Si allungano le inutili autocelebrazioni autoreferenziali sulle giornate dello sciopero generale del 2 dicembre e della manifestazione nazionale del 3 dicembre da parte delle diverse organizzazioni sindacali che hanno promosso queste due giornate di lotta.
Lo sciopero generale (di massa) è un processo determinato dal basso, di una serie di lotte parziali che trovano nella lotta generale aspetti unificanti. Oppure che già si danno su un aspetto delle contraddizioni del modo di produzione che dividono i lavoratori mettendoli in concorrenza reale tra loro nel rapporto che hanno con la produzione del valore, che lo sbocco dello sciopero generale tende appunto a contrastare “unificando” realmente i lavoratori, le lavoratrici e gli altri settori della grande massa proletaria che guardano al movimento organizzato dei lavoratori.
Lo sciopero generale
non puó essere invocato o prefabbricato volontaristicamente. Tanto
meno darsi a partire da una impostazione ideologica.
Lo sciopero
generale di massa è una cosa seria che non puó essere ridotto ad un
veglione in maschera, con gli operai e i lavoratori ridotti a
comparse di cartone.
Se lo sciopero del 2
dicembre non è stato di massa, esso ha registrato, che anche nei
luoghi della produzione dove un settore minoritario dei lavoratori lo
ha promosso, che di fatto non si è scioperato nella necessità di
guardare ad una dimensione generale della lotta, bensì è stato
percepito dai lavoratori strumentalmente per rafforzare questa o
quella singola vertenza parziale e settoriale.
Laddove nei
settori della produzione e nelle categorie del lavoro il 2 dicembre
si è scioperato, di fatto lo è stato per questioni di categoria, di
specifica vertenza, della singola istanza o del singolo magazzino.
In
sostanza è stato uno sciopero autoreferenziale, che non ha nemmeno
unificato quelle conflittualità parziali che pure esistono, quei
proletari che sentono i primi morsi della crisi e che cercano una
scorciatoia di fronte alla offensiva determinata dalla crisi.
In
questa fase i settori di lavoratori che negli anni precedenti sono
stati protagonisti di importanti lotte, di fronte all’arretramento
generale dei lavoratori sperano di moderare quanto perdono sul piano
generale delle proprie condizioni di vita e di lavoro (a ritmi sempre
più vertiginosi) nel rapporto conflittuale col singolo padrone.
Di
fronte all’inflazione, al caro vita si spera di strappare
all’interno della subalterneità alla dittatura della produttività
del lavoro qualche ritorno salariale in cambio.
È un limite
oggettivo di questa fase, prima ancora che soggettivo.
Ma anche
le lotte parziali e su questioni di “dettaglio” possono essere
utili per aiutare a riflettere sul “che cosa manca” e su quali
sono le cause della debolezza e dell’arretramento dei
lavoratori.
Putroppo sia il 2 dicembre che il 3 dicembre si è
assistito ad una rappresentazione che va proprio nel senso opposto al
necessario, la conferma della debolezza e della divisione reale dei
lavoratori per la concorrenza in cui viene gettata la forza lavoro
nel suo rapporto col capitale.
Chi ha invocato il
fronte unico dei lavoratori nell’indizione dall’alto dello
sciopero generale, immediatamente ha rappresentato la divisione reale
dei lavoratori non superabile con espedienti soggettivi lasciandosi
trascinare dalle forze oggettive che dividono i lavoratori.
“Auto
referenzialità” e “auto celebrazione” delle proprie poche
forze viste in piazza non è quanto serve.
Agli occhi del
sindacalista saranno piaciute quelle poche migliaia di bandiere del
proprio sindacato sventolare disunite e separate in piazza.
Ma
al lavoratore, che di mestiere fa l’operaio (e non il
sindacalista), che il 3 dicembre c’era o a quello che non c’era,
tutto questo rafforza l’isolamento ed il vuoto, la messa in scena
dell’incapacità reale nel momento dato ad unificare, mentre ci si
lascia dividere nella concorrenza: tra lavoratori italiani ed
immigrati, lavoratori della città e quelli della campagna, tra
operai e braccianti, tra lavoratori di questa categoria e di
quell’altra categoria, dentro la stessa categoria, dentro le stesse
filiere della produzione e di settore.
Figuriamoci poi sul piano della opposizione alla guerra in corso, contro l’occidente e contro l’imperialismo italiano dove le famiglie proletarie di fatto stanno accettando i sacrifici imposti dalla crisi del capitale consumando di meno.
Come se ne esce? Non
esiste una ricetta del “che fare?”.
Chi la insegue e la
ripropone finisce inevitabilmente a fallire, come è accaduto il 3
dicembre nella manifestazione nazionale di Roma del sindacalismo di
base.
Chi ritiene che
l’aver assistito a due mini cortei separati del sindacalismo di
base e per di più sfilacciati non sia un danno generale per i
lavoratori ed anche per la tenuta delle singole e poche parziali
lotte in corso, allora non ha capito nulla.
Chi non si preoccupa
di questo, non avrà modo di avvertire le spinte centrifughe che la
crisi e la ristrutturazione della logistica stanno già determinando
tra i lavoratori di questo settore della produzione del valore,
mentre la crisi in occidente chiama i lavoratori a dover competere
con le produzioni delle merci dell’Asia a minor costo.
Il corso catastrofico della crisi determinerà le condizioni per la ripresa di un movimento reale di lotta generale contro il capitalismo, che si darà per necessità e non per “volontà ideologica”. Non è possibile prevedere forme e modalità di un nuovo movimento proletario meticcio pensando di “apparecchiare” le varie ricette programmatiche di lotta politica sindacale.
Viceversa sarebbe
utilissimo chiamare alla riflessione generale i lavoratori e le
lavoratrici sulle cause oggettive che determinano le divisioni dei
lavoratori, uscendo fuori dalla autocelebrazione e dalla
autoreferenzialità, che non aiutano, e dal pettegolezzo settario di
accuse e contro accuse tra le organizzazioni del sindacalismo di
base,
facendo un bilancio serio su cosa abbiamo assistito il 2
dicembre ed il 3 dicembre.
Questo è il “che fare” possibile e necessario per tenere laddove non si vuole ulteriormente indietreggiare.
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