.
Ma la formazione non determina il comportamento umano.

Supponiamo che un carrellista frequenti il miglior corso disponibile, con il miglior docente e ne esca “formato” in modo efficace.
Inseriamolo in un magazzino di un interporto ove in un giorno vengono caricati e scaricati centinaia di camion con ritmi molto spinti. Supponiamo anche che il responsabile gerarchico del nostro carrellista debba rispettare degli obiettivi di produttività sui quali ci sono importanti incentivi economici.
Al nostro carrellista “formato” è stato sicuramente insegnato di moderare la velocità, soprattutto in curva, incroci, di mettere sempre la cintura ecc. Ma non appena lo farà, rispettando le regole che ha appreso, sarà pesantemente richiamato dal responsabile ad aumentare i propri ritmi di lavoro senza perdere tempo in inutili regole di sicurezza.
E’ evidente che, nonostante la formazione appresa, il carrellista si adeguerà a quanto imposto dall’esterno. In pratica il suo comportamento si adeguerà alle conseguenze ricevute, ovvero agli stimoli ambientali del contesto in cui opera attivando comportamenti a rischio di cui è perfettamente cosciente.

Facciamo un altro esempio: in una azienda sgangherata, che non ha fatto nulla di formazione, c’è un giudizioso capo magazziniere (leggi “preposto”) che, senza alcun corso fatto dall’azienda, segue amorevolmente i propri sottoposti, mostrando loro come si guida un carrello, l’uso delle cinture di sicurezza, le manovre da fare, parlandone in pausa caffè in modo naturale e appassionato, ascoltando le varie problematiche, dando una bella pacca sulla spalla ai più attenti e proattivi, organizzando le attività in modo che le corse e l’impegno sia razionalizzato tra i lavoratori e, anche se celere, non frettoloso. Come vi attendete il comportamento dei “suoi carrellisti”?

In pratica la formazione (da sola) non influisce direttamente sul comportamento. Il comportamento è sotto il controllo delle “conseguenze ricevute”.
Se non si è ancora convinti di questo basta pensare agli incidenti stradali, commessi da cittadini che sono tutti “formati” e “abilitati”, che sanno benissimo l’elevato rischio che corrono in strada e ciononostante mentre guidano messaggiano sullo smartphone o telefonano sapendo benissimo che si tratta di comportamenti pericolosi, oltre che vietati. In questo caso il problema non è mancata formazione, ma il fatto che i comportamenti a rischio sono rinforzati da conseguenze ambientali immediate piacevoli e che derivano dall’uso degli smartphone.

Una parte importante degli incidenti e infortuni gravi e/o mortali che accadono all’interno dei siti industriali sono prevalentemente legati a:
-         situazioni di elevato pericolo ove è necessario l’utilizzo di DPI di terza categoria (come lavori in quota, lavori elettrici, spazi confinati ecc.);
-         lavori che prevedono l’uso di macchine/impianti/attrezzature molto pericolosi (o meglio “attrezzature che richiedono conoscenze e responsabilità particolari” di cui all’articolo 71, comma 7 del D.Lgs. 81/08)

Tra le misure più importanti per la prevenzione delle situazioni sopra citate è di fondamentale importanza l’addestramento, esplicitamente indicato come obbligatorio per i DPI di terza categoria e l’uso di macchine di cui sopra.
Sicuramente per tali tipologie di rischio ha un valore praticamente nullo o estremamente basso a fini prevenzionali il programma della formazione parte generale e specifica per i lavoratori in base all’Accordo Stato Regioni del 21/12/11 (molti si attendono che tale formazione sia sufficiente: si noti che tale formazione copre il titolo I e qualche altro titolo del D.Lgs. 81/08, ma non l’addestramento specifico).

Negli ultimi anni riguardo la formazione sono stati normati:
-         i soggetti formatori e organizzatori;
-         i requisiti dei docenti;
-         i programmi;
-         la durata dei corsi e relativo aggiornamento;
-         la metodologia di verifica di apprendimento;
-         i contenuti minimi riportati nell’attestato;
-         la modalità di archiviazione della documentazione;
-         i termini temporali entro i quali è necessario effettuare la formazione in caso di assunzione di personale o cambio mansione;
... e qualche Regione si è spinta a definire persino il tipo di carta e relativa grammatura che deve avere l’attestato.

Dell’addestramento (definito come “complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro”) la normativa si limita a indicare solamente che “l’addestramento viene effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro”.

Il fatto che la formazione è normata fin nei minimi dettagli e l’addestramento no, ha portato tutta la filiera della sicurezza (aziende, consulenti, RSPP, enti di formazione, organi di vigilanza) a concentrarsi in modo deciso sulla formazione, trascurando l’addestramento.
Si sono erogate milioni di ore per corsi di formazione, che in buona parte risultano poco utili per prevenire eventi di tipo infortunistico, drenando risorse economiche, di tempo ed energie umane in una direzione poco efficace.

L’addestramento ai fini strettamente prevenzionali è una attività più importante della formazione.
Mentre per la formazione si può anche pensare di aspettare i 60 giorni concessi per formare i neo assunti, nessuno si sognerebbe di mettere un lavoratore su una macchina/impianto/ attrezzatura pericolosa o DPI di terza categoria prima di avere svolto un adeguato addestramento.

L’addestramento permette un apprendimento più rapido e resistente, in quanto basato sul concetto di modeling (la forma di apprendimento basata sull’osservazione del comportamento altrui mediante neuroni specchio). Inoltre le modalità di apprendimento negli adulti (andragogia) privilegiano forme di apprendimento pratico che interessano di più l’adulto (“fare” piuttosto che “ascoltare”).
Cosa invece è stata la formazione? Aule piene di lavoratori spesso annoiati e docenti in giacca e cravatta a dire cose inutili (richieste da obblighi normativi) e talvolta controproducenti per le organizzazioni.

Si noti poi che le sentenze di Cassazione riportano spesso la condanna del datore di lavoro per l’adozione da parte del lavoratore di comportamenti scorretti attribuiti dai giudici a mancanza di formazione.
Questa motivazione non è corretta dal punto di vista tecnico-scientifico. E’ lo schema logico dominante che coinvolge anche le istituzioni, chi scrive le norme e chi le interpreta, tutti digiuni delle leggi scientifiche che regolano il comportamento umano. Ci sono moltissimi casi in cui il comportamento corretto non viene erogato pur avendo effettuato la formazione corretta. Ciononostante per il giudice il fatto che il comportamento sicuro non venga erogato è una condizione sufficiente per affermare che c’è mancanza di formazione e quindi sanzionare.

Si aggiunga poi che la vigilanza, con la filosofia del “comanda e controlla” non ha sempre frutti buoni (con le cattive non si ottiene tutto, anzi, si ottengono molti “furbi”).

Non è facendo più formazione che si risolve il problema, ma agendo sulle cause radice che determinano l’erogazione di conseguenze che agiscono sui comportamenti (come nel caso del carrellista) facendo più addestramento pratico e soprattutto controllando frequentemente e correggendo il comportamento dei lavoratori con tecniche idonee.

Che fare allora?
Per i macchinari: il manuale delle istruzioni per l’uso, “fonte di sapere e di istruzioni di sicurezza” non lo legge mai nessuno, anzi sì: gli avvocati, i consulenti tecnici e i giudici durante il processo... mentre in reparto o in cantiere, nessuno si sogna di prender in mano un manuale prima di usare una attrezzatura di lavoro.
Si faccia quindi delle sintesi, delle “schede macchina”, che indichino ad esempio:
-         i rischi presenti
-         le misure di sicurezza previste
-         i DPI da usare
-         cosa fare
-         cosa non fare
-         in caso di “anomalia” come comportarsi (è uno dei momenti più critici da valutare, dove avvengono i maggiori casi di infortunio).

E poi, dopo aver esposto/consegnato/plastificato queste sintesi, incontrare a uno a uno i lavoratori “on the job” e, facendo legger loro tali documenti, capire se si sono scritte cose giuste, corrette, oppure sono istruzioni “non sostenibili” o “poco reali”, facendo emergere le osservazioni e magari anche correggendo tali istruzioni di lavoro, condividendole con gli interessati, facendo magari simulazioni e prove.
Poi si aprirà una discussione al fine di comprendere se tutte gli aspetti analizzati sono stati compresi (fino a far un questionario di domande e risposte formali). Se poi si va a formalizzare tutta questa attività, si otterranno anche documenti utili e “opponibili a terzi” ai fini della dimostrazione della cura attuata per tale attività di addestramento (e vera formazione).




IMPARARE DAGLI ERRORI: L’UTILITA’ DEI DPI DEL CORPO

Da: PuntoSicuro
03 novembre 2016
di Tiziano Menduto

Esempi di infortuni correlati al mancato o errato uso di tute di lavoro e di dispositivi di protezione del corpo. Infortuni in attività edili e in un terminal portuale di contenitori. Informazioni generali sui dispositivi di protezione.

Se in molte attività lavorative e in assenza di particolari rischi il “vestiario da lavoro” può fornire una sufficiente protezione, vi sono attività che presentano rischi particolari e che richiedono l’utilizzo di specifici indumenti, gli indumenti di protezione, che possono coprire o sostituire gli indumenti personali e hanno specifiche caratteristiche protettive.
Il viaggio di “Imparare dagli errori”, la rubrica che PuntoSicuro dedica al racconto e all’analisi degli infortuni, attraverso le conseguenze dell’uso errato o mancato dei dispositivi di protezione nei luoghi di lavoro, si sofferma oggi sui dispositivi per la protezione del corpo.
Le dinamiche degli infortuni presentati sono tratte dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi.

Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto in un terminal portuale di contenitori.
Un autotrasportatore, che era alla guida di autoarticolato, è stato caricato di un contenitore.
Il lavoratore scende dal camion per fissare i twist lock di chiusura del contenitore al semirimorchio. Prima chiude i due dal lato verso il parco di deposito dei contenitori, e successivamente si porta verso quello posteriore esterno lato viabilità.
Un dipendente della compagnia portuale alla guida di un’autovettura di servizio, sta transitando in prossimità del punto di carico del camion, e per evitare la collisione con dei new jersey, delle barriere che delimitano una buca, si sposta verso il camion rasentandolo, e investe l’autotrasportatore che viene colpito dal paraurti dell’auto e di contraccolpo picchia con la testa sul parabrezza del veicolo, procurandosi un trauma cranico.
Nel terminal vigeva la regola scritta sul foglio di prelievo del contenitore di divieto di scendere dal mezzo in area operativa, ma non era prevista un’area apposita destinata al fissaggio dei twist per cui era frequente che l’operazione di chiusura dei twist venisse svolta sulla viabilità.
La larghezza del passaggio in quel punto avrebbe consentito il transito in sicurezza della macchina. L’infortunato, come è pratica frequente da parte degli autotrasportatori in aree portuali, non indossava il gilet ad alta visibilità al momento dell’infortunio, gilet peraltro disponibile.
Questi i fattori causali individuati dalla scheda:
-         un’autovettura transitava in maniera imprudente molto vicino al camion per evitare una buca;
-         l’infortunato scendeva dal camion sulla viabilità per chiudere i twist lock di vincolo del contenitore al semirimorchio;
-         mancato utilizzo del gilet alta visibilità.

Il secondo caso riguarda un infortunio avvenuto in attività edile e relativo alla rifinitura di un massetto, un elemento costruttivo adottato per raggiungere vari obiettivi (ad esempio livellare una superficie, ripartire il carico degli elementi sovrastanti, ricevere la pavimentazione finale, ecc.).
Un lavoratore nell’intento di rifinire manualmente il massetto per il ballatoio, utilizzando una staggia di alluminio, utensile non idoneo, poggia le ginocchia sopra al calcestruzzo appena gettato nella casseforma assumendo un’errata posizione e procurandosi un’ustione di II grado agli arti inferiori.
L’infortunato non utilizzava tuta da lavoro.
Questi i fattori causali:
-         il lavoratore utilizzava una staggia di alluminio, utensile non idoneo, assumendo un’errata posizione;
-         mancato utilizzo di tuta da lavoro.

I casi presentati ci offrono la percezione dell’importanza dell’abbigliamento protettivo, sia con riferimento anche a una semplice tuta da lavoro, sia in relazione all’utilizzo di indumenti che hanno anche una funzione segnaletica.

Prima di passare, in una prossima puntata di “Imparare dagli errori” a parlare di infortuni e indumenti specifici contro il rischio di taglio, presentiamo oggi una breve rassegna generale di dispositivi di protezione del corpo.
E per farlo facciamo riferimento al progetto multimediale Impresa Sicura (elaborato da EBER, EBAM, Regione Marche, Regione Emilia Romagna e INAIL), progetto che ha prodotto diversi materiali relativi alla prevenzione in molti comparti lavorativi (metalmeccanica, cantieristica navale, lavorazione del legno, calzature, ecc.) e una raccolta dettagliata di informazioni sui Dispositivi di Protezione Individuale nel documento “Impresa Sicura: DPI”.

Il documento segnala che gli indumenti di protezione possono essere:
-         abiti di protezione: indumenti che coprono tutto il corpo o la maggior parte di esso;
-         capi di abbigliamento: componenti individuali il cui uso protegge solo la parte del corpo che coprono.

E ci sono indumenti:
-         a protezione locale: utilizzati se il rischio riguarda una sola parte del corpo (ad esempio grembiuli per schizzi frontali, ecc.); in caso di utilizzo contemporaneo di altri DPI è necessario verificare che tutti offrano adeguata protezione, e non vi sia passaggio di materiali pericolosi nelle giunture: la direzione dalla quale si prevede che provenga il pericolo indicherà quale componente rimarrà all’esterno (per esempio la giacca posta fuori dai pantaloni per proteggere dalla caduta di liquidi dall’alto); un’ulteriore protezione è fornita da giunture doppie sovrapposte inserite, specialmente se i due componenti possono essere uniti insieme con stringhe o lacci, eccetera; I materiali di tali indumenti sono permeabili all’aria;
-         a copertura limitata: per rischi non gravi e per bassa probabilità di accadimento; questi indumenti devono poter essere tolti velocemente in caso di contaminazione (ad esempio camici, giacche, ecc.); i materiali di tali indumenti sono permeabili all’aria;
-         a copertura completa: quando l’inquinante ha capacità di penetrazione tramite la pelle ovvero è in grado di intaccare la pelle stessa; si ricorre a indumenti alimentati ad aria fino ad arrivare a quelli impermeabili ai gas, in grado di isolare completamente l’operatore dall’ambiente esterno; i materiali di tali indumenti sono impermeabili all’aria.

E gli indumenti di protezione si possono suddividere anche in sottotipologie diverse che si differenziano, ad esempio, per il genere di rischio da cui ciascuna tipologia protegge e con riferimento al “livello di prestazione” (tale livello espresso da numeri, è ottenuto in laboratorio, a seguito di specifiche prove, non necessariamente riferite alle condizioni effettive sul posto di lavoro).
E dunque l’indumento di protezione dovrebbe essere selezionato tenendo conto delle condizioni e dei compiti relativi al processo dell’utilizzatore finale, considerando il rischio implicato e i dati forniti dal fabbricante nella nota informativa in relazione alle prestazioni dell’indumento di protezione contro il pericolo o i pericoli in questione.

Riportiamo in conclusione un elenco, parziale, di tipologie di indumenti di protezione:
-         indumenti di protezione in ambienti severi caldi e severi freddi;
-         indumenti di protezione per lavoratori dell’industria esposti al calore;
-         indumenti di protezione dalle radiazioni UV;
-         indumenti di protezione contro il calore ed il fuoco (calore per contatto);
-         indumenti di protezione per la saldatura e procedimenti similari;
-         indumenti protettivi per elettricisti;
-         indumenti di protezione contro le azioni meccaniche;
-         indumenti protettivi per operazioni di sabbiatura con abrasivi in grani;
-         indumenti di protezione da puntura o taglio;
-         indumenti per la protezione della parte inferiore del corpo;
-         indumenti per la protezione della parte superiore del corpo;
-         indumenti di protezione ventilati contro la contaminazione radioattiva sotto forma di particelle;
-         indumenti di protezione non ventilati contro la contaminazione radioattiva sotto forma di particelle;
-         indumenti di protezione contro le sostanze chimiche;
-         indumenti di Protezione contro microorganismi;
-         indumenti ad alta visibilità per uso professionale.

Il sito web di INFOR.MO. di cui nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 1048 e 3322 è il seguente:

Il documento “Impresa Sicura DPI” elaborato da EBER, EBAM, Regione Marche, Regione Emilia Romagna e INAIL è scaricabile all’indirizzo:




REQUISITI E COMPITI DEL RESPONSABILE DEL RISCHIO AMIANTO

Da: PuntoSicuro
04 novembre 2016

I ruoli e le competenze del Responsabile del Rischio Amianto nella gestione degli immobili contenenti amianto: un aiuto concreto per gli RSPP e i datori di lavoro.

Sono disponibili sul sito di INAIL gli atti del 9° Seminario di aggiornamento dei professionisti Contarp (Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione di INAIL) “Reti, sinergie, appropriatezza, innovazione: professioni tecniche verso il futuro della salute e sicurezza sul lavoro”.
Pubblichiamo un estratto tratto dalla sessione “Nuovi cicli e rapporti lavorativi, nuove tecnologie, nuovi rischi” a cura di Massera e Novembre di INAIL Direzione Generale Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione e Cavariani di AUSL Viterbo Centro Regionale Amianto del Lazio.

I RUOLI E LE COMPETENZE DEL RESPONSABILE DEL RISCHIO AMIANTO NELLA GESTIONE DEI PATRIMONI IMMOBILIARI

Salvo rari casi, una volta che in un edificio vengono individuati materiali contenenti amianto (MCA) non scatta automaticamente un obbligo di bonifica in capo al proprietario/gestore.
Nella quasi totalità dei casi si tratta di gestire il rischio legato alla presenza dei materiali con una serie di attività di controllo e prevenzione delle quali la bonifica, totale o parziale, può essere solo una delle fasi.

Tra queste misure la prima è quella della nomina del cosiddetto Responsabile Rischio Amianto (RRA), cioè il responsabile per la gestione dei MCA, figura disciplinata dal Punto 4 del D.M. 06/09/94. Il proprietario dell’edificio e/o il responsabile delle attività che si svolgono, una volta nominata questa figura, dovrà dare evidenza di aver provveduto, per sua mano, a:
-         redigere un piano di controllo e manutenzione per tutte le attività che potenzialmente potessero coinvolgere i MCA;
-         informare gli occupanti e le ditte terze della situazione rilevata;
-         etichettare i MCA rilevati a seguito delle risultanze analitiche;
-         verificare periodicamente lo stato di conservazione dei materiali;
-         procedere a monitoraggi periodici dell’aria per confutare eventuali contaminazioni.

In collaborazione con il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) lo stesso RRA dovrà verificare l’aggiornamento dei documenti unici di valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI e il coordinamento con tutti i vari soggetti a vario titolo coinvolti nelle attività dell’immobile in questione.

REQUISITI E ATTRIBUZIONI DEL RRA

Il RRA deve necessariamente avere un bagaglio di conoscenze e capacità specifiche:
-         deve saper coordinare e gestire al meglio le attività di manutenzione sui MCA;
-         deve essere in grado di accertare la presenza di materiali contenenti amianto per assistere il proprietario e/o il responsabile nelle attività di censimento;
-         deve conoscere e saper applicare le metodiche specifiche sulla valutazione dei rischi associati alla presenza dei materiali (indici versar, algoritmi, indici ecc.) in modo da assistere il suo committente su questa attività;
-         deve saper gestire le attività di custodia in modo codificato redigendo il piano di controllo e manutenzione sui MCA;
-         deve conoscere le tecniche di bonifica e i rischi, oltre che i costi, a queste associate in modo da indirizzare al meglio il proprio committente;
-         deve essere, caratteristica quest’ultima non specificata nel decreto ma di assoluta importanza, in grado di gestire la comunicazione del rischio, non di rado anche in condizioni critiche di contrapposizione tra le varie parti coinvolte nella gestione dei MCA (imprese, utenti, occupanti ecc.).

Relativamente ai compiti che la normativa affida al RRA, il quadro è meno complesso di quanto sembra. Il RRA ha l’unico compito di coordinare le attività manutentive che possono riguardare i MCA. Le altre attività quali i censimenti, le informative, la segnalazione dei materiali rimangono in capo al proprietario e/o al responsabile delle attività svolte nell’immobile così come precedentemente descritti.

Nella pratica comune il RRA è diventato il “responsabile del rischio amianto”, ma in verità lo spirito originario del Decreto era differente. Nell’ottica del 1994, anno in cui praticamente in ogni sito esistevano MCA, il RRA era una figura alla quale il legislatore intendeva affidare il compito di evitare che i materiali venissero perturbati per errato coordinamento tra i vari soggetti coinvolti nella loro custodia e manutenzione. E’ evidente che, considerata la professionalità necessaria per rivestire questo ruolo, il RRA diventa il referente a tutto tondo per il problema amianto in un edificio, ma è bene ricordare che la maggior parte delle attività che svolge le conduce in veste di figura che assiste il suo committente.

Coerentemente con quanto elencato finora, non sono stabilite sanzioni o ammende in capo al RRA per omissioni di natura prevenzionale.
Chiaramente questa figura potrebbe essere chiamata in causa per colpa professionale, in caso di errate valutazioni o di negligenza nella messa in atto dei propri compiti.
Non si può altresì escludere che il RRA venga, prima o poi, chiamato in causa per lesioni nei confronti di terzi; questo qualora delle patologie asbesto correlate venissero messe in relazione a sue omissioni o errate valutazioni. In ogni caso, a conferma della ridotta diffusione della figura del RRA e delle sue incerte attribuzioni normative, non si rilevano, allo stato, sentenze od orientamenti giurisprudenziali definiti nei confronti di questa figura.
Va anche detto che è verosimile pensare che la tendenza alla progressiva responsabilizzazione delle figure dei consulenti (Servizio di Prevenzione e Protezione compreso) prima o poi investirà anche la figura del RRA.

ATTIVITA’ E CRITICITA’ NELLA GESTIONE DEI PATRIMONI IMMOBILIARI

Fatte salve le difficoltà interpretative del ruolo del RRA di cui ai paragrafi precedenti (leggi documento integrale), questa figura ha assunto nel tempo sempre maggiore visibilità e importanza.
Questo lento processo di affermazione della figura del RRA, comunque incompleto, si è sviluppato di pari passo con l’aumento della percezione del rischio sul problema amianto dal 1994 a oggi.

La Contarp gestisce il rischio amianto in numerosi immobili con i propri professionisti e con il proprio Laboratorio di Igiene Industriale qualificato su diverse tecniche analitiche dal Ministero della sanità ai sensi del D.M. 14/05/96.
Le attività messe in campo per questo tipo di prestazioni, sintetizzate nella figura 1, sono quelle di seguito dettagliate:
-         effettuazione di censimenti e mappatura dell’amianto anche con ricorso a sistemi di localizzazione informatizzati;
-         assistenza agli RSPP per le valutazioni del rischio;
-         attività analitica per campioni massivi e analisi su membrana per varie centinaia di campioni all’anno;
-         redazione e divulgazione di informative per gli occupanti degli immobili e per le imprese a vario titolo presenti;
-         svolgimento di sedute di formazione e informazione;
-         segnalazione ed etichettatura di MCA, in particolare dei materiali soggetti a frequenti manutenzioni;
-         segnalazione agli organi di controllo e gestione dei rapporti con gli stessi mediante sopralluoghi congiunti e scambio di informazioni;
-         assistenza alla redazione di capitolati di appalto per attività di bonifica e di rimozione dei MCA;
-         assistenza al direttore dei lavori di cantieri di bonifica;
-         attività di campionamento e analisi per il controllo dei cantieri di bonifica con ricorso a laboratori qualificati e personale adeguatamente formato;
-         assistenza alla gestione dei rapporti con la stampa in occasione di casi particolari che sono andati all’attenzione del mass media;
-         assistenza ai committenti in occasione di contenziosi giudiziari.

CONCLUSIONI

Quello del RRA è un ruolo che si colloca a cavallo tra una normativa per molti versi superata e l’ottica gestionale attualmente più affermata per la salute e la sicurezza sul lavoro. Le attività connesse a questa figura hanno assunto sempre maggiore importanza con l’aumento della percezione del rischio amianto. Al tempo stesso, l’affermarsi di questa figura ha determinato eccessi di rischio professionale, conflittualità esasperate e difficoltà di azione.

Nella disamina di questo articolo sono state passate in rassegna alcune delle principali criticità sperimentate nella gestione del rischio amianto in patrimoni immobiliari. Le stesse potranno fornire spunti di riflessione nell’ottica della stesura dell’ormai improcrastinabile Testo Unico Amianto:
-         definire a livello nazionale e condiviso quali sono i requisiti professionali e il percorso formativo del RRA;
-         ridisegnare i ruoli individuando nel RRA una figura di consulente analoga a quella del RSPP con compiti e funzioni ben definiti sui censimenti e la gestione del rischio;
-         continuare l’attività di professionalizzazione dei laboratori qualificati a svolgere analisi sull’amianto individuando criteri coerenti con la delicatezza dei temi trattati;
-         estendere le competenze del RRA in modo da coprire anche le situazioni attualmente non comprese come le attrezzature e i terreni;
-         individuare indici di valutazione coerenti a livello nazionale, abbandonando le tentazioni localistiche che, evidentemente, non hanno riscontro in termini sanitari;
-         supportare l’attività di questa delicata figura con un’informazione coerente con le conoscenze in materia abbandonando le tentazioni sensazionalistiche che non concorrono a un’adeguata gestione di questo tema delicato.

In definitiva, a oltre 20 anni dalla data di istituzione di questa figura, stiamo assistendo all’affermazione e al riconoscimento dei compiti del RRA. Le attività descritte risentono comunque di una serie di limitazioni e contraddizioni introdotte dal progressivo legiferare in materia.
Conferma che è necessario supportare tutto il processo di gestione del rischio amianto, con lo snellimento e l’armonizzazione delle norme e che renda il quadro legislativo più coerente con le attuali conoscenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Il documento “I ruoli e le competenze del responsabile del rischio amianto nella gestione dei patrimoni immobiliari” è scaricabile all’indirizzo:


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