L'ASPI, LA NUOVA INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE
L'Assicurazione sociale per l'impiego (AspI) è il nuovo ammortizzatore
sociale. Parte subito, ma la piena applicazione sarà solo dal 2017, e fino
ad allora funzioneranno ancora le diverse tipologie di cassa integrazione e
la mobilità. Sarà finanziata da un costo dai lavoratori a tempo
indeterminato, dai fondi della Cig in deroga, e da un aumento dei contributi
su tutti i contratti a termine, per i quali questo onere contributivo non è
accompagnato da un tetto minimo salariale, e quindi il rischio è che certi
(im)prenditori, per pagare la tassa, finiscano per ridurre lo stipendio ai
lavoratori precari, .........
caricando sulle loro spalle i maggiori costi imposti
dalla riforma. Per usufruire dell’ ASpI bisogna avere almeno due anni di
anzianità assicurativa e 52 settimane di lavoro nell'ultimo biennio.
L'IMPORTO EROGATO È SCARSO E NON RISPONDE AL REQUISITO MINIMO CHIESTO DAL
PARLAMENTO EUROPEO
L’importo stanziato sarà pari al 75% della retribuzione fino a 1.150 euro e
al 25% oltre questa soglia, per un tetto massimo di 1.119 euro lordi al
mese. L'assegno verrà tagliato del 15% dopo i primi sei mesi e di un altro
15% dopo il semestre successivo. È un importo che non risponde al requisito
che, secondo il Parlamento Europeo, dovrebbe essere quello di garantire una
vita dignitosa al lavoratore che ha perso il suo impiego ed alla sua
famiglia, cioè non dovrebbe essere inferiore al 60% del reddito mediano
dello Stato membro interessato (come da punto 15 della risoluzione). E il
60% del reddito mediano mensile netto italiano è pari a 1.227 euro (dato di
partenza di fonte Istat). Pertanto chi si ritrova licenziato avrà un assegno
di disoccupazione previsto dall'ASpI pari a 7mila euro all'anno, ed
oltretutto sottoposto a continui ribassi (-15% dopo i primi sei mesi,
ulteriore ribasso del 15% dopo il secondo semestre): un importo che non
garantisce alcuna copertura rispetto al rischio di caduta in povertà legato
alla perdita del lavoro. Monti, che spesso si vanta di essere un uomo
dell'Europa dovrebbe anche rispettare le decisioni ufficiali delle
istituzioni europee, quelle - loro sì- democraticamente elette.
L’ASPI RIDUCE LA DURATA DELLE PROTEZIONI
Se fino ad ora si poteva contare su 2 anni di Cassa integrazione
straordinaria, dopo i quali scattava la mobilità (2 anni per gli under 50, e
3 per gli over, o 4 anni per gli over 50 del Sud), cioè in totale una
protezione dai 2 ai 6 anni, invece dopo il “periodo di transizione” della
riforma, cioè dal 2017 quando spariranno la mobilità e la Cassa
straordinaria, resterà soltanto 1 misero anno, massimo 1 anno e mezzo per
gli anziani, dopo il quale c’è l’inferno della disoccupazione. E per di più
il lavoratore che esce dal mercato del lavoro, perderà il vantaggio alla
ricollocazione, che prima era assicurato dall’iscrizione nelle liste di
mobilità. Dove si collocheranno le lavoratrici e i lavoratori espulsi dai
luoghi di lavoro, senza tutele, e lontanissimi dall’accesso alla pensione a
causa dell’allungamento abnorme dell'età pensionabile contenuto nella
riforma Fornero del dicembre 2011?
ALTRE CONSIDERAZIONI:
1) l’art 62 prevede che il lavoratore decada da ogni trattamento qualora
“non accetti una offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo
non inferiore del 20 per cento rispetto all’importo lordo dell’indennità
(non della retribuzione!) cui ha diritto”. Ma (art. 24) l’importo lordo dell’indennità,
come abbiamo visto, è pari al 75% della retribuzione, a cui si applica una
ulteriore “riduzione del 15% dopo i primi sei mesi di fruizione” e una
ulteriore “del 15% dopo il dodicesimo mese di fruizione”. Insomma un
lavoratore licenziato che percepiva 1.000 euro decadrà dal trattamento
qualora non accetterà un impiego per una retribuzione pari a €.433 lordi
(!), e ciò del tutto a prescindere da che tipo di attività si tratti e con
quale orario, purché il posto di lavoro sia “raggiungibile mediamente in 80
minuti con i mezzi di trasporto pubblici” che con il ritorno a casa fanno
160 minuti e cioè 3 ore solo di viaggio giornaliero casa/lavoro per poco più
di 300 euro netti al mese. Ogni commento è superfluo.
2) l’ASpI è una forma di sussistenza privatistica con la quale la tutela
dalla disoccupazione comincia a passare dalla fiscalità generale ad una
forma di sussistenza stipulata tra impresa e singolo dipendente. Dunque la
disoccupazione perde la sua valenza di problema sociale per diventare un
fatto individuale, una specie di disgrazia personale di chi ci incorre.
3) oggi i lavoratori hanno materialmente più possibilità di riavere presto
il loro posto di lavoro, avendo il diritto di prelazione, che dura 6 mesi
per i lavoratori in mobilità, e stabilisce che se l'azienda vuole assumere
nuovi lavoratori deve dare la precedenza ai propri ex dipendenti ancora
iscritti alle liste di mobilità che nel frattempo non abbiano trovato un
altro lavoro. Ma la riforma cancella la mobilità alla fine del 2016.
4) oggi i lavoratori hanno un’attitudine allo stare insieme per cercare di
riavere una collocazione o dall’azienda o dalle istituzioni, come accaduto
molte volte. Invece, con la riforma Fornero, una volta perso il posto, i
lavoratori saranno tutti meno tutelati, molto più isolati e con la paura
costante di non trovare più un lavoro.
5) La riforma degli ammortizzatori sociali cancella dopo il 2016 anche la
Cassa in deroga, introdotta nel 2009 al fine di estendere i sussidi alle
piccole imprese e ai settori finora esclusi dalla Cassa.
6) Cancellando la Cassa straordinaria (Cigs) si toglie anche la possibilità
di restituzione delle quote di accantonamento del Tfr maturato in costanza
di Cigs qualora il lavoratore cessi dal rapporto di lavoro prima della
ripresa lavorativa.
7) Nella valutazione dei requisiti d'accesso all’ASpI andrebbero conteggiate
e sommate alle attività di lavoro subordinato anche le settimane per le
quali sia stata versata contribuzione destinata a gestioni diverse da quella
dei lavoratori dipendenti, al fine di aumentare l'inclusività dell'istituto
che, per come e' presentato nel testo, non risponde alle diverse forme del
lavoro precario.
LA MINI-ASPI
È riservata ai lavoratori subordinati che abbiano almeno 13 settimane di
contribuzione negli ultimi 12 mesi, e dura la metà dei mesi per cui si hanno
i contributi, al massimo per sei mesi. A conti fatti la mini-ASpI è più
generosa del trattamento attuale: per una retribuzione media di 9.855 euro
l'anno (quella di un precario), chi ha lavorato 3 mesi prenderà 926 euro in
tutto (contro i 731 di oggi), e chi ha lavorato un anno raddoppierà
l'assegno (3.700 euro in tutto contro 1.800). Il calcolo è lo stesso
previsto per l'AspI.
1) La mini-ASpI non amplia la platea dei protetti, ma sostiene chi oggi ha
già un ombrello
2) la mini ASpI resta comunque nel complesso poco generosa, tanto da essere
quasi ininfluente per chi è senza lavoro e ha bisogno di un sostegno al
reddito.
3) bisogna ottenere che per la mini ASpI l'unico requisito per la fruizione
debba essere la contribuzione di 13 settimane senza altre aggiunte, e che il
calcolo dell'istituto debba essere allungato rispetto all’attuale metà delle
settimane su cui sia stata versata contribuzione, per non produrre un taglio
rispetto al valore dell'indennità di disoccupazione con requisiti ridotti.
ASPI ZERO
L’ASpI non determina una reale universalità nel sostegno al reddito, come
invece aveva promesso Monti nel suo discorso di novembre alla risoluzione
del Parlamento Europeo. Questa riforma infatti non estende gli
ammortizzatori a chi non abbia due anni di anzianità assicurativa e versato
almeno 52 settimane di contributi, cioè le giovani generazioni del lavoro
discontinuo e i giovani disoccupati che non trovano il primo lavoro. Non è
prevista nessuna tutela per co.co.pro., collaborazioni occasionali, a
chiamata, assegnisti di ricerca: si tratta di 945.141 lavoratori precari,
di cui più della metà sono co. co. pro (675.883), cui si aggiungono 52.459
associati in partecipazione, 54.210 co.co.co. statali, 49.179 dottorandi e
assegnisti di ricerca, 24 mila venditori porta a porta, 27 mila
“collaboratori” generici, 8.913 occasionali (Dati Isfol 2010). A questi
vanno aggiunte tutte le finte partite IVA. Siamo quindi ben lontani da un
ammortizzatore universale degno di questo nome, o da un reddito di
cittadinanza, in procinto di essere invece attuato in Europa.
FONDO SOLIDARIETA’ PER SETTORI NON COPERTI DA CASSA INTEGRAZIONE:
Entro il 2013 per le aziende con più di 15 dipendenti arriva un Fondo di
solidarietà presso l’Inps, che andrà a sostituire parzialmente l’eliminazione
della cassa integrazione in deroga, della cig straordinaria e della
mobilità. La contribuzione dovrà essere a carico del datore di lavoro (2/3)
e del lavoratore (1/3) e ci sarà l’obbligo di bilancio in pareggio dell’ente
erogatore. Al finanziamento potrà concorrere anche lo 0,30% attualmente
versato ai fondi per la formazione.
1) i fondi pur essendo privi di personalità giuridica ed essendo definiti
come “gestioni dell’Inps” si pongono come evidente transizione verso un
modello che ha l’obiettivo di trasferire parti crescenti del welfare dalla
garanzia e gestione pubblica a quella della bilateralità fra imprese e
sindacati, privatizzando di fatto il welfare e cambiando quindi il ruolo
delle organizzazioni sindacali.
2) L’abolizione della cassa in deroga e straordinaria non diventa occasione
per istituire strumenti a carico della fiscalità generale, contributi
pubblici a sostegno al reddito come per esempio il reddito sociale minimo,
attualmente in discussione in Europa. Il reddito sociale minimo garantirebbe
l’autonomia e la libertà di scelta, toglierebbe dalla ricattabilità del
lavoro nero e dello schiavismo, permetterebbe a una generazione di compiere
scelte non dettate dalla condizione economica della propria famiglia e di
avviare un percorso di crescita formativa, professionale e di vita con una
minima rete di protezione sociale.
3) i fondi configurano tutele diverse a secondo dei settori e non
garantiscono le tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle imprese con
meno di 15 addetti, essendo obbligatori solo al di sopra di tale soglia.
IL CONTRIBUTO DI LICENZIAMENTO
Dal 2013 il datore di lavoro all’atto del licenziamento per i rapporti a
tempo indeterminato e per gli apprendisti, dovrà versare all’Inps mezza
mensilità ogni 12 mensilità di anzianità aziendale negli ultimi tre anni.
Questa novità è probabilmente proposta a seguito della revisione
dell'articolo 18 che renderà più facili i licenziamenti. Il contributo di
licenziamento sostituirà i contributi oggi versati dalle aziende per la
disoccupazione e la mobilità. Il lavoratore riceverebbe invece un indennizzo
economico proporzionale all'anzianità di servizio deciso dal Giudice o da un
arbitro scelto tra le parti. Il governo dovrebbe però rafforzare le tutele
per i lavoratori delle aziende con meno di 15 dipendenti, oggi escluse
dall'articolo 18.
TUTELA DELLA LAVORATRICE MADRE
Nella riforma del mercato del lavoro c'é la norma contro le dimissioni in
bianco, un turpe strumento spesso utilizzato da certi (im)prenditori a
discapito delle lavoratrici perché non restino incinta. Si estende fino a
tre anni di vita del bambino il “periodo di rafforzamento”, cioè il periodo
in cui le dimissioni della lavoratrice madre o del lavoratore padre devono
essere convalidate dal Ministero Del Lavoro.
1) con le previsioni contenute nel ddl la burocratizzazione è aumentata ed è
tutta a
carico della lavoratrice, che comunque sarà ricattabile con la procedura
prevista,
cioè l'obbligo, per la convalida delle dimissioni, della firma. Infatti la
semplice apposizione di firma da parte del lavoratore in calce alla
comunicazione del datore di lavoro di cessazione del rapporto per dimissioni
volontarie o risoluzione
consensuale non è sufficiente a scongiurare la pratica delle dimissioni in
bianco. A garanzia di chi lavora andrebbe esplicitato che il Ministero possa
verificare, contestualmente all'invio della comunicazione, le modalità di
data e veridicità delle dimissioni.
2) se il lavoratore non firma la dichiarazione di dimissioni evidentemente
non vi è la volontà, e pertanto il rapporto di lavoro non può considerarsi
“risolto”, con una penalizzazione per il lavoratore che manifesta l'abuso
con la non sottoscrizione della comunicazione di risoluzione.
3) va chiarito che la non sospensione della prestazione di lavoro da parte
della lavoratrice o lavoratore che non hanno sottoscritto la comunicazione
di risoluzione o dimissioni rende nullo l'effetto sospensivo e comporta
l'automaticità della comminazione di pena per la falsa dichiarazione al
datore di lavoro
4) andrebbe chiarito che non solo le dimissioni o risoluzione sono prive di
effetto ma nel periodo pregresso non agisce l'effetto sospensivo
5) il reato per falsa dichiarazione di dimissioni volontarie o risoluzione
consensuale va assimilato al licenziamento illegittimo con le relative
conseguenze, e l'ammenda sanzionatoria va chiarito che è aggiuntiva.
Altrimenti la falsa dichiarazione che maschera un tentato licenziamento
sarebbe punita con una penalizzazione inferiore a quella prevista per
analogo illecito: in un caso infatti avremmo la semplice ammenda e
sospensione della risoluzione nell'altro indennizzo e reintegro. La
progressività dell'ammenda a discrezionalità della Direzione territoriale
del lavoro non è giustificabile dal momento che il reato/abuso commesso è il
medesimo.
6) le sanzioni attualmente previste, da 5 a 30 mila euro, sono ancora troppo
basse, e le organizzazioni sindacali hanno chiesto che siano raddoppiate,
oppure che si preveda la disciplina del licenziamento discriminatorio
Si intendono poi favorire le varie forme di baby-sitting, prevedendo l’introduzione
di voucher di cui la lavoratrice madre potrà usufruire in alternativa al
facoltativo periodo di maternità.
1) questa “riforma” ha l’evidente obiettivo di spingere le donne lavoratrici
a tornare subito al lavoro, ottenendo “in cambio” per 11 mesi dei voucher
per la baby-sitter
2) I voucher comunque non compensano la carenza di servizi pubblici.
3) il testo è un passo indietro rispetto a tanti disegni di legge presentati
in Parlamento e agli standard europei.
4) va cancellato il riferimento all'ISEE come indicatore della
determinazione del numero e dell'importo dei voucher o servizi corrispettivi
poiché attualmente la fruibilità del congedo parentale è un diritto
universale che verrebbe sostituito da un'opportunità legata al reddito
5) I lavoratori iscritti alla gestione separata già pagano un contributo
dello 0,72% per le prestazioni sociali (maternità, assegni familiari e
malattia): sono fondi che ad oggi rimangono parzialmente inutilizzati. I
requisiti per l’accesso a tali prestazioni devono dunque essere allargati e
il trattamento deve essere uniformato a quanto previsto per i lavoratori
dipendenti.
TUTELA DEI LAVORATORI PADRI
E’ reso obbligatorio il congedo di paternità, da utilizzare fino al
compimenti dei 5 mesi di età del bambino, per un massimo di 3 giorni
continuativi.
1) Difficile pensare che un tempo così limitato (3 giorni) favorisca «una
cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all'interno
della coppia» come afferma la riforma. L'Europa chiede almeno due settimane
di congedo obbligatorio per i neopadri, dunque i giorni di congedo paternale
obbligatorio andrebbero
portati almeno a dieci in aggiunta al congedo obbligatorio maternale, in
linea con altri
paesi europei.
2) già oggi molti contratti prevedono periodi superiori ai tre giorni per
congedo paternale e quindi bisognerebbe specificare che sono aggiuntivi ai
periodi già previsti dai CCNL.
TUTELA DEI DISABILI
Circa i soggetti disabili, al fine di favorirne l’integrazione nel mercato
del lavoro, è previsto l’aumento del numero in rapporto ai lavoratori
totali, ma sul punto il progetto di riforma è molto vago e poco preciso.
TUTELA DEI MIGRANTI
Rigurado ai lavoratori migranti, si prevede un aumento del tempo di
disoccupazione necessario prima della perdita del permesso di soggiorno.
PENALIZZAZIONI PER I LAVORATORI AGRICOLI
Le misure contenute nel ddl lavoro mirano ad annullare i diritti
previdenziali, assistenziali e contrattuali dei lavoratori agricoli e più in
generale del lavoro stagionale. L’art. 11 estende l’uso dei voucher -da
incassare alla Posta- a tutto il lavoro stagionale nel settore agricolo
cosicché esso verrebbe considerato 'meramente occasionale' e i braccianti si
ritroverebbero senza un contratto, senza un salario di qualifica e senza le
tutele per la maternita'. Gli artt. 24-28 (mini-Aspi) comporteranno inoltre
una riduzione media dell’indennità spettante al lavoratore fino al 30%
rispetto a quella attuale. E il nuovo sistema di calcolo dei contributi
figurativi comporterà un forte taglio della prestazione pensionistica se
non, addirittura, il mancato raggiungimento al diritto della stessa.
LAVORATORI ANZIANI
1) Alle aziende spetta uno sgravio contributivo del 50% (fino a 18 mesi in
caso di conferma) per le assunzioni a tempo determinato di lavoratori con 50
anni di età anagrafica e disoccupati da oltre 12 mesi.
2) Dopo aver cancellato la mobilità e varato a dicembre 2011 un allungamento
abnorme dell'età pensionabile, ora il governo Monti tenta di correre ai
ripari istituendo un «contributo» per permettere i prepensionamenti. Le
aziende con più di 15 dipendenti potranno incentivare l’esodo di lavoratori
che maturano i requisiti pensionistici entro 4 anni dal licenziamento,
corrispondendo al lavoratore il trattamento di pensione, e dando all’Inps la
contribuzione fino al raggiungimento dei requisiti. Ma sembra difficile
convincere un datore di lavoro a farsi carico per 4 anni del pagamento della
pensione dei lavoratori, contributi compresi, in maniera del tutto
volontaria.
CONCLUSIONE
La riforma degli ammortizzatori sociali, dunque, presenta numerose lacune, è
sostanzialmente un’operazione di tagli del periodo di copertura e delle
indennità, e non prevede neppure sostegno economico per tutte quelle figure
che oggi non ne hanno diritto.
Questo disegno di legge Monti-Fornero serve in sostanza a quelle imprese che
non hanno immaginazione né volontà tecnologica innovativa, e quindi puntano
tutto sulla pura riduzione dell’occupazione e dei diritti. Così con l’art.
18 si renderanno più liberi i licenziamenti riducendo il lavoratore a pura
merce; non verranno aumentati i posti di lavoro, e sono stati mancati gli
obiettivi che lo stesso governo aveva inizialmente dichiarato, che erano
quelli della riduzione della precarietà: un modo davvero singolare di
rispondere alla crisi!
Monti ha voluto imporre un ruolo residuale al sindacato, cancellando
principi cardine della nostra Carta costituzionale, cercando di far passare
l'idea che le forze sindacali non abbiano diritto a fare trattative. Ma per
la rappresentatività che appartiene loro e per la consistenza degli
interessi che rappresentano, i sindacati non possono essere messi al margine
di un processo democratico: se si cancella il Novecento della giustizia
sociale non si entra nel nuovo millennio, si torna solo all'Ottocento.
Del resto le tre parole chiave annunciate dal governo Monti – rigore,
crescita, equità – sono state declinate con rilievo molto diseguale: tanto
rigore per i più poveri, poca crescita e scarsa equità, e mentre i Mercanti
si nutrono ben pasciuti nel Tempio, agli umili è lasciata invece la
solitaria disperazione.
Il governo Monti deve voltare pagina, altrimenti è difficile vederne la
differenza con chi l’ha preceduto. L’Europa di Merkel, Sarkosy e Monti,
quella del rigore a senso unico verso i meno abbienti, dell’austerità di
bilancio e della svalutazione del lavoro, ha portato l'eurozona alla
depressione sociale, all'involuzione democratica e alla recessione con
conseguente espansione del debito. Non era evidentemente “l’Europa sociale”,
quella cui costoro facevano riferimento, non erano le solitudini, le
fragilità, lo smarrimento di identità di chi rimane senza lavoro!
Ma “l’arroganza precede la caduta”, come è scritto nella Bibbia, e ora
questa nera Europa è uscita pesantemente sconfitta in Francia come in
Grecia, in Olanda come in Italia, e i tempi sono finalmente maturi per una
svolta che metta al centro il sostegno alla domanda interna ed una crescita
sostenibile, il riequilibrio dei rapporti di debito e di credito
intra-europei, una revisione dell’impatto recessivo del Fiscal Compact,
vincoli alla finanza, un’imposizione fiscale improntata alla giustizia
sociale e un piano di politica economica e industriale in grado di difendere
l’occupazione attraverso investimenti pubblici nei settori strategici, nella
difesa del territorio e dell’ambiente, nella ricerca e nell’innovazione di
prodotto e di processo.
Le forze politiche sinceramente democratiche e quelle di opposizione sono
ora chiamate ad un energico impegno in Parlamento per modificare in modo
sostanziale questa “riforma” del lavoro, facendo valere il proprio nuovo
peso elettorale per non lasciare che lavoratrici e lavoratori vengano
travolti da un’ondata di licenziamenti, da una diminuzione delle tutele
nella disoccupazione e da un aumento infernale della precarietà, riportando
indietro di decenni la civiltà del lavoro.
Franco Pinerolo
12 Maggio 2012
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