NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA
DEI LAVORATORI
INDICE
DISEGNO
DI LEGGE SACCONI: UNA LEGGE PER FAVORIRE L’INSICUREZZA SUL LAVORO
Da: Lavoro e Salute
Settembre 2016
Riparte
l’attacco ai diritti sulla sicurezza sul lavoro: pronto UN Disegno di Legge che
sottrae responsabilità agli imprenditori e ai manager pubblici.
L’onorevole Sacconi, per conto del Governo, ha presentato
un Disegno di Legge denominato “disposizioni per il miglioramento sostanziale
della salute e sicurezza dei lavoratori” in cui riscrive da capo la normativa
esistente, nello specifico il D.Lgs. 81/08.
Questa proposta governativa ha questi dichiarati
scopi:
-
eliminazione
della valutazione dei rischi e della definizione delle misure di prevenzione e
protezione e sostituzione con una “certificazione” redatta da un professionista
(tecnico della prevenzione e/o medico del lavoro) pagato dal datore di lavoro;
-
deresponsabilizzazione
del datore di lavoro in relazione a infortuni e a malattie professionali, se
avrà dimostrato, tramite la “certificazione”, di avere adempiuto agli obblighi
di legge;
-
sostanziale
eliminazione dell’obbligo di vigilanza a capo del datore di lavoro e
trasferimento della responsabilità a dirigenti, preposti e lavoratori stessi;
-
sgravi
fiscali per le aziende “virtuose”, sempre sulla base della semplice
“certificazione” del professionista;
-
riduzione
delle sanzioni, con l’introduzione, in caso di violazioni, di “disposizioni
esecutive”: le sanzioni ci saranno solo in caso di mancato rispetto di queste
ultime.
Il Governo quindi lancia, tramite un ex sindacalista,
l’ennesimo attacco alla condizione di chi lavora, con una motivazione tutta di
parte, imprenditoriale e aziendale, che non nasconde affatto: la tutela della
salute dei lavoratori è un costo da abbattere per le aziende.
Nulla
di nuovo in questo sistema produttivo assassino basato sull’insicurezza sul
lavoro che trova i suoi consapevoli complici in questo sistema politico con
decenni di governi amici degli imprenditori, coperti e coccolati con miliardi
di finanziamento statale.
Le
morti e gli infortuni sul lavoro sono di nuovo in crescita, così come le
malattie professionali. E’ scritto sul rapporto 2015 dell’INAIL: più di 600.000
denunce di infortuni, più di 1.200 quelle di morte (694 quelle accertate). Si
tratta però di stime al ribasso, visto che non tengono conto né di lavoratori
indipendenti (partite IVA, liberi professionisti...), né di lavoratori in nero
che, va da sé, non sono assicurati INAIL (e quindi non risultano nei loro
conti) e sono particolarmente presenti nei due settori a più alto rischio di
incidente e con la quota più alta di vittime mortali: agricoltura ed edilizia.
Ogni
giorno in Italia muoiono in media 3 lavoratori per infortuni sul luogo di
lavoro. Il fenomeno dei morti sul lavoro e delle malattie professionali sconta
un’informazione ufficiale che ne sottostima volutamente l’impatto sociale e
umano.
Da
gennaio a luglio 2016 sono 562 le persone che hanno perso la vita sul lavoro in
Italia. Un numero drammatico, comunque per difetto, che si traduce in una tragica
media di 77 vittime al mese, ossia 19 alla settimana. da luglio a oggi, inizi
settembre, i dati ancora incompleti parlano di mortalità senza soluzione di
continuità. Eppure, il Governo non ha nessuna vergogna a proporre la sua legge
d’impunità per i responsabili.
Per dirla con Karl Marx: “al padrone non interessa nulla
della vita e della salute dell’operaio, se non ci sono le leggi che glielo
impongono”.
Ad oggi una legge che glielo imponga non c’è, la stessa
“626 del 1994”
e la modifica “81 del 2008”
hanno lasciato ampi margini di inapplicabilità, tanto è vero che gli infortuni,
i morti e le malattie professionali non hanno mai avuto una flessione. Se non
si costruiscono rapporti di forza sociali e contrattuali fatta la legge tutto
rimane sulla carta.
Ora
questa riforma è stata appena presentata, parliamone con tra i colleghi sul
posto di lavoro, chiediamo un impegno di discussione e mobilitazione ai RLS che
a loro volta devono fare pressione sui sindacati perché non accettino
compromessi al ribasso che, come storia insegna, con la mortale scelta della
concertazione al posto della contrattazione, a rimetterci sono sempre i
lavoratori, nelle fabbriche come nei Servizi Pubblici, ormai accomunati dalla
stessa condizione di sfruttamento.
Quindi
quando parliamo di ospedale, ufficio della Pubblica Amministrazione, intendiamo
lo stesso stato di cose inerenti le condizioni di lavoro e di debolezza
sindacale.
Proponiamo alla discussione con i lavoratori e i RLS i
quattordici punti di programma di Medicina Democratica, per contrastare il
Disegno di Legge del governo e per rendere il D.Lgs. 81/08 applicabile dal
punto di vista sindacale e giuridico.
1 - Lotta a ogni forma di precariato sul lavoro e garanzia
della autorganizzazione in fabbrica da parte dei lavoratori quali condizione
preliminare per l’affermazione del diritto alla salute nei luoghi di lavoro
(attuazione concreta dell’articolo 9 dello Statuto dei lavoratori e delle
lavoratrici).
2 - Piena competenza dei compiti di vigilanza nei luoghi di
lavoro (in tutti i luoghi di lavoro) da parte dei servizi di prevenzione delle
ASL con relativo piano di assunzione di un numero di tecnici idoneo per
estendere i controlli in tutte le aziende.
3 - Responsabilità e autonomia decisionale dei tecnici
della prevenzione della ASL nella attuazione dei controlli programmati, in
emergenza e su richiesta dei lavoratori e delle loro rappresentanze.
Predominanza di interventi mirati e di qualità rispetto a criteri basati
esclusivamente sul numero dei controlli.
4 - Inasprimento delle sanzioni a carico del datore di
lavoro e dei dirigenti previste dalla normativa cogente per il mancato
adempimento degli obblighi relativi a diritto del lavoro e a tutela della
salute e sicurezza dei lavoratori.
5 - Ripristino del testo originale del D.Lgs. 81/08,
eliminando le modifiche peggiorative per la salute e la sicurezza dei
lavoratori introdotte dalle successive modifiche (D.Lgs. 106/09, Decreto “del
fare”, Decreto “semplificazioni”, Decreti attuativi del Jobs Act). Contrasto ad
ogni ulteriore modifica peggiorativa del D.Lgs. 81/08, come quella prospettata
dal Disegno di Legge Sacconi già presentato in Senato che comporterebbe una
drastica deresponsabilizzazione del datore di lavoro e la trasformazione della
valutazione dei rischi e la definizione conseguente delle misure di prevenzione
e protezione in una semplice “certificazione” da parte di un professionista
pagato dall’azienda.
6 - Sostenere la ripresa della conoscenza e coscienza dei
lavoratori con la promozione di sportelli salute e sicurezza autorganizzati e
gestiti dalle realtà locali, in una rete di associazioni, anche a sostegno dei
Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, che spesso operano senza validi
sostegni formativi.
7 - Creazione di una rete di assistenza tecnico/legale per
i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, quando, a seguito della loro attività,
subiscono discriminazioni da parte delle aziende.
8 - Previsione di pool di magistrati che si occupano di
salute e sicurezza sul lavoro in ogni Procura, con relativa formazione
specifica, creazione di una Procura Nazionale per la sicurezza sul lavoro.
9 - Ripresa e sviluppo del rapporto tra lavoratori e
tecnici sia per quanto riguarda i rischi lavorativi che quelli ambientali,
anche al fine della programmazione degli interventi per filiera produttiva o
rischio e della formazione e sensibilizzazione dei lavoratori sulla conoscenza
dei loro diritti rispetto a salute e sicurezza sul lavoro.
10 - Introduzione nel codice penale dei reati di omicidio
sul lavoro (revisione dell’apparato sanzionatorio del D.Lgs 81/08) e di
vessazioni sul lavoro (mobbing, discriminazione sul lavoro, violenza e stalking
sul lavoro) anche creando osservatori su tali temi e sostenendo quelli già
esistenti.
11 - Introduzione in maniera esplicita nel D.Lgs 81/08
dell’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di definire le relative
misure di prevenzione e protezione, anche tenendo conto dei dati epidemiologici
della coorte di riferimento, responsabilizzando i Medici Competenti.
12 - Passaggio delle competenze sul riconoscimento delle
malattie professionali dall’INAIL alle ASL, revisione delle tabelle sulle
malattie professionali (introducendo le neoplasie mancanti, patologie come Multiple Chemical Sensitività e sindrome da elettrosensibilità,
patologie psichiche e psicosomatiche lavoro correlate) e della tabella sulla
quantificazione del danno biologico. Contrasto con l’atteggiamento di chiusura
di enti (INAIL in primis) che non riconoscono o rendono impervio il
riconoscimento di malattie professionali.
13 - Promozione della ricerca attiva dei tumori
professionali da parte dei servizi di prevenzione delle ASL (utilizzo delle
indagini epidemiologiche per ricerche sui comparti a rischio) sull’esempio del
modello OCCAM.
14 - Piena attuazione ed estensione del
regolamento europeo REACH per le sostanze di maggiore pericolosità
(cancerogeni, mutageni e teratogeni) per arrivare al divieto di produzione e di
introduzione nei paesi aderenti alla Unione Europea.
CARENZE
NEI LUOGHI DI LAVORO: DOMANDE E RISPOSTE (PRIMA PARTE)
Da LavoroInSicurezza
LavoroInSicurezza.org
è un’iniziativa di Rete Iside onlus per lavoratori e lavoratrici, delegati
sindacali e cittadini.
Uno strumento di intervento
per promuovere una nuova cultura della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Un progetto totalmente autofinanziato e indipendente.
Tra le varie sezioni
del sito, vi è quella “Domande/Risposte” dedicata appunto a fornire risposte a
domande poste da lavoratori sui temi della tutela della salute e sicurezza:
La Sezione è divisa nei
seguenti settori:
RISCHI PER LA SALUTE
PREVENZIONE-PROTEZIONE
-
esposizione
ad agenti chimico-fisici;
-
rischi
muscolo-scheletrici;
-
rischi
nei lavori ai videoterminali;
-
rischi
nella guida dei veicoli;
-
rischi
da stress lavoro correlato.
RISCHI PER LA SICUREZZA
PREVENZIONE-PROTEZIONE
-
attrezzature
di lavoro (macchine, utensili elettrici, attrezzi manuali ecc);
-
apparecchiature
per la movimentazione delle merci;
-
carenze
nei luoghi di lavoro.
Nel presente numero
della mia Newsletter riporto le Domande/Risposte relative al tema “Carenze nei
luoghi di lavoro (prima parte)”.
Marco Spezia
* * * * *
DOMANDA
Sono un RLS in una
azienda che esegue lavorazioni di rivestimento per interni (sottotetto, portiere
ecc.) su autovetture.
Giorni fa mandai
all’azienda una richiesta di ripristino dei beverini citando il D.Lgs. 81/08 (“nelle vicinanze deve essere messa a
disposizione dei lavoratori acqua in quantità sufficiente”).
L’azienda ha risposto
attraverso un comunicato che i beverini non garantirebbero le necessarie
condizioni di igiene previste dalla normativa in materia e che sono stati installati
dei distributori automatici.
Quindi per bere, in
un ambiente di lavoro molto caldo, siamo costretti a sostenere ulteriori spese.
Come posso risolvere questo problema.
Grazie.
RISPOSTA
Il punto
dell’allegato IV del D.Lgs. 81/08, che citi, afferma con chiarezza l’obbligo
del datore di lavoro rispetto alla dotazione di acqua potabile, che deve essere
in quantità sufficiente
rispetto alle necessità dei lavoratori, tenendo anche in considerazione le
temperature. L’acqua potabile non può
essere a carico del lavoratore.
Ti consigliamo di
scrivere una lettera al datore di lavoro e al RSPP in cui, ai sensi del punto
1.13.1. dell’allegato IV del D.Lgs. 81/08, si richiede la dotazione di acqua
potabile sufficiente ed adeguata, e si specifica che se entro pochi giorni le
richieste non sono soddisfatte i lavoratori si rivolgeranno agli organi di
vigilanza territoriali (ASL).
* * * * *
DOMANDA
Buongiorno sono una
RSA della USB di un’azienda della grande distribuzione organizzata.
Avrei bisogno di
avere un aiuto sul problema delle temperature in linea cassa, abbiamo molto
caldo e accusiamo una mancanza di ventilazione, nonostante delle ventole che si
trovano direzionate verso il suolo a circa un metro e mezzo dalla nostra
postazione.
Tuttavia nei giorni
di maggiore afflusso, le molte persone e il banco frigo che si trova alle nostre
spalle rendono la situazione insopportabile. Abbiamo oltretutto delle divise
sintetiche che non aiutano la traspirazione. Inoltre noi svolgiamo un lavoro un
po’ diverso dal comune cassiere in quanto movimentiamo anche carichi leggeri.
Ho misurato con un
termometro ambientale la temperatura nel mio posto di lavoro in cassa e
risultava di 28 gradi e 50% di umidità. Ho segnalato il problema all’azienda
che risponde che loro hanno il sistema di refrigerazione al massimo e che più
di questo non possono fare, negli uffici ho misurato temperature di 25 gradi
con lavoro sedentario.
Cosa possiamo fare?
Ci sono delle temperature massime stabilite per legge? Tra i cassieri ci sono
anche lavoratori delle categorie protette, quindi con già dei problemi di
salute.
RISPOSTA
Salve, la questione è
delicata e in queste giornate molto calde una non adeguata temperatura può
avere ripercussioni sulla salute dei lavoratori. Quindi ti indichiamo il quadro
normativo che definisce le questioni sulla temperatura dei locali di lavoro.
L’Allegato IV (punto 1.9.2.1.08 “Temperatura
dei locali”) del D.Lgs. 81/08, non specifica i gradi ottimali della
temperatura dei locali di lavoro, dice solo che “La temperatura nei locali di lavoro deve essere adeguata all’organismo
umano durante il tempo di lavoro, tenuto conto dei metodi di lavoro applicati e
degli sforzi fisici imposti ai lavoratori”.
In teoria, quindi,
per definire la temperatura adeguata l’azienda deve fare un’indagine specifica
nei propri locali.
Per avere dei
riferimenti sul rapporto, in generale, tra tipologia di attività e temperatura
adeguata bisogna fare riferimento alla norma
tecnica ISO 7730, in base alla quale per un’attività sedentaria
(ad esempio cassiera) la temperatura adeguata è di 21-23 gradi; quando la temperatura
esterna è elevata, la temperatura interna deve essere corretta verso l’alto (di
circa 2 gradi). Questa norma afferma, inoltre, che fino ad una temperatura interna pari a 24 gradi si dovrebbe in generale
rinunciare al condizionamento dell’aria.
Considerato l’obbligo
del datore di lavoro, per la tutela della salute dei lavoratori, di adeguarsi
alle norme tecniche, ti consigliamo di scrivere una lettera, indirizzata al
datore di lavoro (o al dirigente con delega sulla salute e sicurezza) e al
RSPP, in cui si richiede di adottare le misure necessarie per adeguare la
temperatura dei locali di lavoro in modo che oscilli tra i 23-25 gradi nel
periodo estivo ai sensi dell’allegato 4 (punto 1.9.2.1.08) del D.Lgs. 81/08 e
della norma ISO 7730. Inoltre puoi rivolgerti anche agli organi di vigilanza
territoriali (ASL) per richiedere una valutazione del livello di rischio per la
salute dei lavoratori.
* * * * *
DOMANDA
Buonasera sono un
lavoratore manovratore, delegato sindacale e RLS, in una società di servizi.
Da qualche giorno è
arrivato un container prefabbricato acquistato dalla società che sarà destinato
a breve come locale spogliatoio e servizio docce e bagni per 34 unità
lavorative.
Il container misura
circa 4,5 metri
di larghezza per 6 metri
di lunghezza, è costituito da due moduli abitativi uno con docce e bagni e
l’altro, attaccato al primo, con locale vestizione e spogliatoio. Considerando
che nei circa 13,5 mq di locale spogliatoio e vestizione ci saranno 17
armadietti che ricoprono una superficie di 3,40 mq, rimarrebbero liberi solo 10
mq. Nel mio turno di notte siamo circa 16 lavoratori, considerando i riposi,
ogni sera sono attive 12 unità lavorative. E’ secondo voi adeguato lo spazio
destinato?
Questo container è
stato posizionato in un un’area di percorrenza, movimentazione e stallo di
autobus di 12 metri
a metano, che sostano accesi a meno di 2 metri dal container. Inoltre essendo un’area
di transito vedo il pericolo che una errata manovra comporterebbe la
distruzione del container e di chi in quel momento è all’interno. Ci sono delle
norme che stabiliscono la localizzazione di tali strutture?
RISPOSTA
Per quanto riguarda le dimensioni del container di servizio,
gli allegati IV e XIII del D.Lgs. 81/08 non specificano i metri quadri minimi
degli spogliatoi di locali di lavoro e container di cantiere; la definizione di
questi aspetti è demandata agli uffici
tecnici e ASL a livello territoriale. Noi purtroppo non abbiamo ancora i
dati previsti nella tua regione, ma possiamo risponderti considerando per
analogia i dati di altre regioni, in cui si stabilisce che gli spogliatoi
devono avere 1,20 mq per addetto, con una superficie minima di 6 mq; nel caso
vengano effettuati turni, la superficie per addetto per turno deve essere di
1,5 mq; devono essere comunque garantite dimensioni e spazi sufficienti
all’uso. In sintesi, almeno secondo questi criteri, per i 16 lavoratori del
turno di notte le dimensioni del container dovrebbero essere almeno di 24 mq
(1,5 mq x 16).
Per quanto riguarda i
requisiti di sicurezza nella collocazione del container, dalla tua descrizione
si evidenziano rischi abbastanza seri; i container-spogliatoi non possono
assolutamente essere collocati nell’area di manovra di veicoli, con rischio di
urti ecc.
Questo aspetto
dovrebbe essere stato analizzato nel Documento
Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza (DUVRI). Ti consigliamo
di fare una richiesta scritta, al datore di lavoro e al RSPP, in cui chiedi
copia del DUVRI, segnali il problema e chiedi l’adozione immediata di misure
per eliminare i rischi di sicurezza per i lavoratori. Se non ottieni risposte
in tempi rapidi ti conviene rivolgerti agli organi di vigilanza territoriali.
* * * * *
DOMANDA
Buongiorno, lavoro in
un comune nell’area tecnico manutentiva.
Il nostro
“magazzino”, cioè il punto di partenza e arrivo di tutti i lavori giornalieri,
a volte anche posto di lavoro in quanto si trova un officina meccanica, rimessa
per tutti gli automezzi, spogliatoio e bagni ecc. non dispone di acqua
potabile: l’unica acqua che disponiamo è quella di un pozzo li vicino che è
stata convogliata nelle tubature dei bagni, (naturalmente specialmente d’estate
l’acqua puzza e arriva mista a terra).
Abbiamo più volte
fatto presente al nostro ingegnere e al responsabile della sicurezza il problema
ma non abbiamo risolto e non abbiamo risposte.
RISPOSTA
L’assenza di acqua
potabile in un luogo di lavoro è molto grave.
L’allegato IV del
D.Lgs. 81/08 al punto 1.13.1 dice esplicitamente: “Nei luoghi di lavoro o nelle loro immediate vicinanze deve essere
messa a disposizione dei lavoratori acqua in quantità sufficiente, tanto per
uso potabile quanto per lavarsi. Per la provvista, la conservazione e la distribuzione
dell’acqua devono osservarsi le norme igieniche atte ad evitarne l’inquinamento
e ad impedire la diffusione di malattie”.
Ti consigliamo,
quindi, di scrivere una lettera al dirigente (con delega su salute e sicurezza
lavoro) e al RSPP, in cui chiedi di dotare immediatamente i locali, in quanto
luogo di lavoro, di acqua potabile (ai sensi degli articoli 62 e 63 e
dell’allegato IV (punto 1.13.1) del D.Lgs. 81/08).
* * * * *
DOMANDA
Buongiorno, lavoro in
un ufficio pubblico dove non sempre il sistema di condizionamento dell’aria
funziona.
Abbiamo rilevato
temperature interne che variano tra i 27 e i 30 gradi.
In termini di
sicurezza o di stress termico esiste un limite massimo delle temperature oltre
il quale non si dovrebbe lavorare?
Ringrazio
anticipatamente e auguro buon lavoro.
RISPOSTA
L’Allegato IV (punto
1.9.2.1.08 “Temperatura dei locali”) del D.Lgs. 81/08, non specifica i gradi
ottimali della temperatura dei locali di lavoro, dice solo che “La temperatura nei locali di lavoro deve
essere adeguata all’organismo umano durante il tempo di lavoro, tenuto conto
dei metodi di lavoro applicati e degli sforzi fisici imposti ai lavoratori”.
In teoria, quindi, per definire la temperatura adeguata l’azienda deve fare
un’indagine specifica nei propri locali.
Per avere dei
riferimenti sul rapporto, in generale, tra tipologia di attività e temperatura
adeguata bisogna fare riferimento alla norma tecnica ISO 7730. Secondo questa
norma per un’attività sedentaria (di tipo intellettuale) la temperatura
adeguata è di 21-23 gradi; quando la temperatura esterna è elevata, la
temperatura interna deve essere corretta verso l’alto (di circa 2 gradi).
Questa norma afferma, inoltre, che: “fino ad una temperatura interna pari a 24
gradi si dovrebbe in generale rinunciare al condizionamento dell’aria”.
In sintesi, quindi,
considerato l’obbligo del datore di lavoro, per la tutela della salute dei lavoratori,
di adeguarsi alle norme tecniche, si può scrivere una lettera (indirizzata al
datore di lavoro o dirigente con delega sulla salute e sicurezza e al RSPP) in
cui si specifica che: “ai sensi
dell’allegato IV (punto 1.9.2.1.08) del D.Lgs. 81/08 e della norma ISO 7730, si
richiede di adottare le misure necessarie per adeguare la temperatura dei
locali di lavoro i modo che oscilli tra i 23-25 gradi (nel periodo estivo)”.
CAPORALATO:
APPROVATO DALLA CAMERA IN VIA DEFINITIVA IL DISEGNO DI LEGGE
Da Studio Cataldi
20 ottobre 2016
di Marina Crisafi
CAPORALATO: IL DDL E’
LEGGE: 6 ANNI DI CARCERE PER CHI SFRUTTA I LAVORATORI
TUTTE LE NOVITA’ E IL
TESTO DELLA LEGGE DA SCARICARE
E' arrivato nella
serata di ieri il via libera definitivo alla nuova Legge contro il caporalato,
fortemente voluta dal Ministro delle politiche agricole Maurizio Martina e
attesa da tempo.
La
Camera
ha dato l'OK (con 190 voti a favore, 32 astenuti e nessun contrario) al testo,
nella veste approvata dal Senato lo scorso agosto, che mira a garantire una
maggiore efficacia all'azione di contrasto del caporalato, introducendo
significative modifiche all'attuale disciplina e inasprendo le pene (con
carcere fino a 6 anni e confisca dei beni) per chi sfrutta i lavoratori
dell'agricoltura.
Il fenomeno del
caporalato, ossia "l'intermediazione illegale e lo sfruttamento
lavorativo, prevalentemente in agricoltura" coinvolge, oggi, secondo le
stime, circa 400.000 lavoratori in Italia, sia italiani che stranieri, ed è
diffuso in tutte le aree del Paese.
Con questa Legge,
attesa da almeno cinque anni, ora ci sono, secondo il Ministro Martina gli
"strumenti utili per continuare una battaglia che deve essere quotidiana,
perché sulla dignità delle persone non si tratta".
Ecco le novità in
pillole.
IL NUOVO REATO DI
CAPORALATO
La nuova Legge, che
si compone di 12 articoli, riscrive innanzitutto il reato di caporalato introducendo
la sanzionabilità anche del datore di lavoro, l'applicazione di un'attenuante
nel caso di collaborazione con le autorità; l'arresto obbligatorio in flagranza
di reato; il rafforzamento dell'istituto della confisca e l'adozione di misure
cautelari e il potenziamento della "Rete del lavoro agricolo di
qualità", in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro
nero in agricoltura.
LE SANZIONI
In particolare, il
provvedimento riformula il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento
del lavoro, già inserito all'articolo 603-bis del Codice Penale, prevedendo la
pena della reclusione da uno a sei anni per l'intermediario e per il datore di
lavoro e la multa da 500 a
1.000 euro per ogni lavoratore reclutato, approfittando del loro stato di
bisogno.
Viene sancito,
inoltre, che se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, la pena
della reclusione, rispetto alla fattispecie-base, aumenta da cinque a otto anni
e la multa da 1.000 a
2.000 euro per ogni lavoratore reclutato; è previsto l'arresto in flagranza.
Le nuove regole
individuano quale indice di sfruttamento anche la corresponsione reiterata di
"retribuzioni palesemente difformi dai contratti collettivi
territoriali" e la violazione delle norme sugli orari di lavoro di lavoro
e sui periodi di riposo".
Previste attenuanti
per si adopera a evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze
ulteriori o per assicurare le prove dei reati o l'individuazione degli altri
responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite.
LA CONFISCA DEI BENI
La nuova Legge,
inoltre, sancisce che, come avviene con le organizzazioni criminali mafiose, al
reato si accompagni sempre la confisca obbligatoria dei beni, del denaro o
delle altre utilità di cui il condannato risulti titolare (o abbia la
disponibilità a qualsiasi titolo) e non possa giustificarne la provenienza.
LA TUTELA DELLE VITTIME
Il provvedimento
inoltre estende le finalità del Fondo Anti-tratta anche alle vittime del reato
di caporalato, prevedendo l'assegnazione dei proventi delle confische ordinate
a seguito di sentenza di condanna o di patteggiamento per il delitto ai sensi
dell’ articolo 603-bis del Codice Penale.
La modifica comporta
la destinazione delle risorse del Fondo anche all'indennizzo delle vittime del
reato di caporalato.
L'ultima parte del
provvedimenti introduce, infine, diverse misure di sostegno e di tutela del
lavoro agricolo.
Il Disegno di Legge,
come approvato dalla Camera è scaricabile all’indirizzo:
MACCHINE
MARCATE CE PRIVE DEI REQUISITI ESSENZIALI DI SICUREZZA
Da: PuntoSicuro
17 ottobre 2016
di Gerardo Porreca
Il datore di lavoro è responsabile delle
lesioni al lavoratore se ha consentito l’utilizzo di una macchina che pur
conforme alla normativa CE per come è stata progettata e assemblata lo abbia
esposto al rischio che ha portato all’infortunio.
Torna la Corte di Cassazione ad occuparsi della sicurezza
delle macchine che, benché dotate per come progettate e assemblate della regolare
marcatura CE garantita dal costruttore, abbiano provocato l’infortunio di un
lavoratore che lavorava presso le stesse legato alla carenza delle misure
previste dalle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro e fornisce in
questa occasione indirizzi che, per la verità, già si riscontrano in precedenti
espressioni della stessa Corte.
Ha in sostanza affermato la suprema Corte in
questa sentenza che pure se l’evento dannoso sia stato provocato
dall’inosservanza alle cautele antinfortunistiche in fase di progettazione e di
fabbricazione della macchina non è comunque esclusa la responsabilità del
datore di lavoro sul quale in ogni caso grava l’obbligo di eliminare le fonti
di pericolo per i lavoratori dipendenti che la debbono utilizzare e di adottare
nell’impresa i più moderni strumenti che la tecnica offre per garantire la
sicurezza dei lavoratori. La dotazione della marcatura CE, ha infatti ribadito
la suprema Corte, non dà ingresso all’esonero alle norme generali del codice
penale come risulta anche dalla lettura delle norme in materia di salute e
sicurezza sul lavoro.
La
Corte
di Appello ha confermata la sentenza del Tribunale appellata
dall’amministratrice unica di una società che era stata tratta a giudizio e
condannata per rispondere, nella sua qualità di datore di lavoro, del reato di
cui all’articolo 590 commi 1, 2 e 3 del Codice Penale, per aver cagionato
lesioni personali gravissime a un dipendente della società medesima per colpa
consistita nella violazione di norme antinfortunistiche. Il dipendente, quale
addetto al controllo e alla pulizia dell’impianto di trattamento dei rifiuti
installato sul luogo di lavoro, per rimuovere un pezzo di metallo incastrato
tra i cingoli di uno dei nastri trasportatori, aveva infilato il braccio destro
tra le parti in movimento della macchina, non munite della protezione prevista
negli allegati all’articolo 71 del D.P.R. 547/55 e all’articolo 70 del D.Lgs.
81/08 per evitare il pericolo che venissero afferrate e trascinate parti del
corpo degli operatori, per cui il braccio del lavoratore era stato agganciato
dal nastro trasportatore e schiacciato dagli ingranaggi perdendo gran parte
della originaria funzionalità.
Avverso tale sentenza l’amministratrice ha
fatto ricorso alla Corte di Cassazione a mezzo del difensore di fiducia
deducendo un vizio di motivazione e travisamento della prova.
La
Corte
di Cassazione ha rigettato il ricorso e ha pertanto confermata la condanna
dell’imputata. La stessa Corte, contrariamente all’assunto della ricorrente, ha
ritenuta logica e congrua la sentenza impugnata per avere espresso il proprio
convincimento in modo logico ed argomentato, riscontrato da argomentazioni
fattuali compatibili logicamente con la soluzione adottata.
Quanto al merito delle singole censure, la
suprema Corte ha fatto osservare che, la circostanza che il costruttore della
macchina sia stato assolto, non essendo stato possibile stabilire se la
macchina al momento della consegna alla società fosse dotata o meno
dell’obbligatorio riparo fisso destinato ad impedire l’accesso degli arti e del
corpo dei lavoratori è stata ininfluente sulla posizione della ricorrente e ciò
anche accedendo alla tesi propugnata in ricorso che il nastro in questione
fosse “ab origine” privo della protezione in questione. Come precisato dalla
giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti, ha precisato la Sezione IV, “il datore
di lavoro è responsabile delle lesioni patite dall’operaio, allorquando abbia
consentito l’utilizzo di una macchina, la quale, pur astrattamente conforme
alla normativa CE, per come assemblata e in pratica utilizzata abbia esposto i
lavoratori a rischi del tipo di quello in concreto realizzatosi (vedi Sentenza
della Corte di Cassazione Sezione IV n. 49670 del 23/10/14). I marchi di
conformità CE limitano infatti la loro efficacia (articoli 6 e 36 del D.Lgs.
626/94) a rendere lecita la produzione, il commercio e la concessione in uso
delle macchine che, caratterizzate dal marchio, risultano essere rispondenti ai
requisiti essenziali di sicurezza previsti nelle disposizioni legislative e
regolamentari vigenti, ma la dotazione di tali marchi non da ingresso ad
esonero dalle norme generali del codice penale come è specificamente fatto
chiaro anche dal testo degli articoli 35, comma 3, lettera b) e 37 del D.Lgs.
626/94 (vigente al momento dell’infortunio)”
La responsabilità del costruttore peraltro,
ha tenuto a precisare la Corte
di Cassazione, nel caso in cui l’evento dannoso sia provocato dall’inosservanza
delle cautele antinfortunistiche nella progettazione e nella fabbricazione di
una macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro, sul quale
grava l’obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti
che debbano utilizzare la predetta macchina e di adottare nell’impresa tutti i
più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei
lavoratori, potendosi fare eccezione a detta regola nella sola ipotesi in cui
l’accertamento di un elemento di pericolo nella macchina o di un suo vizio di
progettazione o di costruzione sia reso impossibile per le speciali
caratteristiche della macchina stessa o del vizio che abbiano impedito di
apprezzarne la sussistenza con l’ordinaria diligenza.
Nel caso in esame, ha sostenuto la Sezione IV, come
sottolineato dai giudici di merito, la mancanza dell’elemento di protezione era
particolarmente evidente, e per molti versi, vistosa, tale, comunque, da non
poter sfuggire, senza incorrere in grossolana negligenza. E peraltro che ciò
non fosse in concreto sfuggito nel caso particolare è emerso chiaramente ove si
consideri che erano state fornite ai lavoratori espresse indicazioni su come
intervenire sulla macchina in questione e sulla necessità di procedere prima al
fermo della macchina stessa e quindi non vi era un vizio occulto, insidioso o,
comunque, non percepibile.
Quanto al presunto contributo colposo della
vittima la suprema ha fatto osservare che il rispetto delle norme prevenzionali
ha lo scopo di prevenire e ridurre al minimo il rischio di incidenti che è
fisiologico possano avere alla base l’errore dell’operatore, generato dalla
reiterazione, dalle fisiologiche cadute d’attenzione nell’arco di tutto il
tempo lavorativo ed anche, talvolta da vere e proprie distrazioni o imprudenze.
E’ proprio al fine di scongiurare degli infortuni che si possono evitare
rispettando le norme che determinati soggetti sono chiamati al ruolo di garanzia
in favore degli operatori esposti al rischio infortunistico, senza che i primi
possano pretendere esonero da responsabilità ove si accerti una condotta inadeguata
del lavoratore, salvo l’abnormità.
Nel caso posto all’esame della Corte di
Cassazione, invece, l’infortunato, come anche sottolineato dalla Corte
Territoriale, si era limitato a compiere un gesto istintivo (liberare il
macchinario da un frammento di alluminio) del tutto coerente con le sue
mansioni. In ogni caso, ha soggiunto la Sezione IV, non può assumere alcun apprezzabile
rilievo penalistico la manovra o la condotta del lavoratore che in qualche
misura abbia contribuito all’infortunio, trattandosi di circostanza tipica e
fisiologica, correlata, come sopra detto, alla ripetizione del gesto, allo
stress lavorativo e alle complessive condizioni psicofisiche del soggetto,
rientrante nel rischio d’impresa e in quello prevenzionale, posto a base delle
norme antinfortunistiche.
La Suprema Corte ha ritenuto a tal
punto opportuno richiamare una recentissima sentenza della Corte medesima, la
n. 8883 del 10/02/16, con la quale la stessa ha precisato come in tema di
infortuni sul lavoro, il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una
valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata
attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza e ha
adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non
risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante e imprevedibilmente
colposa del lavoratore, mettendo in evidenza che il sistema della normativa
antinfortunistica si è evoluto passando da un modello “iperprotettivo”, interamente
incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito
di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, a un modello
“collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i
lavoratori. Nel caso di quella sentenza però, conclude la Corte di Cassazione, è stato
comunque provato che il datore di lavoro aveva fornito tutti i mezzi idonei
alla prevenzione e adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua
posizione di garanzia, il che è stato escluso nel caso in esame.
La Sentenza della Corte di
Cassazione Penale Sezione IV n. 40702 del 29/09/16 “Il datore di lavoro è
responsabile delle lesioni patite da un lavoratore se ha consentito l’utilizzo
di una macchina che pur conforme alla normativa CE per come è stata progettata
e assemblata lo abbia esposto al rischio che ha portato all’infortunio” è
scaricabile all’indirizzo:
La Sentenza della Corte di
Cassazione Penale Sezione IV n. 8883 del 03/03/19 “Caduta dal tetto del
capannone. Assoluzione di un datore di lavoro e di un RSPP: tutte le cautele
possibili da assumersi ex ante erano state assunte” è scaricabile
all’indirizzo:
L’ESPOSIZIONE
AD AGENTI CANCEROGENI E LA SORVEGLIANZA SANITARIA
Da: PuntoSicuro
19 ottobre 2016
di Tiziano Menduto
Un nuovo documento, elaborato da diversi
operatori dei Servizi ASL, affronta il tema dell’esposizione agli agenti cancerogeni,
della normativa vigente e della sorveglianza sanitaria. Quando intraprenderla e
per quanto tempo protrarla?
Qualsiasi sistema sanitario che progetti e
realizzi programmi di sorveglianza sanitaria non può limitarsi a obiettivi di
natura conoscitiva generale, ma deve avere lo scopo di fare qualcosa di buono
per i gruppi di popolazione in studio. E l’applicazione dell’articolo 242 del
D.Lgs. 81/08 per tutti i cancerogeni escluso l’amianto e dell’articolo 259 del
medesimo Decreto per l’amianto vuol dire, in primo luogo, progettare e
realizzare dei programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc che consentano la
diagnosi precoce utile e il trattamento precoce utile di un numero adeguato di
casi incidenti di tumore.
A sottolinearlo, parlando di sorveglianza sanitaria relativa ai cancerogeni occupazionali, è un recente documento, elaborato e concluso nel mese di settembre 2016, da un nutrito gruppo di operatori dei Servizi ASL prendendo spunto dai documenti e dai confronti seguiti ad alcuni seminari e workshop che si sono tenuti ad Ancona nel mese di giugno, organizzati dalla Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione (SNOP) insieme al’’Azienda Sanitaria Unica Regionale (ASUR) Marche Area Vasta 3.
Il documento (dal titolo “Applicazione degli
articoli 236, 242, 243 e 244 del D.Lgs. 81/08. Valutazione dell’esposizione ad
agenti cancerogeni e del rischio che ne consegue. Indicazioni per la
classificazione dei lavoratori come professionalmente esposti ad agenti
cancerogeni, la loro conseguente registrazione e lo svolgimento di programmi di
sorveglianza sanitaria ad hoc. La questione degli ex-esposti ad agenti
cancerogeni in ambiente di lavoro”) contiene varie proposte sia per modifiche
evolutive di alcuni articoli del Titolo IX (Sostanze pericolose) del D.Lgs.
81/08, sia per un’applicazione sostenibile ed efficace dell’attuale testo di
legge. Una prospettiva di intervento di ampio respiro e particolare rilievo che
(come ricordato da SNOP) è presentata in un momento storico in cui parrebbero
farsi avanti solo ipotesi di revisioni normative “al ribasso” delle già (nella
pratica) insufficienti garanzie di tutela della sicurezza e della salute dei
lavoratori nel nostro Paese.
Il documento riporta inizialmente la “storia”
dell’attenzione al tema degli agenti cancerogeni occupazionali, mostrando come
sia cambiata nel tempo la situazione, e si sofferma sulla “quantità” degli
esposti agli agenti cancerogeni e sulla normativa vigente in Italia.
Riguardo alla normativa sono indicate alcune
difficoltà oggettive di interpretazione e applicazione, soprattutto per le tre
situazioni indicate:
-
l’esistenza
di un’esposizione ad agenti cancerogeni non è immediatamente identificabile, ad
esempio perché un cancerogeno chimico non è presente fin dall’inizio tra le
materie prime e/o gli ausiliari di produzione in uso, ma viene a formarsi ex
novo nel corso del processo produttivo;
-
l’esistenza
di un’esposizione ad agenti cancerogeni è nota, ma si tratta di agenti
ubiquitari e presenti in ambiente di lavoro a livelli di intensità non particolarmente
elevati, tali per cui non è immediatamente chiaro se si stia trattando, in
realtà, di niente più che della situazione della popolazione generale non
professionalmente esposta;
-
l’esistenza
di un’esposizione ad agenti cancerogeni è nota e questa si mostra, per
tipologia degli agenti e livello di intensità dell’esposizione, di natura
indiscutibilmente professionale, ma l’esposizione medesima è “sporadica” e di
“debole” intensità.
E manca tuttora, infine, una chiarificazione
inequivocabile del “perché?” complessivo della registrazione di esposizioni ed
esposti e dell’attivazione di programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc, a
evitare che azioni impegnative, potenzialmente di grande rilevanza
prevenzionistica ma anche, in potenza, tutt’altro che scevre di effetti
collaterali negativi (soprattutto in un’epoca in cui molti spingono per una
restrizione del welfare pubblico a tutto favore delle assicurazioni sanitarie
private), si avviassero in maniera caotica e afinalistica, come meri
adempimenti di legge da realizzare al solo scopo di mettersi al riparo da
future contestazioni.
Il documento con lo scopo di sollecitare
un’adeguata attenzione istituzionale e scientifica al problema “cancerogeni
occupazionali e tumori professionali” e di fornire un contributo tecnico per
l’individuazione di soluzioni ai problemi tuttora aperti, ha cercato di
sviluppare tre argomenti che sono rimasti negli anni particolarmente critici:
-
chi
considerare professionalmente esposto ad agenti cancerogeni;
-
come
articolare un programma di sorveglianza sanitaria ad hoc, attivato ai sensi
dell’articolo 242 del D.Lgs. 81/08;
-
cosa
deve conseguire alla registrazione dell’esposizione occupazionale a cancerogeni
e all’istituzione di un’apposita cartella sanitaria e di rischio in applicazione
dell’articolo 243 del D.Lgs 81/08.
Ci soffermiamo brevemente sul tema della
sorveglianza sanitaria.
Ad esempio gli autori ricordano che va
definito da quando intraprendere la sorveglianza sanitaria e per quanto tempo
protrarla.
Infatti i tumori hanno tempi di
induzione-latenza diversi ma comunque dell’ordine degli anni (da alcuni anni,
come per una parte delle leucemie, a diversi decenni, come per mesoteliomi e
carcinomi naso-sinusali). Nessun tumore di origine professionale insorgerà
quindi nei “primi” anni dopo l’inizio dell’esposizione (a fini operativi, il
termine “primi” va espressamente definito per ciascun tipo di neoplasia).
Insomma va definito, per ciascun tipo di neoplasia da monitorare, un lag
temporale prima che sia trascorso il quale sarà inutile far entrare un soggetto
in un programma di sorveglianza sanitaria ad hoc, peraltro non eccessivamente
lungo, a evitare che sfuggano proprio le alterazioni precoci di cui si va alla
ricerca. Inoltre dobbiamo attenderci che solo una quota dei tumori
professionali insorgerà in soggetti ancora esposti e che molti di essi si
manifesteranno invece in soggetti non più esposti (o perché continuano a
lavorare, ma l’esposizione è cessata, o perché proprio non lavorano più). Una
volta entrato in un programma di sorveglianza sanitaria ad hoc, va previsto che
un soggetto vi rimanga per anni, anche dopo il termine dell’esposizione.
Ma, d’altra parte, è anche ragionevole
aspettarsi che l’effetto cancerogeno dell’esposizione, pur protraendosi a
lungo, tenderà a scemare con il trascorrere del tempo dalla cessazione
dell’esposizione medesima, per cui il gettito di nuovi casi di cancro alla cui
causazione essa ha contributo tenderà a diminuire. Tuttavia questa diminuzione
dell’effetto dell’esposizione ha tempistiche diverse a seconda dei tipi di
agente e di cancro: va quindi definito, caso per caso, per quanto tempo sia
utile protrarre la sorveglianza sanitaria ad hoc dopo la cessazione
dell’esposizione, tenuto conto del numero delle persone da tenere sotto
osservazione e del numero di casi di cancro che ci si aspetta di poter
individuare precocemente tra di esse.
Il documento si sofferma poi sul programma di
screening oncologico e le condizioni di sostenibilità, sull’importanza di
fornire informazioni e counselling adeguati e su altri molti aspetti ed
elementi utili alla sorveglianza sanitaria.
Concludiamo ricordando quanto indicato dagli
autori riguardo ai soggetti che abbiano sperimentato un’esposizione a
cancerogeni significativa, ma limitata nel tempo: come devono essere
considerati e, soprattutto, cosa deve essere loro garantito?
Si indica che, a tal proposito, è di supporto
l’articolato del D.Lgs. 81/08 specificamente dedicato all’amianto, la cui
logica si propone di estendere anche a tutti gli altri agenti cancerogeni.
Il documento ne riporta uno stralcio: “I
lavoratori che durante la loro attività sono stati iscritti anche una sola
volta nel registro degli esposti di cui all’articolo 243, comma 1, sono
sottoposti a una visita medica all’atto della cessazione del rapporto di
lavoro; in tale occasione il medico competente deve fornire al lavoratore le
indicazioni relative alle prescrizioni mediche da osservare e all’opportunità
di sottoporsi a successivi accertamenti sanitari”. Si tratta di una parte
dell’articolo 259 (Sorveglianza sanitaria) che si applica ai lavoratori che
sono o sono stati esposti all’amianto. Quindi l’iscrizione nel registro degli
esposti configura una condizione che, una volta instaurata, non si mantiene in
automatico “vita natural-durante”, ma viene a cessare una volta che sia cessata
l’esposizione (anche se dell’esposizione pregressa dovrà rimanere traccia
documentale stabile); ed è inoltre prevista espressamente un’attività di
informazione mirata su ciò che gli esposti e gli ex-esposti dovrebbero fare (e
poter fare) una volta cessato il rapporto di lavoro.
Il documento “Applicazione degli articoli
236, 242, 243 e 244 del D.Lgs. 81/08. Valutazione dell’esposizione ad agenti
cancerogeni e del rischio che ne consegue. Indicazioni per la classificazione
dei lavoratori come professionalmente esposti ad agenti cancerogeni, la loro
conseguente registrazione e lo svolgimento di programmi di sorveglianza
sanitaria ad hoc. La questione degli ex-esposti ad agenti cancerogeni in
ambiente di lavoro” del 6 settembre 2016 è scaricabile all’indirizzo:
IMPARARE
DAGLI ERRORI: INFORTUNI MORTALI NELLA RIPARAZIONE DI TETTI
Da: PuntoSicuro
20 ottobre 2016
di Tiziano Menduto
Esempi di infortuni tratti da SUVA: un
infortunio grave avvenuto durante attività di riparazione di un tetto di un
capannone. La dinamica dell’incidente, le riflessioni sulle cause, le superfici
non resistenti alla rottura e le regole di prevenzione.
In queste ultime settimane “Imparare dagli
errori”, la rubrica di PuntoSicuro dedicata al racconto e all’analisi degli
infortuni lavorativi, si è soffermata sulle conseguenze dell’ assenza di DPI,
come il casco o i guanti, o di cattive prassi nelle attività di saldatura.
Tuttavia con questa rubrica cerchiamo anche
di mantenere alta l’attenzione su una delle principali cause in Italia degli
infortuni mortali, le cadute dall’alto, con particolare riferimento al comparto
delle costruzioni.
Per farlo ci dedichiamo oggi alla
presentazione di una scheda di un infortunio, avvenuto in territorio elvetico, pubblicata
sul sito di SUVA (Istituto svizzero per l’assicurazione e la prevenzione degli
infortuni) e correlata alla campagna “Visione 250 vite”.
Una scheda sui rischi nelle attività su
coperture, già affrontati in altre puntate della rubrica, ma che in questo caso
fa riferimento specifico all’attività professionale di lavoro, particolarmente
diffusa in territorio elvetico, del copritetto.
Ricordiamo che il copritetto generalmente si
occupa della copertura di tetti mediante tegole di laterizio, di ardesia o di
altre rocce, di legno, di metallo o di fibra di cemento, ecc. E si occupa
spesso anche di altri aspetti relativi al tetto, ad esempio l’isolazione fonica
e termica.
La scheda, dal titolo “Riparazione fatale per
un copritetto”, racconta di un infortunio mortale avvenuto per una caduta
attraverso il tetto di un capannone.
Un lavoratore, copritetto qualificato, deve
riparare, assieme a un collega, il tetto di un capannone. I due operai vogliono
lavorare sulla copertura (realizzata in lastre ondulate di fibrocemento) con un
dispositivo anticaduta a fune. Riescono a fissare la fune di sicurezza solo a
un camino sul colmo del tetto.
Si scopre però che la fune è troppo corta e
che non arriva fino al punto in cui bisogna eseguire la riparazione. Per questo
motivo, alla fine decidono di lavorare senza alcun dispositivo di protezione.
I due operai appoggiano le tavole da ponte
sul tetto che non è resistente alla rottura. Rimuovono i pannelli difettosi e
tolgono la lana di roccia dai pannelli isolanti sottostanti. All’improvviso il
copritetto perde l’equilibrio e mette il piede su un pannello isolante che
cede.
Il copritetto fa un volo di 13 m e finisce sul pavimento
del capannone.
La scheda di SUVA indica che l’incidente è
avvenuto perchè:
-
il
datore di lavoro del copritetto non ha chiarito quali misure di protezione
erano necessarie per svolgere quella riparazione: per questo motivo i suoi
dipendenti non avevano con sé gli strumenti giusti per la loro messa in
sicurezza (il datore di lavoro è responsabile della sicurezza dei propri
dipendenti e deve fare in modo che per ogni incarico di lavoro siano adottate
le necessarie misure di sicurezza);
-
non
avendo a disposizione il materiale giusto, i due operai decidono di non usare i
dispositivi anticaduta: avrebbero dovuto dire STOP e non svolgere i lavori
senza i dispositivi anticaduta;
-
il
copritetto mette il piede accidentalmente su un pannello isolante non
resistente e non essendo fissato a una fune di sicurezza, sfonda la copertura
del capannone: mettere un piede su un pannello ondulato avrebbe avuto le stesse
conseguenze; i tetti con superfici non resistenti alla rottura rappresentano
sempre un pericolo mortale e pertanto non andrebbero più realizzati.
Dunque, riepilogando, questi sono i
principali fattori causali dell’infortunio:
-
il
titolare della ditta di copertura non chiarisce quali sono le misure di
sicurezza necessarie per quell’incarico;
-
i
copritetto non dispongono di materiale adeguato per la loro messa in sicurezza
e rinunciano del tutto a usare i DPI anticaduta;
-
il
tetto di per sé non è resistente alla rottura e non deve essere percorso senza
adottare ulteriori misure di sicurezza: la lana di roccia non è un materiale di
per sé resistente e quindi cede nel momento in cui un lavoratore ci cammina
sopra per sbaglio.
Per favorire la prevenzione degli infortuni
correlati all’attività sulle coperture degli edifici, la scheda propone degli
approfondimenti tratti dal documento SUVA “Nove regole vitali per chi lavora su
tetti e facciate”.
Ricordiamo brevemente le regole:
-
Regola
1: Realizzare accessi sicuri
-
Regola
2: Mettere in sicurezza le zone con rischio caduta
-
Regola
3: Impedire le cadute verso l’interno dell’edificio
-
Regola
4: Mettere in sicurezza le aperture nel tetto
-
Regola
5: Garantire superfici di copertura resistenti alla rottura (regola rilevante
per il caso in questione)
-
Regola
6: Lavorare sulle facciate solo con attrezzature sicure
-
Regola
7: Ispezionare i ponteggi
-
Regola
8: Utilizzare correttamente le imbracature anticaduta (regola rilevante per il
caso in questione)
-
Regola
9: Proteggersi dalle polveri di amianto
Ci soffermiamo sulla Regola 5 (già segnalata
in altre puntate di “Imparare dagli errori”) che ricorda che è necessario
lavorare solo su superfici di copertura resistenti alla rottura. La scheda, che
fa riferimento ad un Ordinanza elvetica sui lavori di costruzione, indica che è
vietato lavorare su superfici di copertura non resistenti alla rottura. Si può
lavorare solo se è stato accertato con sicurezza che si tratta di coperture
resistenti alla rottura. Se la copertura non è totalmente resistente alla
rottura, è necessario adottare adeguate misure di sicurezza.
In particolare (indica la scheda elvetica) i
seguenti materiali non sono considerati resistenti alla rottura:
-
lastre
ondulate in fibrocemento;
-
lucernari
“Shed” o a pannelli in materiale plastico (ad esempio policarbonato);
-
lucernari
a cupola in materiale plastico (ad esempio policarbonato);
-
pannelli
in fibra di legno e pannelli in legno-cemento usati spesso nella sottocopertura
del tetto.
Si ricordano, infine, anche le misure
antisfondamento che possono essere applicate.
Ad esempio:
-
montaggio
di reti di sicurezza al di sotto della copertura;
-
realizzare
un piano di calpestio portante sulla superficie del tetto con una protezione
laterale totale;
-
adottare
passerelle portanti con parapetto su entrambi i lati.
Infine qualche cenno alla Regola8 : lavoriamo
con le imbracature anticaduta solo se abbiamo ricevuto una formazione in
materia.
Innanzitutto si indica che i sistemi di
protezione collettiva come protezioni laterali, reti di sicurezza o ponteggi
per facciate devono avere la priorità rispetto ai DPI anticaduta. In questo modo
tutte le persone presenti sul tetto sono protette allo stesso modo.
E’ poi necessario stabilire i lavori che
implicano l’uso dei DPI anticaduta. E per usarli correttamente è necessaria
un’idonea formazione: chi lavora con i DPI anticaduta, deve potersi fidare
ciecamente e sapere come funzionano esattamente e quali eventuali limiti
possono avere o come affrontare un’eventuale caduta con l’imbracatura.
Nota Bene
Gli eventuali riferimenti legislativi
contenuti nei documenti di SUVA riguardano la realtà svizzera, i suggerimenti
indicati possono comunque essere utili per tutti i lavoratori.
Il documento di SUVA “Riparazione fatale per
un copritetto”, dinamica di un incidente correlata alla campagna elvetica
“Visione 250 vite” è scaricabile all’indirizzo:
Il documento di SUVA “Nove regole vitali per
chi lavora su tetti e facciate. Vademecum”, edizione maggio 2012 è scaricabile
all’indirizzo:
IMPARARE DAGLI
ERRORI: LO SMANTELLAMENTO DI UN IMPIANTO DI GPL
Da:
PuntoSicuro
27
ottobre 2016
di
Tiziano Menduto
Un
intervento si sofferma sulle attività di smantellamento di un impianto di GPL e
ci aiuta ad individuare anche i fattori remoti degli incidenti. La dinamica
dell’infortunio, i fattori prossimi e la ricostruzione dei fattori remoti.
“Imparare
dagli errori”, la rubrica di PuntoSicuro dedicata al racconto e all’analisi
degli infortuni lavorativi, ha spesso utilizzato in questi anni i casi di
infortunio raccolti dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi
qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli
infortuni mortali e gravi.
Ma
INFOR.MO. è molto di più che un semplice archivio di casi, è un modello che
consente di esporre in maniera strutturata e standardizzata la dinamica
infortunistica, ovvero quella sequenza di eventi e circostanze che hanno
portato il verificarsi dell’infortunio. Un modello che è sviluppato con un
approccio innovativo perché, come ricordato in una recente pubblicazione
dell’INAIL, “contempla e riconosce una causalità multifattoriale, nella quale
entrano in gioco più fattori legati all’uomo come l’organizzazione del lavoro e
la qualità della formazione dei vari profili dei lavoratori”.
Partendo
da queste considerazioni, oggi questa puntata di “Imparare dagli errori”
presenta un intervento al seminario “Infortuni sul lavoro: programmazione degli
interventi, comunicazione”, organizzato dalla Società Nazionale degli Operatori
della Prevenzione (SNOP), che si è tenuto il 4 marzo 2016 a Milano. Un intervento
che ci permette di riflettere sull’utilizzo/lettura di INFOR.MO. e sulla
necessità di individuare anche i fattori remoti degli incidenti.
In
“Fattori di rischio prossimi e remoti degli infortuni lavorativi: un esempio di
utilizzo del metodo INFOR.MO.”, a cura di Marcello Libener (ASL SPreSAL di
Alessandria), ci si sofferma in particolare su infortunio correlato ad attività
di smantellamento di un impianto di GPL.
Questo
infortunio intercetta più elementi critici non immediatamente rilevabili dalla
prima ricostruzione dei fatti e ci permette di riflettere sul comportamento
apparentemente incomprensibile che sembrano adottare alcuni lavoratori in
occasione degli incidenti sul lavoro e sull’influenza nella dinamica infortunistica
di fattori remoti non sempre facilmente identificabili a monte dell’incidente.
E permette anche di comprendere la rilevanza di alcuni “passi” imposti dalla
norma in materia di salute e sicurezza sul lavoro spesso definiti semplici
formalismi.
Due
lavoratori di una impresa emiliana specializzata si recano in trasferta in un
sito in Piemonte per procedere allo smantellamento dell’impianto di GPL per
auto trazione. In particolare, devono bonificare il cunicolo e il serbatoio,
rimuovendo le attrezzature in sala pompe di un distributore di carburante
dismesso. Il sito si trova in stato di abbandono e in attesa di smantellamento
degli impianti e della demolizione dei fabbricati. Successivamente un’altra
impresa avrebbe effettuato opere edili di rimozione copertura, sabbia dalla
cassaforma, brecce varie per rimozioni tubazioni su serbatoio. Il clima era
estremamente rigido, soprattutto nella mattinata. I due lavoratori si sono
quindi impegnati nell’operazione di smantellamento accedendo al piccolo locale
interrato, utilizzato come sala pompe e adiacente alla cisterna del GPL. Come
operazione preliminare hanno rimosso la valvola pneumatica posta sulla
tubazione di mandata della cisterna. Successivamente, uno dei lavoratori si è
portato in superficie mentre l’altro è rimasto nel piccolo locale sotterraneo.
Nel primo pomeriggio, dopo la pausa pranzo, è fuoriuscito del gas che ha
causato la saturazione del piccolo locale con conseguente riduzione
dell’ossigeno presente. Ciò ha determinato l’asfissia dei due lavoratori,
probabilmente prima al lavoratore posto nel locale e poi all’altro sceso in suo
soccorso. I corpi privi di vita sono stati rinvenuti nel locale pompe in tarda
serata. Nessuno dei due lavoratori aveva utilizzato il respiratore che avevano
in dotazione.
L’intervento
riporta vari schemi relativi all’individuazione dei “fattori prossimi”
dell’incidente.
Le
conclusioni di una lettura distorta e approssimativa di quanto raccolto e
ricostruito dal sistema portano spesso a pensare che se il fattore determinante
è l’attività dell’infortunato, la responsabilità di quanto accaduto ricade solo
sul lavoratore. Ma è un modo errato di interpretare le ricostruzioni con
INFOR.MO.
Indagando
sui fattori meno prossimi all’incidente, si possono comprendere alcuni comportamenti
apparentemente incomprensibili dei due lavoratori.
Ad
esempio i lavori non erano stati adeguatamente organizzati e pianificati anche
con una ricognizione preliminare da persona qualificata e delegata a
programmare l’intervento. Ai due lavoratori non era chiaro quanto GPL fosse
ancora presente nel serbatoio e quindi quanto tempo avrebbe richiesto la fase
di svuotamento/bonifica dal GPL.
Vediamo
la ricostruzione dei fattori remoti.
1°
fattore remoto: organizzazione del cantiere secondo fasi prestabilite. Una
ricognizione preliminare avrebbe rilevato che la scala di accesso al locale
sotterraneo era sostanzialmente impraticabile e che l’aspiratore di cui era
dotato il locale era inutilizzabile perché nel sito non c’era energia
elettrica. La nomina di un Coordinatore avrebbe imposto di determinare le fasi
di lavoro e la loro sequenza. Non era stato redatto un POS (Piano Operativo di
Sicurezza) anche se sul mezzo sono stati trovati altri POS relativi a lavori
simili; essi prevedevano per il trasferimento del GPL dai serbatoi, l’utilizzo
della torcia, attrezzatura che non fornita ai due lavoratori.
2°
fattore remoto: procedure non definite e, comunque, non perentorie. I due
lavoratori avrebbero potuto utilizzare un sistema di cui erano dotati (estrattore
costituito da ventilatore/aspiratore semovente e da canalizzazione con
adattatore e gruppo elettrogeno) e che era in parte depositato sul terreno
circostante. L’accesso al locale interrato avrebbe dovuto avvenire dopo aver
indossato l’esplosimetro che è stato ritrovato sul furgone. Peraltro, le regole
volte a evitare l’innesco di atmosfere esplosive erano state disattese con
l’utilizzo di attrezzature in acciaio, invece di quelle in bronzo presenti sul
furgone.
3°
fattore remoto: fretta. La bonifica avrebbe dovuto impegnare i due lavoratori
in trasferta per due giorni, quello dell’incidente e il successivo. Tuttavia,
sull’automezzo è stata rinvenuta documentazione da cui emergeva che l’indomani
uno dei due lavoratori avrebbe dovuto svolgere la sua attività nel parmense. E’
quindi verosimile che i due lavoratori avessero fretta di concludere il lavoro
nella località alessandrina.
4°
fattore remoto: organizzazione aziendale. Uno dei due lavoratori era
informalmente individuato come “capo squadra” ma non risulta essere stato
formato per svolgere tale funzione nel rispetto delle regole di salute e
sicurezza (che come si è visto non c’erano o erano poco chiare).
Ne
risulta un quadro diverso e nell’intervento è presentata, a questo punto, una
dinamica più completa dell’infortunio, anche con riferimento alle
caratteristiche del GPL per auto trazione.
Concludiamo
ricapitolando i fattori remoti individuati nell’infortunio:
-
mancata
conoscenza dello stato dei luoghi presso cui dovevano operare (mancanza di energia
elettrica, presenza di notevole quantità di GPL nel serbatoio);
-
assenza
di coordinamento durante le varie fasi di lavoro (assenza energia elettrica,
errato ordine dei lavori, ecc.);
-
procedura
di lavoro confusa e contraddittoria rispetto alle attrezzature a disposizione;
-
insufficiente
preparazione almeno a livello teorico del capo squadra;
-
fretta.
L’intervento
“Fattori di rischio prossimi e remoti degli infortuni lavorativi: un esempio di
utilizzo del metodo INFOR.MO.”, a cura di Marcello Libener (ASL SPreSAL di
Alessandria) è scaricabile all’indirizzo:
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