Sin dal primo momento lo Slai Cobas ha detto che l'amministrazione straordinaria era un rimedio peggiore del male. E quando dicevamo questo non intendevamo certo difendere ArcelorMittal e Morselli: la gestione di ArcelorMittal e della Morselli dell'Ilva di Taranto è stata assolutamente rovinosa per gli interessi degli operai e dei lavoratori e, anche se non è certo un tema a cui siamo affezionati per la situazione generale dell'Ilva, sul piano dei mercati, sul piano delle sue prospettive. Con l'amministrazione straordinaria la situazione è passata nelle mani dirette dello Stato, anzi diremmo, del governo. E il governo la gestisce attraverso un sistema di Commissari capeggiati da Quaranta, un ex amministratore della gestione Riva degli stabilimenti e certamente non ricordato bene da chi ha memoria - perché in questa fabbrica c'è chi ha memoria e chi non ha memoria, chi dice di non sapere ma invece sa - con un ruolo attivo di questo Commissario nelle vicende che hanno portato alle morti degli operai, il 12 giugno in particolare.
Ma la gestione commissariale condivisa e scelta dal governo Meloni/Urso è stata una scelta nello stesso tempo economica, politica e perfino elettorale, visto che l'amministratore delegato attuale, il Commissario per eccellenza dell'Acciaieria, è stato una delle figure presenti che è intervenuto nell'apertura della campagna elettorale del governo Meloni.
Da quanto si è insediato il Commissario la situazione è ulteriormente precipitata: gli operai diretti hanno avuto solo cassa integrazione o sono stati messi in ferie, a casa, gli impianti non hanno avuto alcun intervento a tutela della sicurezza dei lavoratori nella gestione dell'impianto in quanto tale che è degradato ancora di più, rendendo sempre più difficile la sua effettiva ripresa. Verso l'indotto degli oltre circa 4000 lavoratori che vi operano più o meno stabilmente, alcuni non sono ancora rientrati, hanno avuto la cassa integrazione che peraltro, come sempre, si avvicina a una scadenza e in parte non è stata pagata, e per alcuni si sono chiuse più o meno definitivamente le porte delle imprese.
I padroni organizzati in due strutture, confluenti e concorrenti, quella della Confindustria e quella dell'AIGI che raccoglie - dicono - la maggioranza delle ditte dell'appalto, dopo aver fatto fuoco e fiamme per ottenere i soldi, questi soldi non li hanno ottenuti. Anzi, il sistema deciso dal governo per pagare gli arretrati a queste imprese è sembrato subito quanto mai complesso, articolato, confuso e volto più a nascondere la realtà che a risolverla. Di conseguenza i lavoratori, anche quelli rientrati al lavoro, non hanno nessuna garanzia del presente e meno che mai del futuro.
Non solo, oggi l'AIGI dichiara sulla stampa nella sua assemblea di ieri (l'altro ieri), “siamo tornati al 2015”, vale a dire una situazione di fallimento che portò a una perdita sostanziale di buona parte dei crediti che le imprese vantavano dall'azienda. Quindi in realtà si è trattato di un fallimento mascherato che produce grossi problemi non solo sul fronte del recupero effettivo dei crediti dell'azienda, ma evidentemente ne produce anche per i lavoratori.
L'ultimo incontro tra sindacati e Commissari ha riguardato il problema di scongiurare che ciò che i lavoratori non hanno ancora percepito, i diretti innanzitutto, possa non essere insinuato nel passivo fallimentare dell'azienda che, come si sa, coi passivi fallimentari difficilmente lavoratori recuperano quello che gli tocca, ancor meno coloro che sono impegnati in vertenze giudiziarie. Ma in questa riunione i sindacati hanno avuto assicurazioni assolutamente generiche: “La società comunica che è in corso la valutazione, nei limiti del potere riconosciuti ai Commissari e della legge, di ogni possibile soluzione atta a permettere ai lavoratori e alle lavoratrici di ottenere quanto prima tutti i crediti loro vantati, così da evitare ogni ulteriore richiesta”.
Ma che risposta è? Essa può trasformarsi molto più facilmente in un NO.
I lavoratori su questa risposta non sono affatto d'accordo, sia chiaro. Certo, per cambiarla ci vorrebbe ben altro che gli incontri con i Commissari, ma la sostanza è che anche su questo i lavoratori mantengono tutte le loro preoccupazioni, come le preoccupazioni della continuità lavorativa per i lavoratori delle ditte dell'appalto.
Per il futuro sono stati annunciati piani che prevedono progressivamente il passaggio dall'attuale non produzione - perché è stato fermato anche l'altoforno in funzione - a una fase di produzione che possa raggiungere livelli compatibili con il mantenimento di una parte rilevante dell'organico dei lavoratori in attesa che i piani di ambientalizzazione, di conversione, che vengono annunciati dal governo nel quadro della transizione ecologica, possano portare a una soluzione finale.
Ma su questo le stesse organizzazioni sindacali dopo l'incontro del 29, in particolare la Uilm di Palombella, che rappresenta il socio di maggioranza dei sindacati, in particolare nell'Acciaierie di Taranto e nell'appalto, ha strillato che se si va avanti così ci saranno 5000 esuberi. Più i 1600 lavoratori in cassa integrazione straordinaria con l'accordo del 2018 e che avrebbero dovuto rientrare entro dal 2023 che invece non solo sono fuori, ma destinati a non rientrare più.
Quindi che cosa abbiamo avuto noi in tutto questo passaggio se non l'aggravamento della condizione generale degli operai e dei lavoratori? Che cosa abbiamo avuto in questo passaggio se non la trasformazione degli interventi del governo e del ciclo di tavoli e contro tavoli se non una situazione che è lungi dall'aver risolto un solo problema in questa azienda dal punto di vista degli operai?
E’ questo che stiamo sostenendo da settimane alla fabbrica. Che si scontra con le continue riassicurazioni, ora strillate, ora dette con fare paternalistico ai lavoratori che "la situazione si sta risolvendo". Quindi i lavoratori sono alla mercé di comunicazione aziendali trasformate in incontri sindacali, mentre devono assistere impavidi agli interventi sulla stampa delle segreterie confederali che danno un quadro che evidentemente è smentito dalla realtà quotidiana della vita degli operai e dei lavoratori.
È inutile dire che anche sul problema della sicurezza si sfiora il ridicolo: una fabbrica che funziona realmente poco, con pochi operai, ti aspetti che perlomeno non faccia danni... E invece i danni li fa! Giorni fa ha preso fuoco all'improvviso il nastro trasportatore con rilevanti danni all'impianto, che se ci fossero stati i lavoratori si traduceva nell'ennesima strage.
Perfino quando questa fabbrica non funziona fa danni. La nostra battaglia è perché gli operai tornino massicciamente a lavorare e contestino all'interno condizioni di lavoro, di salute, di sicurezza e di ambiente e controllino dal basso ambientalizzazione e i piani faraonici che vengono annunciati per trasformare questo stabilimento in uno stabilimento compatibile con i lavoratori e con la situazione davvero grave nella città e nei quartieri continui a questa città.
Ma questa strada è percorribile solo con l'autonomia operaia, l'autorganizzazione della lotta dei lavoratori. Autorganizzazione non significa che debbano fare da soli ma che debbano staccarsi da chi gestisce il movimento sindacale in questa fabbrica: i sindacati confederali e il socio minore, ma non tanto minore, USB. Si debbano staccare per prendere un percorso di lotta sulla base di una Piattaforma operaia e se su questa Piattaforma operaia non c’è l'accordo devono fare fuoco e fiamme. E se queste fiamme e fuoco portano al fatto che questo stabilimento non ha più ragione di esistere perché i lavoratori non vi possono lavorare né ottenere né lavoro né salario, allora la forza dei lavoratori dovrà essere in grado di trovare soluzioni alternative. Ma solo attraverso questo percorso di lotta e di autorganizzazione dei lavoratori è possibile mettere in discussione la fine nota di questo stabilimento e la soluzione non sarà neanche l'auspicata chiusura dell'ambientalismo piccolo-borghese che utilizza un allarme sociale e sanitario più che mai giustificato.
I piani del governo sono chiari: rimettere in sesto l'ex ILVA in qualche modo penalizzando gli operai con cassa integrazione quasi permanente e pace sociale all'interno della fabbrica, accettazione di contratti precari, di lavoro in ogni condizione e di una massima flessibilità nella gestione della loro presenza per consegnare questa fabbrica a nuovi padroni, del genere e anche peggiori, come purtroppo l'analisi ci costringe a dire, di quelli che l’hanno avuta, da Riva ad Arcelor Mittal, ai futuri padroni che hanno messo gli occhi su questo stabilimento che resta comunque “strategico e centrale”. Questa fabbrica è strategica perché nella contesa mondiale dell'acciaio, acutizzata dalla crisi del Medio Oriente e dagli effetti della guerra in Ucraina, il controllo di questa postazione della produzione mondiale, europea, italiana, della siderurgia, è uno dei tasselli importanti di questa contesa. Tant'è vero che invece che sparire i padroni sono ben presenti nell'idea di mettere mani sullo stabilimento, i padroni ucraini innanzitutto, i grandi sponsor di Zelensky e dell'oligarchia ucraina, vogliono avere questo stabilimento come hanno messo mani su quello di Piombino e vengono considerati uno dei possibili acquirenti dello stabilimento. Così come altri gruppi indiani sono pronti a prendere il posto di ArcelorMittal, così come gli industriali italiani intorno alla Federacciai, con contese tra di loro, puntano a mettere le mani su questo stabilimento, da Arvedi alla non certo silente Marcegaglia.
Nei prossimi giorni questi padroni manderanno i loro uomini a visitare gli impianti per potere vedere in che stato sono. Ma sono visite guidate che hanno lo scopo di trovare il miglior offerente che nel caso concreto sono coloro che garantiscono un'effettiva ripresa scaricata sui lavoratori, sulla città, sul modello Riva e sul modello ArcelorMittal.
Quindi riorganizzare le file operaie non solo è assolutamente necessario per non trasformare la sconfitta che i lavoratori hanno subito già in questo stabilimento in disfatta, non soltanto per strappare risultati concreti sul fronte del rientro al lavoro e del pagamento dei salari, non soltanto per ridurre gli effetti di una cassa integrazione permanente e ottenere una reale integrazione salariale che permetta ai lavoratori di non perdere una parte rilevante del loro salario, ma soprattutto per costruire la forza che permetta di fronteggiare i nuovi piani dei nuovi padroni spalleggiati e sostenuti da governo, e sicuramente da larga parte dell'apparato sindacale, che eventualmente prenderà in mano questo stabilimento.
La nostra voce può essere una voce nel deserto, ma è l'unica voce che permette ai lavoratori di riprendere nelle mani il loro destino, presente e futuro. Al di fuori di questo la prospettiva è la cogestione governo/padroni/sindacato della massiccia ondata di nuovi esuberi che porterà con sé naturalmente l'intensificazione dello sfruttamento di chi in questa fabbrica rimane.
Un punto è importante. Abbiamo detto che Acciaierie non è di Taranto, è la parte determinante di un gruppo industriale che è Acciaierie d'Italia nel suo complesso, ex ILVA, e in questo vi sono gli stabilimenti di Genova e Novi Ligure. All'ultima fase di questa discussione col governo e di trattative, il governo ha portato a casa una divisione tra i lavoratori proponendo che l'attività a freddo della fabbrica fosse in realtà realizzata autonomamente negli stabilimenti di Genova e Novi Ligure, un'operazione che tende ad associare le organizzazioni sindacali, in primis la Fiom che è maggioritaria in questi stabilimenti di Genova, in un patto neocorporativo con padroni e governo che scarichi Taranto e che contribuisca all'approfondimento della crisi di questo stabilimento.
Queste cose vengono dette a mezza voce dai sindacati, invece è un fatto di sostanza. È del tutto evidente che gli operai delle Acciaierie, come pure l'intero panorama delle industrie siderurgiche, avrebbero tutta la necessità di una lotta comune contro i piani in corso in Acciaierie all'interno della più generale battaglia dentro il sistema siderurgico e industriale italiano. Ma la linea perseguita da padroni, governo e sostenuta da parte dei sindacati è quella di dividere i lavoratori, di metterli uno contro l'altro.
Per quanto riguarda Taranto, questo sarebbe grottesco. Come si sa, una delle soluzioni che vengono agitate è quella della chiusura dell'aria a caldo. Chiaramente non entriamo nel merito se effettivamente a Taranto con la chiusura dell'aria a caldo si possa realizzare quel processo di trasformazione, di conversione, che salvi lavoro e salute, ma è sicuramente il contrario di quello che il governo intende fare, che anzi l'aria a caldo la vuole bene lasciare ed è l'aria a freddo che vuole togliere all'Acciaierie di Taranto, con il risultato, quindi inevitabile, di aggravamento delle condizioni di lavoro e di permanenza di una condizione di salute e inquinamento assolutamente inaccettabile e organica al sistema capitalista e alle leggi che guidano l'azione dei governi.
Quindi ce n'è di carne a cuocere. Nel fare questa battaglia, per nostra “sfortuna” non siamo soli in città e in fabbrica in particolare, ma lo siamo sul piano nazionale in cui il sindacalismo non solo confederale, ma anche di base, di classe, se ne fotte di ciò che succede alle Acciaierie. L'ideologia, la prassi, la visione della lotta sindacale di classe in Italia e in generale per queste organizzazioni sindacali fa a meno delle fabbriche e in particolare delle grandi fabbriche. E quindi è evidente che su questo una battaglia che sia anche nazionale è necessaria e che chiaramente sarà vinta se innanzitutto gli operai della più grande fabbrica di questo paese e l'appalto di questa fabbrica troveranno la forza di ribellarsi.
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