di Giuliano Granato
Ciao,
Scrivo per socializzare una notizia che è al tempo stesso individuale e collettiva.
Mercoledì pomeriggio sono stato licenziato. Alle 16:45, a quindici minuti dalla fine del mio turno, mi hanno convocato. Avevano le facce gravi, tutti loro. L’avvocato del lavoro dell’azienda, che in questi mesi si è beccato migliaia di bestemmie da parte di tutti, lui che è stato la faccia “cattiva” dell’azienda, quella fredda, impersonale e invisibile, quella che ti recapita letterine in cui le parole, una in fila all’altra, hanno sempre lo stesso significato: delitto e castigo.
La figlia del “masto”, anche lei invisibile, ma meno impersonale. Quella che hai visto praticamente solo al colloquio di lavoro e il cui nome hai ascoltato al telefono ogni qualvolta arrivava la telefonata di un’agenzia interinale pronta a vendere la sua merce, noi lavoratori e lavoratrici. Quella che pur non esistendo ha diritto, come te che sei lì piantato
in fabbrica per 45 ore a settimana, a contratto, buoni pasto e, ovviamente, un livello ben diverso dal tuo.
Tu che sei entrato col livello più basso previsto dal CCNL e che con quello sei rimasto, a prescindere dalla pluralità di mansioni che hai rivestito. E, infine, il manager degli acquisti, una figura di tuttofare, uno che fa tutto ciò che l’azienda chiede. Un cane fidato serve sempre.
La lettera era sulla scrivania del “masto” accanto alle mille carte che la inondano, in quel disordine che viene mal tollerato quando si butta l’occhio sulle scrivanie degli impiegati, ma che lì, sulla scrivania del “masto”, diventa invece simbolo della frenetica attività del capitano d’industria.
L’occhio mi cade subito sull’oggetto e lì mi sarei potuto fermare: “Licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. La scorro giusto un po’ per capire quale sia il “giustificato motivo oggettivo”: “un notevole calo di fatturato”. Non ci ho creduto nemmeno per un momento. Non è quello il motivo chiave.
Non so che reazione si attendessero. Forse che dessi in escandescenza, che perdessi lucidità, che li mandassi tutti a fare in culo, che tirassi fuori la rabbia che covo da mesi, da anni e che non è rivolta solo contro di loro – pedine, per quanto colpevoli, ma contro un intero sistema: le notti popolate di incubi. Quelle in cui ti svegli alle 3, alle 4 e non sai nemmeno perché. Ti guardi intorno, riconosci il tuo letto, la tua stanza, la persona a te cara, ti tranquillizzi e ti riaddormenti. Contento che ci sia ancora un pezzo di notte per il riposo.
Il traffico, il paternalismo, il “ci sarebbe da fare questa traduzione”, “c’è un ordine urgente da inserire”, “puoi chiamare il cliente”, “il cliente ti ha fatto sapere qualcosa?”, “così non va bene, bisogna rispondere subito”, “prenoti quest’aereo?”, “Anzi no, prenota quest’altro”, “ma il posto uscita d’emergenza a mio padre l’hai preso”, il lavoro come interinale, poi come lavoratore a tempo determinato.
Ma chi ha fatto le leggi sul lavoro ha mai lavorato con una spada di Damocle sulla testa? Ha mai lavorato a tempo determinato? Lo sa cosa significa dover sempre rispondere “signor sì”, ché anche il minimo disallineamento può costare il rinnovo è l’impossibilità di diventare “effettivo”, come dicono qui in fabbrica?
E non venissero a raccontare la storiella dell’imprenditore che non ha alcun interesse a cacciare a calci in culo una risorsa su cui ha investito tempo e denaro per poi dover ricominciare a cercare daccapo. Perché c’è una cosa che preme all’imprenditore: il potere d’imperio. L’imprenditore è il padrone. Forse se tornassimo a utilizzare le parole giuste capiremmo prima. L’autorità del padrone non si sfida. Altrimenti ne paghi il prezzo.
Io, “troublemaker”. Io, che mi ero guadagnato il soprannome di “sindacalista”. Forse per loro era un’offesa. Per me no. Era un complimento, una medaglia che se avessi potuto avrei appuntato fieramente al mio giubbino (perché la giacca non l’ho mai portata). Io che avevo sempre cercato di dare una mano ai colleghi (“dai una mano ai tu’ soci”, uno dei comandamenti operai riportato da Alberto Prunetti nel suo “108 metri”), socializzando con loro quei minimi elementi che avevo appreso sul nostro contratto, sui nostri diritti, sugli obblighi del padrone.
Avevamo lanciato una petizione un paio di anni fa, per chiedere la possibilità di sederci intorno a un tavolo e parlare di un aumento di stipendio. Firmarono quasi tutti e per ben due volte non ricevemmo alcuna risposta. Non un “no”, secco o meno che fosse. Zero risposte. Significa che non venivamo riconosciuti come “soggetto” e questo è forse più grave di qualsiasi attacco al salario, perché colpisce la dignità.
Poi due mesi fa l’iscrizione al sindacato, uno di quelli scomodi, uno di quelli che non firma contratti capestro. La nomina come RSA, rigettata dall’azienda. La prima assemblea sindacale retribuita e non più clandestina come ne avevamo organizzate negli spogliatoi degli operai fino ad allora…
Sono rimasto calmo, quasi impassibile. Provando a tenere i muscoli del corpo e del viso quanto più fermi possibile. Loro si aspettavano qualcosa. E allora ho iniziato a parlare, quasi per non deludere le aspettative. Mi avevano apparecchiato la scenografia e io ero l’attore protagonista. I silenzi sul palcoscenico non vengono capiti. Ho parlato, ma poco. Solo per far presente che non esiste alcuna ineluttabilità in un licenziamento, che c’è sempre un’altra strada. Un altro modo. Che gli strumenti ci sono se non vuoi mettere qualcuno alla porta. Soprattutto quando hai sempre voluto giocare la parte del padrone buono, del buon padre di famiglia, del pastore che ha cura delle sue pecorelle. Quando ti sei vantato di non aver sbattuto mai nessuno fuori, in 34 anni di attività.
Ora che l’hai fatto squarciamo almeno il sipario? Mettiamo fine a questa ipocrisia?
Non gli ho sputato in faccia tutto il veleno che avevo e ho dentro. Perché la guerra è guerra e i rapporti tra lavoratori e padroni sono questo: guerra, sebbene combattuta con armi diverse da fucili, cannoni e missili. E se ti lanci in avanscoperta senza le spalle coperte rischi di esser freddato.
E poi c’è un’altra cosa. Che ho imparato non so come e non so dove. Forse in qualche film, forse nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Sì, forse lì. O nei racconti dei rivoluzionari algerini o di quelli cileni o argentini. Non ricordo di preciso. Ma la cosa si è depositata nel profondo della mia coscienza: non dare soddisfazione al nemico. Non piangere, non vacillare, non tremare. Bada alla tua voce affinché non esca tremante. Non devono leggere paura né disperazione. Se pure ci sono tienile dentro, spingile giù. Fai uscir fuori un sorriso beffardo. “Sorridere è un altro modo di mostrare i denti”. Vale anche in queste situazioni.
Ho preso le mie cose, perché il licenziamento ha decorso immediato. Preferiscono pagarmi il mancato preavviso piuttosto che tenermi lì a lavoro. Dicono che lo fanno per me, mettono nero su bianco che è per consentirmi “una più proficua ricerca di un nuovo impiego”. Prendono per il culo. La verità è che l’hanno fatto perché hanno paura possa far filtrare informazioni, sabotare in qualche modo. Esco a prendere le cose e sono lì a controllarmi, ma me ne rendo conto solo dopo, solo una volta tornato a casa.
Esco, vado via, con la mia lettera di licenziamento e con i miei effetti personali. E stavolta evito di stringere le loro mani, come avevo dovuto fare quando sono entrato nella stanza del “masto”. “Mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano. Mani che poi firman petizioni per lo sgombero, mani lisce come olio di ricino, mani che brandiscon manganelli, che farciscono gioielli, che si alzano alle spalle dei fratelli.” (Frankie Hi-NRG) Mani che scrivono e firmano lettere di licenziamento. Mani che nell’urna elettorale magari votano anche partiti “progressisti”.
Mi hanno licenziato. Stamattina mi sono svegliato nel mio letto, sempre presto, come dovessi uscire per andare a lavorare. Anche senza sveglia. Il mio organismo si è abituato alla disciplina di fabbrica. Mi sveglio e penso che sono fortunato (cazzo, rileggendo ora mi viene in mente che già un’altra volta usammo quest’espressione e fummo bersagliati di critiche – a buon intenditore poche parole). Per mille motivi. Al primo posto ci metto noi. La nostra comunità. Quella che so che non mi offre solo pacche sulle spalle, “mi dispiace” di circostanza. Quella che è capace di sentire l’ingiustizia.
Anche laddove non la cogli per bene, perché sei in un’altra fase della tua vita e un licenziamento puoi solo immaginare cosa sia, per sentito dire. La comunità che ti insegna che la solitudine – anche quella più profonda, quella di individui fragili quali siamo – la puoi sconfiggere, quella che sai si mobilita, non perde il tempo a parlare e basta, quella che agisce. Quella che si guarda “negli occhi con fiera tenerezza, con violento affetto, con passione armata di futuro, perché [siamo] militanti” (Sepúlveda).
I padroni sono un cancro della storia. Prima o poi ce ne libereremo.
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