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Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
MONSANTO: L’INCHIESTA DI
LE MONDE
Medicina
Democratica segreteria@medicinademocratica.org
Carlo Soricelli carlo.soricelli@gmail.com
REPORT MORTI SUL LAVORO
DAL 1 GENNAIO AL 31 OTTOBRE 2017
Comitato Eureco comitatosostegnovittime.eureco@gmail.com
COMUNICATO STAMPA
ANNIVERSARIO TRAGEDIA EURECO
Teoria & Prassi
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SOLIDARIETA’ CON GLI
OPERAI ILVA DI CORNIGLIANO: NO AI LICENZIAMENTI PER I PROFITTI!
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LO STATO COME DATORE DI
LAVORO
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From: Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
To:
Sent: Thursday, October 26, 2017 4:25 PM
Subject: MONSANTO: L’INCHIESTA DI LE MONDE
di Stéphane Foucart,
Stéphane Horel
Tratto da Le Monde
Tradotto e pubblicato da
Internazionale
“In passato siamo già
stati attaccati e calunniati, ma questa volta siamo al centro di un’offensiva
senza precedenti per portata e durata”.
Christopher Wild si
risiede rapidamente e smette di sorridere.
Dal suo ufficio all’
Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) si vedono i tetti di
Lione.
Wild, il direttore della
IARC, ha soppesato attentamente ogni parola, con la gravità richiesta dalla
situazione.
Da due anni, infatti,
l’istituzione che dirige è al centro di un duro attacco: la credibilità e
l’integrità del suo lavoro sono criticati, i suoi esperti denigrati e attaccati
per vie legali, i finanziamenti ostacolati.
Da quasi cinquant’anni,
sotto la guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il compito
principale della IARC è individuare e catalogare le sostanze cancerogene, ma
ora quest’importante istituzione comincia a vacillare sotto il peso degli
attacchi.
Le ostilità sono
cominciate il 20 marzo 2015.
Quel giorno La IARC
annuncia le conclusioni della sua Monografia n. 112 sui possibili effetti
cancerogeni di alcuni pesticidi ed erbicidi organofosforici, lasciando tutto il
mondo sbalordito.
Al contrario della
maggior parte delle agenzie, la IARC considera il diserbante più usato al mondo
genotossico (cioè capace di danneggiare il DNA), cancerogeno per gli animali e
“probabilmente cancerogeno” per gli esseri umani.
La sostanza in questione,
il glifosato, è il principale componente del Roundup, il più importante
prodotto di una delle multinazionali più conosciute del mondo: la Monsanto, un
mostro sacro dell’agrochimica.
Usato da più di quarant’anni,
il glifosato entra nella composizione di almeno 750 prodotti commercializzati
da un centinaio di aziende in più di 130 paesi.
Tra il 1974, data del suo
lancio sul mercato, e il 2014 il glifosato impiegato nel mondo è passato da
3.200 a 825.000 tonnellate all’anno.
L’aumento spettacolare è
dovuto all’adozione sempre più diffusa di semi geneticamente modificati per
tollerare questa sostanza, i cosiddetti semi Roundup Ready.
La Monsanto rischia
addirittura di non sopravvivere se l’uso di questa sostanza sarà limitato o
proibito del tutto. L’azienda statunitense ha sviluppato il glifosato e ne ha
fatto la base del suo modello economico.
Ha costruito la sua
fortuna vendendo il Roundup e i semi che lo tollerano.
Così, quando la IARC
annuncia che il glifosato è “probabilmente cancerogeno”, la Monsanto reagisce
con una violenza inaudita.
In un comunicato critica
la junk science (scienza spazzatura) della IARC, parla di una “selezione
distorta” di “dati limitati”, fatta in base a “motivazioni nascoste”, che
portano a una decisione presa solo dopo “qualche ora di discussione nel corso
di una riunione di una settimana”.
Mai un’azienda aveva
messo in discussione in modo così brutale l’integrità di un’agenzia legata alle
Nazioni Unite.
L’offensiva della Monsanto
è cominciata, almeno quella che si propone d’influenzare l’opinione pubblica.
In realtà la Monsanto sa
bene che questa valutazione del glifosato è stata fatta da un gruppo di esperti
dopo un anno di lavoro e dopo una riunione durata diversi giorni a Lione.
Le procedure della IARC
prevedono inoltre che le aziende legate al prodotto esaminato abbiano il
diritto di assistere alla riunione finale.
Per la valutazione del
glifosato, infatti, la Monsanto ha inviato un “osservatore”: l’epidemiologo Tom
Sorahan, professore dell’università di Birmingham, nel Regno Unito.
Il rapporto che lo
scienziato stila il 14 marzo 2015 per i suoi committenti conferma che tutto si
è svolto nei modi previsti.
“Il presidente del gruppo
di lavoro, i copresidenti e gli esperti invitati alla riunione sono stati molto
cordiali e disposti a rispondere a tutte le mie richieste di chiarimento”,
scrive Sorahan in una lettera inviata a un dirigente della Monsanto.
La lettera figura nei
cosiddetti Monsanto papers, un insieme di documenti interni dell’azienda che la
giustizia statunitense ha cominciato a rendere pubblici all’inizio del 2017
nell’ambito di un procedimento giudiziario in corso.
“La riunione si è svolta
rispettando le procedure della IARC”, aggiunge l’osservatore dell’azienda statunitense.
“Il dottor Kurt Straif,
il direttore delle monografie, ha una grande conoscenza delle regole in vigore
e ha insistito perché fossero rispettate”.
Del resto Sorahan (che
non ha risposto alle domande di Le Monde) sembra molto imbarazzato all’idea che
il suo nome sia associato alla risposta della Monsanto:
“Non vorrei apparire in
alcun documento dell’azienda”, scrive, ma allo stesso tempo offre il suo “aiuto
per formulare” l’inevitabile contrattacco che il gruppo organizzerà.
Qualche mese dopo,
infatti, tutti gli scienziati non statunitensi del gruppo di esperti della IARC
sul glifosato ricevono una lettera inviata da Hollingsworth, lo studio legale
della Monsanto, che intima di consegnare tutti i file legati al loro lavoro per
la Monografia 112: bozze, commenti, tabelle, tutto quello che è passato
attraverso il sistema informatico della IARC.
“Se dovesse rifiutare”,
avvertono gli avvocati, “le chiediamo di prendere tutte le misure ragionevoli
in suo potere per conservare questo materiale intatto, in attesa di una
richiesta formale ordinata da un tribunale degli Stati Uniti”.
“La vostra lettera è
intimidatoria e pericolosa”, scrive uno degli scienziati nella sua risposta del
4 novembre 2016. “Trovo la vostra procedura criticabile e priva di ogni
riguardo, anche in base agli standard contemporanei”.
Il patologo Consolato
Maria Sergi, professore dell’università dell’Alberta, in Canada, aggiunge: “La
vostra lettera è dannosa, perché cerca di provocare volutamente ansia e
apprensione in un gruppo di studiosi indipendenti”.
Sugli esperti
statunitensi del gruppo si esercitano pressioni con altri mezzi, ancora più
“intimidatori”. Negli Stati Uniti il Freedom Of Information Act (FOIA), la
legge sulla libertà d’informazione, permette a qualunque cittadino, nel
rispetto di determinate condizioni, di chiedere l’accesso ai documenti prodotti
dalle istituzioni e dai loro funzionari, come gli appunti, le email e i
rapporti interni.
Secondo le informazioni
in possesso di Le Monde, gli studi legali Hollingsworth e Sidley Austin
presentano cinque richieste.
La prima nel novembre del
2015 ai National Institutes of Health (NIH), l’agenzia del dipartimento della
salute statunitense a cui appartengono due esperti del gruppo.
Per gli altri ricercatori
vengono fatte richieste all’Agenzia Californiana per la Protezione
dell’Ambiente (CalEpa), alla Texas A&M University e all’Università Statale
del Mississippi.
In seguito alcune di
queste istituzioni sono addirittura citate dagli avvocati della Monsanto nei
procedimenti giudiziari sul glifosato e sono costrette a consegnare alcuni
documenti interni.
L’obiettivo di queste
manovre intimidatorie è far tacere le critiche?
Alcuni scienziati di fama
mondiale, di solito disponibili a parlare con i mezzi d’informazione, hanno
preferito non rispondere a Le Monde, nemmeno attraverso semplici incontri
informali.
Altri hanno accettato di
parlare per telefono su una linea privata e fuori dagli orari d’ufficio.
I parlamentari
statunitensi non hanno bisogno di fare ricorso al FOIA per chiedere
informazioni alle istituzioni scientifiche federali.
Il repubblicano Jason
Chafetz, che presiede la commissione della camera statunitense per il controllo
e la riforma dello stato, scrive al direttore dei NIH, Francis Collins, il 26
settembre 2016.
Gli ricorda che le scelte
della IARC “hanno suscitato molte polemiche” e che, nonostante un “passato
ricco di polemiche, ritrattazioni e incoerenze”, l’istituto beneficia di
“significativi finanziamenti pubblici” statunitensi attraverso l’agenzia.
In effetti 1,2 milioni di
euro sui 40 milioni del bilancio annuale della IARC provengono dal NIH.
Il deputato chiede quindi
a Collins chiarimenti e giustificazioni sulle spese dell’agenzia legate alla
IARC.
Il giorno stesso
quest’iniziativa viene elogiata dall’American Chemistry Council (ACC), la
potente lobby dell’industria chimica statunitense di cui fa parte anche la
Monsanto: “Speriamo che sia fatta luce sulla stretta e opaca relazione” tra la
IARC e le istituzioni scientifiche statunitensi, si legge in un documento.
Senza dubbio l’ACC ha
trovato in Chafetz un alleato prezioso.
Già nel marzo del 2015 il
deputato repubblicano aveva scritto alla direzione di un altro organismo di
ricerca federale (il National Institute of Environmental Health Sciences) per
chiedergli informazioni sulle ricerche relative agli effetti nocivi del bisfenolo
A, un elemento molto diffuso in alcune plastiche.
Nei mesi successivi alla
pubblicazione della Monografia 112 la Croplife International, l’organizzazione
che difende a livello mondiale gli interessi dei produttori di pesticidi e
sementi,
contatta i rappresentanti
di alcuni dei 25 paesi riuniti nel consiglio direttivo della IARC per
lamentarsi della qualità del lavoro dell’agenzia.
Il problema è che questi
“stati partecipanti” contribuiscono per circa il 70 per cento al bilancio
dell’istituto.
Secondo la IARC, vengono
contattati almeno Canada, Paesi Bassi e Australia. Nessuno dei rappresentanti
di questi paesi ha voluto rispondere a Le Monde.
Nella saga del glifosato
appaiono anche alcuni personaggi che sembrano usciti da un romanzo di John Le
Carré.
Nel giugno del 2016 un
uomo che si presenta come giornalista, ma che non è iscritto ad alcun albo
professionale, partecipa alla conferenza organizzata dalla IARC a Lione per il
suo cinquantesimo anniversario. Contattando scienziati e funzionari internazionali,
parla con molte persone della IARC dei suoi finanziamenti, del suo programma di
monografie.
“Mi ha fatto pensare a
quelle persone ambigue che s’incontrano negli ambienti delle organizzazioni
umanitarie. Non si sa chi sono, ma si capisce che cercano di ottenere
informazioni”, ha raccontato una delegata della conferenza che ha preferito
mantenere l’anonimato.
Alla fine di ottobre del
2016 l’uomo si fa rivedere, questa volta alla conferenza annuale organizzata
dall’Istituto Ramazzini, un famoso e rispettato istituto di ricerca
indipendente sul cancro con sede a Bologna.
Perché al Ramazzini?
Forse a causa di un
annuncio fatto qualche mese prima dall’istituto italiano su uno studio sul
potere cancerogeno del glifosato.
Il presunto giornalista
si chiama Christopher Watts e fa domande sull’autonomia dell’istituto e sulle
sue fonti di inanziamento.
Dal momento che usa una
e-mail che termina con “@economist.com”, i suoi interlocutori non mettono in
dubbio il suo legame con il prestigioso settimanale britannico The Economist.
Agli scienziati che gli
chiedono spiegazioni dice di lavorare per l’Economist Intelligence Unit, una
società di ricerca e analisi del gruppo Economist.
L’Economist Intelligence
Unit ha confermato che Watts ha realizzato diversi rapporti per l’azienda, ma
ha sottolineato di non “sapere a che titolo assisteva” alle due conferenze: “In
quel periodo lavorava su un articolo per l’Economist che alla fine non è stato
pubblicato”.
La redazione del
settimanale, però, sostiene di non avere “alcun giornalista con questo nome”.
L’unica cosa chiara è il
nome di un’azienda creata da Watts alla fine del 2014, la Corporate
Intelligence Advisory Company. Watts, che secondo alcuni documenti
amministrativi risiede in Albania, non ha voluto rispondere alle domande di Le
Monde.
In pochi mesi almeno
cinque persone si presentano come giornalisti, ricercatori indipendenti o
assistenti di studi legali per avvicinare gli scienziati della IARC e i
ricercatori che collaborano ai suoi lavori.
Tutti cercano
informazioni molto precise sulle procedure e sui finanziamenti dell’istituto.
Uno di loro, Miguel
Santos-Neves, che lavora per la Ergo, una società di spionaggio economico con
sede a New York, è stato incriminato dalla giustizia statunitense per aver
usato un’identità falsa.
Come ha raccontato il New
York Times nel luglio del 2016, Santos-Neves indagava per conto di Uber su una
persona in causa con l’azienda di trasporto privato e aveva interrogato i suoi
colleghi di lavoro con falsi pretesti.
La Ergo non ha risposto
alle domande di Le Monde.
Come Watts, anche due
organizzazioni dalla dubbia reputazione cominciano a interessarsi non solo alla
IARC, ma anche all’Istituto Ramazzini.
L’Energy and
Environmental Legal Institute (E&E Legal) si presenta come
un’organizzazione no profit che ha tra le sue missioni quella di “chiedere
spiegazioni a chi aspira a una regolamentazione governativa eccessiva e
distruttiva, fondata su decisioni politiche dalle intenzioni subdole, sulla
scienza spazzatura e sull’isteria”.
La Free Market Environmental
Law Clinic, invece, “cerca di fornire un contrappeso al cavilloso movimento
ambientalista, che promuove negli Stati Uniti un regime regolamentare
economicamente distruttivo”.
Secondo alcuni elementi a
disposizione di Le Monde, queste organizzazioni hanno presentato almeno 17
richieste di documenti ai NIH e alla Environmental Protection Agency (EPA),
l’agenzia del governo statunitense per la tutela dell’ambiente.
Impegnate in
un’aggressiva guerriglia giudiziaria e burocratica, chiedono la corrispondenza
di diversi funzionari statunitensi in cui siano “contenuti i termini IARC,
glifosato, Guyton” (Kathryn Guyton è la scienziata della IARC responsabile
della Monografia n.112).
Inoltre chiedono tutti i
dettagli sulle borse di studio, le sovvenzioni e le relazioni, finanziarie o
meno, tra questi organismi statunitensi, la IARC, alcuni scienziati e
l’Istituto Ramazzini.
Le due organizzazioni
sono dirette da David Schnare, uno scettico del cambiamento climatico noto per
aver fatto forti pressioni su diversi climatologi.
Nel novembre del 2016
Schnare lascia temporaneamente la E&E Legal per unirsi allo staff di Donald
Trump.
Tra i dirigenti
dell’organizzazione c’è anche Steve Milloy, un famoso esperto di marketing
legato all’industria del tabacco.
Alle domande sulle
motivazioni di questa associazione e sulle sue fonti di finanziamento, il
presidente della E&E Legal ha risposto per email: “Salve, non siamo
interessati”.
La notizia di queste
richieste di documenti viene ripresa da alcuni mezzi d’informazione.
Per esempio da The Hill,
un sito molto seguito dai protagonisti della vita parlamentare a Washington.
Il sito è curato da una
squadra di giornalisti che, come ha documentato l’organizzazione non profit Us
Right to Know (USRTK), ha legami consolidati con l’industria agrochimica e con
istituzioni conservatici come lo Heartland Institute o il George C. Marshall
Institute, entrambi impegnati nel negare i cambiamenti climatici.
Nei loro articoli
compaiono gli stessi argomenti e talvolta le stesse espressioni: si critica la
“scienza approssimativa” di una IARC indebolita da conflitti d’interesse e
“molto criticata”, anche se non dice mai da chi.
Gli avvocati coinvolti
nei processi in corso negli Stati Uniti hanno rivelato che la Monsanto ha usato
mezzi anche più discreti.
Rispondendo sotto
giuramento alle domande dei difensori di persone malate che attribuiscono il
loro tumore al Roundup, alcuni responsabili dell’azienda hanno parlato di un programma
segreto chiamato “Let nothing go” (Non lasciar passare niente), che aveva
l’obiettivo di rispondere a tutte le critiche.
I verbali di queste
audizioni sono stati secretati, ma alcuni appunti trasmessi dagli studi legali
coinvolti nelle inchieste permettono di avere qualche informazione.
Secondo queste note, la
Monsanto avrebbe fatto ricorso ad aziende che “usano delle persone in apparenza
senza legami con la multinazionale per lasciare commenti sugli articoli online
e sui post di Facebook favorevoli alla Monsanto, ai suoi prodotti chimici e
agli OGM”.
Nei mesi successivi la
coalizione contro la IARC diventa ancora più forte.
Alla fine di gennaio del
2017, alcuni giorni dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, l’American
Chemistry Council apre un nuovo fronte sui social network, lanciando una
“campagna per l’accuratezza della ricerca nella sanità pubblica”.
L’obiettivo è ottenere
una “riforma” del programma delle monografie della IARC.
Su un sito creato
appositamente e su Twitter, la potente lobby della chimica non va tanto per il
sottile: “Un pezzo di bacon o di plutonio? Per la IARC è la stessa cosa”.
Il testo è accompagnato
da un fotomontaggio che mostra due cilindri verdi fosforescenti accanto a delle
uova fritte con il bacon.
In quel periodo, nell’ottobre
del 2015, la IARC aveva definito gli insaccati “cancerogeni” e la carne rossa
“probabilmente cancerogena”, proprio come il glifosato.
Forse, grazie ai legami
con i collaboratori più stretti di Trump, le industrie chimiche e agrochimiche
pensano di essere onnipotenti.
Del resto Nancy Beck, la
direttrice dell’American Chemistry Council, è la responsabile dei servizi per
la regolamentazione dei prodotti chimici e dei pesticidi dell’Epa, l’autorità
statunitense che dovrebbe riesaminare il dossier sul glifosato.
Andrew Liveris,
amministratore delegato della Dow Chemical, è stato nominato da Trump in
persona alla direzione della Manufacturing jobs initiative, un gruppo di
esperti che consiglia il presidente sull’occupazione nel settore
manifatturiero.
Alla fine di marzo il
deputato repubblicano Lamar Smith, presidente della commissione della camera
dei rappresentanti statunitense sulla scienza, lo spazio e la tecnologia,
rivolge un’interrogazione al ministro della sanità, Tom Price, sui legami
finanziari tra il National institute of environmental health sciences (Niehs) e
il Ramazzini.
Il suo obiettivo è
“sincerarsi che i beneficiari delle sovvenzioni rispondano ai più alti standard
d’integrità scientifica”.
La richiesta del
parlamentare è bastata a due giornalisti vicini all’industria, Julie Kelly e
Jef Stier, per trasformare l’iniziativa in “un’inchiesta del congresso” su
“un’oscura organizzazione”, il Ramazzini.
Subito dopo
l’interrogazione, Kelly e Stiefer pubblicano sulla National Review un articolo
che attacca Linda Birnbaum, la direttrice del Niehs, accusandola di promuovere
un programma “chemiofobico”.
Invece Christopher
Portier, ex vicedirettore del Niehs, che ha seguito i lavori della IARC come
“specialista invitato”, viene definito un “noto militante anti-glifosato”.
Secondo l’articolo sia
Birnbaum sia Portier “fanno parte del Ramazzini”.
Per Kelly e Stier questo
sarebbe “un ulteriore esempio del modo in cui la scienza è stata
politicizzata”.
L’informazione viene
anche ripresa da Breitbart News, il sito di estrema destra fondato da Steve
Bannon, il consigliere strategico di Trump.
Definire il Ramazzini
“un’oscura organizzazione” o una “sorta di Rotary club per scienziati
militanti” è quanto meno ignoranza, se non una menzogna.
Fondato nel 1982 da
Irving Selikof e Cesare Maltoni, due grandi medici della sanità pubblica, il
Collegium Ramazzini è un’accademia di 180 scienziati specializzati nella sanità
ambientale e professionale.
Linda Birnbaum e
Christopher Portier ne fanno parte, così come il direttore del programma delle
monografie della IARC, Kurt Straif, e altri quattro esperti del gruppo di
lavoro della Monografia n. 112, ognuno nel suo settore di competenza.
Sono tutti scienziati di
alto livello.
Nel maggio del 2016 il
Ramazzini ha avviato uno studio di tossicologia a lungo termine sul glifosato.
Questo ha ovviamente
attirato molte critiche sull’istituto, noto per la sua competenza in materia di
tumori.
La responsabile delle
ricerche del Ramazzini, Fiorella Belpoggi, è una delle poche specialiste ad
aver accettato di parlare con Le Monde.
“Non siamo molti”, ha
detto. “Abbiamo pochi soldi, ma siamo bravi scienziati e non abbiamo paura”.
Molto probabilmente gli
attacchi al Ramazzini e alla IARC continueranno anche in futuro, perché altri prodotti
chimici figurano nella lista delle “priorità” della IARC, come alcuni
pesticidi, il bisfenolo A e l’aspartame.
Il Niehs è uno dei
principali finanziatori della ricerca sulla tossicità del bisfenolo A, mentre
lo studio che per primo ha parlato delle proprietà cancerogene dell’aspartame è
stato realizzato diversi anni fa proprio dal Ramazzini.
“Prima di queste
polemiche non me n’ero resa conto”, osserva Belpoggi, “ma se dovessimo
sbarazzarci della IARC, del Niehs e del Ramazzini, rinunceremmo a tre simboli
dell’indipendenza della scienza”.
Intanto, a cominciare dal
20 marzo 2015, la rabbia della Monsanto ha attraversato discretamente l’oceano
Atlantico.
Quel giorno una lettera,
una vera e propria dichiarazione di guerra, arriva a Ginevra, in Svizzera,
presso l’Organizzazione mondiale della Sanità, da cui dipende la IARC.
L’intestazione della
lettera mostra il celebre ramo verde all’interno di un rettangolo arancione, il
logo della Monsanto.
“Ci sembra di capire che
la IARC abbia deliberatamente scelto d’ignorare decine di studi e di
valutazioni regolamentari, disponibili pubblicamente, secondo cui il glifosato
non comporta rischi per la salute umana”, scrive Philip Miller, il
vicepresidente della Monsanto incaricato delle questioni legali.
Nella lettera il manager
chiede un “appuntamento urgente” per discutere delle “misure da prendere
immediatamente per rettificare questa ricerca e queste conclusioni molto
discutibili”.
Miller intende inoltre
chiarire i criteri di selezione degli esperti e analizzare i “documenti
contabili in cui figurano i finanziamenti destinati alla classificazione del
glifosato da parte della IARC e i donatori”.
A quanto pare i ruoli si
sono rovesciati: ormai è la IARC che deve giustificarsi di fronte alla
Monsanto. Nell’estate del 2015 la CropLife International prosegue questa
politica intimidatoria, in cui le ingerenze si mescolano alle minacce velate.
Per la IARC non è il
primo momento difficile.
Non è la prima volta che
deve affrontare critiche e attacchi. Anche se non hanno alcun effetto sulle
normative che regolano l’industria, le sue valutazioni minacciano interessi
commerciali a volte enormi.
Fino a quel momento il
precedente più importante riguardava i pericoli del fumo passivo, valutati
dalla IARC alla fine degli anni novanta.
Ma anche all’epoca dei
grandi scontri con i giganti del tabacco, gli scambi erano sempre rimasti
corretti. “Lavoro alla IARC da quindici anni e non ho mai visto niente di
simile a quello che è successo negli ultimi due”, dice Kurt Straif, il
responsabile delle monografie dell’agenzia.
(Continua)
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To:
Sent: Monday, October 23, 2017 12:43 PM
Subject: NEWSLETTER MEDICINA DEMOCRATICA
GRAVISSIME LE
DICHIARAZIONI DI GALLERA
Medicina Democratica e
“37e2”, la trasmissione di Radio Popolare sulla salute, reagiscono alle
dichiarazioni dell’assessore Gallera.
Gravissime le
dichiarazioni di Gallera: non dice la verità e cerca di intimidire i medici.
Abbiamo dato mandato ai
nostri avvocati di valutare gli estremi per una denuncia.
Quanto affermato
dall’assessore alla sanità, Giulio Gallera, è grave e non corrisponde alla
verità.
La vicenda, riportata oggi
da un quotidiano milanese, è questa: un medico affigge una nota nel suo studio
nel quale invita i suoi pazienti a rifiutare la proposta della Regione
Lombardia di affidare la cura delle loro patologie croniche ad un “gestore”
anziché al medico di famiglia. Tra qualche settimana infatti la Regione invierà
a tutti i malati cronici una lettera con tale proposta e i cittadini coinvolti
dovranno scegliere se restare in cura preso il loro medico anche per le
patologie croniche oppure no.
Il medico in questione ha
semplicemente anticipato i contenuti che noi stessi invieremo a tutti i medici
di famiglia lombardi suggerendo loro di informare i loro pazienti dei rischi
che correranno se scegliessero di affidarsi ad un gestore.
Leggi tutto al link:
* * * * *
VIDEO E DOCUMENTI DAL
FORUM INTERNAZIONALE PER IL DIRITTO ALLA SALUTE E L’ACCESSO ALLE CURE
Pubblichiamo il documento
finale del Forum internazionale per il diritto alla salute e l’accesso alle
cure tenutosi quest’oggi a Milano.
Nei prossimi giorni
saranno pubblicati tutti i video degli interventi.
Leggi tutto al link:
* * * * *
RIVISTA MEDICINA
DEMOCRATICA NUMERI 231-232
Medicina Democratica
Onlus mette a disposizione i numeri 231-232 della rivista.
Ricordiamo che la nostra
associazione, per le diverse azioni e iniziative che realizza, si basa sul solo
lavoro totalmente gratuito reso dai propri volontari e simpatizzanti.
La copertura dei costi
vivi delle iniziative (fra cui la produzione della rivista) sono possibili solo
attraverso le quote di iscrizione (adesione) alla associazione Medicina
Democratica Onlus, a contributi volontari e alla quota del 5 per mille.
Leggi tutto al link:
* * * * *
SICUREZZA SUL LAVORO:
KNOW YOUR RIGHTS! – NEWSLETTER N. 289 DEL 07/11/17
Le “Frequently Asked
Questions” di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights! – N.23
Mobbing: in arrivo fino a
3 anni di carcere e 20.000 euro di multa
Rischio elettrico: lavori
sotto tensione e lavori non elettrici
Metodologia per la valutazione
e gestione del rischio stress lavoro-correlato
Imparare dagli errori: i
parapetti e le cadute dall’alto
I controlli degli
impianti elettrici: l’articolo 86 del D.Lgs. 81/08
Alternanza scuola-lavoro:
sorveglianza, compiti e responsabilità
Leggi tutto al link:
* * * * *
Forum di discussione per
contattarci discutere e proporre argomenti:
Aiuta Medicina
Democratica Onlus devolvendo il tuo 5 per mille firmando nella tua
dichiarazione dei redditi nel settore volontariato e indicando il codice
fiscale 97349700159
Sito web:
Facebook:
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To:
Sent:
Wednesday, November 01, 2017 7:53 PM
Subject:
REPORT MORTI SUL LAVORO DAL 1 GENNAIO AL 31 OTTOBRE 2017
Dall’inizio dell’anno
sono morti 566 “Nessuno”. Sono i lavoratori morti per infortuni sul lavoro
dimenticati e che spariscono in parte da ogni statistica.
Domani, giorno dei nostri
morti, ricordiamoci di dire una preghiera per quelli dimenticati: dei tanti
“Nessuno”. Che Papa Francesco apra il cuore e il cervello dei nostri politici e
Amministratori che mai si occupano dei caduti sul lavoro sul lavoro: chi non è
credente si ricordi con un pensiero di queste vittime dell’indifferenza. In
questi dieci anni di monitoraggio dell’Osservatorio Indipendente di Bologna
morti sul lavoro i morti sul lavoro non sono calati, ma sono addirittura
aumentati.
Dall’inizio dell’anno
sono morti sui luoghi di lavoro 566 lavoratori: con i morti sulle strade e in
itinere con il mezzo di trasporto, si superano i 1.150 morti complessivi. Gli
agricoltori schiacciati dal trattore sono come tutti gli anni il 20% di tutti i
morti sui luoghi di lavoro. L’agricoltura, come tutti gli anni, supera
abbondantemente il 30% di tutti i morti sul lavoro. Oltre il 25% di tutti i
morti sui luoghi di lavoro hanno più di 60 anni. Gli edili superano il 20% di tutti
i morti sul lavoro. La maggioranza di queste vittime cadono dall’alto; dai
tetti e dalle impalcature. Nelle aziende dove è presente il sindacato le morti
sono quasi inesistenti: le poche vittime nelle fabbriche che superano i 15
dipendenti sono per la stragrande maggioranza lavoratori che lavorano in
aziende appaltatrici nell’azienda stessa: spesso manutentori degli impianti. La
Legge Fornero ha fatto aumentare le morti sul lavoro tra gli ultra sessantenni.
Gli stranieri morti per infortunio, sono oltre il 10% dall’inizio dell’anno, è
così tutti gli anni. Il 30% dei morti sul lavoro spariscono ogni anno dalle
statistiche. Tra l’altro e in ogni caso i morti sui luoghi di lavoro monitorati
dall’Osservatorio sono sempre molti di più di quelli monitorati dell’INAIL.
REPORT MORTI SUL LAVORO
DAL 1 GENNAIO AL 31 OTTOBRE 2017
Morti nelle Regioni e
Province italiane nel 2017 per ordine decrescente a oggi sono esclusi dalle
province i morti sulle autostrade e all’estero.
I morti segnalati nelle
Regioni sono solo quelli sui luoghi di lavoro. Con le morti sulle strade e in
itinere gli infortuni mortali In questo momento sono stati superati, con i
morti col mezzo di trasporto oltre 1.150 lavoratori complessivi.
LOMBARDIA 56: Milano 10,
Bergamo 8, Brescia 9, Como 1, Cremona 1, Lecco 5, Lodi 2, Mantova 3, Monza
Brianza 4, Pavia 6, Sondrio 5, Varese 2.
VENETO 52: Venezia 5,
Belluno 2, Padova 5, Rovigo 7, Treviso 11, Verona 12, Vicenza 10.
CAMPANIA 42: Napoli 15,
Avellino 6, Benevento 3, Caserta 8, Salerno 10.
EMILIA ROMAGNA 40:
Bologna 3, Ferrara 6, Forlì Cesena 4, Modena 5, Parma 6, Ravenna 8, Reggio
Emilia 5, Piacenza 3.
ABRUZZO 38: L’Aquila 9,
Chieti 9, Pescara 12, Teramo 8.
SICILIA 35: Palermo 5,
Agrigento 8, Caltanissetta 1, Catania 4, Enna 2, Messina 1, Ragusa 5, Siracusa
1, Trapani 8.
PIEMONTE 32: Torino 9,
Alessandria 2, Asti 3, Biella 2, Cuneo 11, Novara 1, Verbano Cusio Ossola 1,
Vercelli 4.
TOSCANA 29: Firenze 4,
Grosseto 6, Livorno 3, Lucca 2, Massa Carrara 1, Pisa 6, Pistoia 3, Siena 1,
Prato 3.
LAZIO 29: Roma 8, Viterbo
8, Frosinone 5, Latina 8.
PUGLIA 26: Bari 4,
Barletta Adria Terni 1, Brindisi 5, Foggia 6, Lecce 7, Taranto 1.
CALABRIA 23: Catanzaro 2,
Cosenza 9, Crotone 2, Reggio Calabria 5, Vibo Valentia 5.
MARCHE 13: Ancona 2,
Macerata 1, Fermo 1, Pesaro Urbino 6, Ascoli Piceno 3.
UMBRIA 14: Perugia 11,
Terni 3.
LIGURIA 13: Genova 4,
Imperia 2, La Spezia 2, Savona 5.
SARDEGNA 13: Cagliari 4,
Oristano 3, Sassari 6, Sulcis Inglesiente 1.
TRENTINO ALTO ADIGE 10:
Trento 3, Bolzano 7.
FRIULI VENEZIA GIULIA 9:
Trieste 2, Gorizia 1, Udine 6.
MOLISE 7: Campobasso 4,
Isernia 3.
BASILICATA 3: Potenza 1,
Matera 2.
VALLE D’AOSTA 1: Aosta 1.
I morti sulle autostrade
e all’estero non sono a carico delle province
REPORT MORTI SUL LAVORO
NELL’INTERO 2016
Nel 2016 sono morti 641
lavoratori sui luoghi di lavoro e oltre 1.400 se si considerano i morti sulle
strade e in itinere: stima minima per l’impossibilità di conteggiare i morti
sulle strade delle partite IVA individuali e dei morti in nero e di altre innumerevoli
posizioni lavorative, ricordando che solo una parte degli oltre 6 milioni di
partite IVA individuali sono assicurate all’INAIL. L’unico parametro valido per
confrontare i dati dell’INAIL e di chi li utilizza per fare analisi, e
dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro sono i morti per
infortuni INAIL senza mezzo di trasporto, e confrontare quanti ne registra in
più l’Osservatorio. Si ha così il numero reale delle morti per infortuni sui
luoghi di lavoro in Italia e non solo degli assicurati INAIL.
Se uno guarda
superficialmente i dati dei morti sul lavoro si entra in uno stato
confusionale. Sono reali quelli dell’Osservatorio o quelli dell’INAIL? A prima
vista sembrano di più quelli dell’INAIL, ma occorre ricordare che quelle diffuse
dall’INAIL sono denunce e non riconoscimento delle morti che questo istituto
dello Stato analizzerà in secondo. Dopo diversi mesi dell’anno successive
l’INAIL diffonde il numero di morti per infortuni riconosciuti come tali, sono
mediamente il 30% in meno ogni anno. Resuscitano? No, è che tante di queste
morti sono in itinere o di non assicurati all’INAIL, o in nero, oppure di non
loro pertinenza. Oppure di agricoltori schiacciati dal trattore che sono ben
128 dall’inizio dell’anno e 526 da quando abbiamo come Ministro delle Politiche
Agricole Martina. E questa la vera emergenza di cui nessuno si occupa. Un morto
su 5 sui LUOGHI DI LAVORO se si sommano tutte le categorie, è provocata dal
trattore. Comunque se si guardano i dati complessivi comparati, quelli diffusi
dall’INAIL, sono ovviamente molto meno delle morti di questo Osservatorio che
monitora tutti i morti sui luoghi di lavoro da ben dieci anni,
indipendentemente dal lavoro svolto o dall’assicurazione di riferimento. Se si
confrontano con quelli dell’INAIL occorre sempre ricordare che nelle denunce
pervenute all’INAIL ci sono anche i morti sulle strade e in itinere che sono
ogni anno dal 50 al 55% di tutte le morti sul lavoro.
Se si vuole fare una
comparazione vera occorre confrontare i morti senza mezzi di trasporto
dell’INAIL con quelli sui LUOGHI DI LAVORO dell’Osservatorio.
L’anno scorso in Europa
sono stati 10.000 i lavoratori morti mentre andavano o tornavano dal lavoro
(indagine europea). Tantissime le donne sovraccaricate sul posto di lavoro,
oltre che dal carico famigliare e dai lavori domestici. Quando in itinere sono
alla guida di un’automobile hanno spesso incidenti anche mortali. Molti
infortuni poi non vengono riconosciuti come tali a causa della normativa
specifica dell’itinere. E quando andate a vedere ogni anno le denunce per
infortuni pervenute all’INAIL vi accorgete che poi successivamente non vengono
riconosciute come morti sul lavoro mediamente il 30/40% delle denunce per
infortuni mortali. Occorre ricordare che anche quest’anno, come i precedenti,
che un lavoratore su cinque muore schiacciato dal trattore che guida. Ma con
questa casta parlamentare, nessuno escluso, parlare della vita di chi lavora e
come parlare di niente. Le percentuali delle morti nelle varie categorie sono sempre
quelle tutti gli anni. L’agricoltura ha sempre più del 30% delle morti sul
totale, segue l’edilizia che supera ogni anno il 20%. Poi l’industria e
l’autotrasporto che si contendono sempre il terzo e quarto posto in questa
triste classifica. Ma queste due categorie sono sempre sotto il 10%, nonostante
milioni di addetti e questo, per fortuna, abbiamo ancora sindacati che
esercitano controlli sulla Sicurezza. Gli stranieri morti per infortuni sui
luoghi di lavoro sono in questo momento il 10% sul totale. E’ spaventoso
pensare che i nostri giovani non trovano lavoro e si è innalzata l’età per
andare in pensione di molti anni anche a chi svolge lavori pericolosi. Anche
quest’anno il 31% dei morti sui luoghi di lavoro ha dai 61 anni in su.
LE MORTI VERDI PROVOCATE
DAL TRATTORE
Strage continua, sono già
128 dall’inizio dell’anno gli agricoltori morti schiacciati dal trattore. A
questi occorre aggiungere tanti altri che sono morti perché trasportati a bordo
(anche bambini) o per le strade a causa di incidenti provocati da questo mezzo.
Da quando nel 2014 si insediò il Governo Renzi, poi Gentiloni abbiamo come
ministro delle Politiche Agricole Martina, sono morti in modo così atroce ben
526 guidatori di questo mezzo mortale. Anche quest’anno oltre il 20% dei morti
per infortuni su di tutte le categorie sono provocate da questo mezzo. ASSURDO
che la politica non se ne occupi. ASSURDO tra l’altro che il Parlamento pochi
mesi fa ha rinviata per l’ennesima volta la legge europea che obbliga chi giuda
questo sterminatore di agricoltori a sottoporsi a un esame che ne verifichi
l’idoneità alla guida. Una legge del 2002. Occorrerebbe (ma lo scriviamo da
tanti anni senza nessun risultato) che chi ci governa faccia una campagna
informativa sulla pericolosità del mezzo. E chi di dovere metta a disposizione
forti incentivi per mettere in sicurezza i vecchi trattori.
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Osservatorio Indipendente
di Bologna morti sul lavoro
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To:
Sent: Saturday, November 04, 2017 4:35 PM
Subject: COMUNICATO STAMPA ANNIVERSARIO TRAGEDIA
EURECO
Buongiorno.
A seguire comunicato
stampa del Comitato in ricordo delle Vittime del terribile incendio dell’Eureco
di Paderno Dugnano nel settimo Anniversario della Tragedia.
4 novembre 2010 ore 15,30
in una fabbrica di stoccaggio rifiuti pericolosi, l’Eureco di Paderno Dugnano,
scoppia un terribile incendio, 4 lavoratori perdono la vita e altri 4 rimangono
feriti. Incendio causato dalla totale inosservanza di misure di sicurezza
inoltre l’azienda miscelava in modo fraudolento rifiuti pericolosi.
Il titolare, Giovanni
Merlino, è stato condannato a 5 anni di reclusione, una pena davvero irrisoria
mentre le famiglie delle vittime e i lavoratori superstiti versano a tutt’oggi
in condizioni disagevoli, infatti solo due lavoratori (che erano assunti
direttamente dall’azienda) sono stati risarciti, mentre gli altri lavoratori
che erano in forza a una cooperativa, sono ancora in attesa di una sentenza del
Giudice in una controversa diatriba legale che coinvolge l’Eureco e
l’assicurazione Carige, la quale non vuole risarcire i dipendenti indiretti
dell’azienda che sono a tutt’oggi senza lavoro e quindi senza reddito.
Nel frattempo Merlino vende
la fabbrica e l’Eureco diventa “Nuova Tecnologia e Ambiente” la quale ottiene
da parte della città Metropolitana milanese, tutte le autorizzazioni per le
stesse attività di smaltimento di rifiuti pericolosi.
Il nostro Comitato
insieme ad associazioni, cittadini e alcune forze politiche, ha messo in campo
svariate iniziative contro l’apertura di un nuovo sito con la medesima attività
nell’area ex Eureco, una scelta che oltre a essere irrispettosa nei confronti delle
vittime è irresponsabile, vista l’ubicazione dell’area prospiciente al canale
Villoresi e alla superstrada Milano Meda.
Proprio un anno fa
l’Amministrazione Comunale Padernese con l’apporto prezioso dell’Associazione
Medicina Democratica che ha fornito un aiuto tecnico importante, ha fatto
ricorso al TAR contro le autorizzazioni di Città Metropolitana.
Nel mese di agosto la
sentenza del TAR dichiara la sospensione delle autorizzazioni, di conseguenza
il nuovo impianto di fatto, non potrà iniziare l’attività di smaltimento
rifiuti.
Sono trascorsi 7 anni da
quel tragico giorno, e noi non dimentichiamo Harun Zeqiri, Leonard Shehu,
Salvatore Catalano, e Sergio Scapolan, sono vittime di un processo produttivo
malato, ignorante e centrato esclusivamente sul massimo profitto.
Il nostro impegno
continua in difesa del diritto alla sicurezza nei luoghi di lavoro, un diritto
sempre più messo in pericolo da politiche scellerate liberiste, che tolgono
diritti ai lavoratori e che poi nei tribunali assolvono dirigenti e
imprenditori responsabili delle morti sul lavoro, e di lavoro, di migliaia di
lavoratori nonostante le prove schiaccianti.
Il nostro impegno
continuerà anche nel seguire la vicenda della nuova società di smaltimento
rifiuti e per quanto possibile continueremo a seguite la situazione degli ex
lavoratori.
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To:
Sent:
Monday, November 06, 2017 9:41 PM
Subject:
SOLIDARIETA’ CON GLI OPERAI ILVA DI CORNIGLIANO: NO AI LICENZIAMENTI PER I
PROFITTI!
L’assemblea degli operai
dell’ILVA di Cornigliano ha deciso nella mattina di oggi 6 novembre lo sciopero
a oltranza e l’occupazione della fabbrica, giudicando insufficienti le garanzie
del governo Gentiloni-Renzi rispetto al piano di 4.000 tagli, di cui 600 a
Genova, presentato dal monopolio dell’acciaio AmInvestCo.
Un piano che cancella
l’accordo di programma e prevede che tutti gli operai devono passare dal
licenziamento per una riassunzione con salari più bassi e senza le tutele degli
accordi precedenti, grazie all’applicazione del Jobs Act antioperaio.
Questo piano è un aspetto
della guerra globale che il capitale muove contro il lavoro per aumentare lo
sfruttamento e la precarietà.
Ci vogliono rovinare,
portare alla fame e alla disperazione. Bene hanno fatto gli operai ILVA di
Cornigliano a dare una risposta di lotta dura per dimostrare che non si deve
accettare il moderno schiavismo.
Dopo una giornata di
forte mobilitazione, che ha visto prima un corteo interno alla fabbrica, poi un
blocco stradale, i lavoratori hanno allestito una tenda davanti all’ingresso
della portineria, che resterà per tutta la durata dell’occupazione della
fabbrica. Si prevedono altre manifestazioni.
Gli operai ILVA con la
loro lotta rappresentano gli interessi di tutti i lavoratori per l’occupazione,
il blocco dei licenziamenti, migliori condizioni di vita e di lavoro. Perciò
meritano il sostegno attivo di tutti i lavoratori e delle organizzazioni della
classe operaia.
La decisione presa dagli
operai di Cornigliano è un esempio da seguire in tutte le fabbriche ILVA e in
tutte le altre vertenze contro i licenziamenti di massa. Altro che la
smobilitazione della lotta chiesta dal ministro confindustriale Calenda e dai
suoi tirapiedi sindacali!
Rivendichiamo lo sciopero
generale per dire NO ai licenziamenti per i profitti! Nessun posto di lavoro
deve essere perso, nessuna fabbrica deve essere chiusa! Lavoro regolare e
stabile per tutti, no al Jobs Act e al precariato, riduzione generalizzata
dell’orario di lavoro!
Basta sacrifici per
salvare i profitti dei capitalisti! Abbiamo la forza per imporre i nostri
interessi: usiamola! Avanti con il fronte unico di lotta del proletariato!
Con gli scioperi, le
occupazioni e tutti i mezzi disponibili i lavoratori esprimeranno la loro
volontà di non cedere ai ricatti e ai soprusi dei padroni; queste esperienze
faranno maturare nella classe operaia la consapevolezza che essa deve
recuperare interamente la propria autonomia politica ricostruendo il proprio
partito di classe, il Partito comunista che la guidi alla vittoria contro il
capitalismo, per il socialismo.
6 novembre 2017
Piattaforma Comunista per
il Partito Comunista del Proletariato d’Italia
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To:
Sent:
Tuesday, November 07, 2017 6:01 PM
Subject:
LO STATO COME DATORE DI LAVORO
Di fronte al fallimento
conclamato delle misure di austerità e precarizzazione del lavoro nel
fronteggiare la crisi economica, occorre una decisiva inversione di rotta. A
partire da un radicale ripensamento del ruolo che lo Stato può esercitare nella
creazione di posti di lavoro.
Il combinato di misure di
consolidamento fiscale e precarizzazione del lavoro, secondo la Commissione
europea e i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni, dovrebbe
garantire la ripresa della crescita economica attraverso l’aumento delle
esportazioni. Il consolidamento fiscale viene perseguito con l’obiettivo
dichiarato di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, mentre la
precarizzazione del lavoro viene attuata con l’obiettivo dichiarato di
accrescere l’occupazione. Le due misure – ci si aspetta – dovrebbero inoltre
migliorare il saldo delle partite correnti, mediante maggiore competitività
delle esportazioni italiane.
Si ipotizza, cioè, che la
moderazione salariale, derivante da minore spesa pubblica e maggiore precarietà
del lavoro, riducendo i costi di produzione, ponga le imprese italiane nella
condizione di essere più competitive (ovvero di poter vendere a prezzi più
bassi) nei mercati internazionali. Anche le misure di defiscalizzazione
rientrano in questa logica, dal momento che ci si attende che minori tasse sui
profitti implichino minori costi per le imprese e, dunque, maggiore
competitività nei mercati internazionali.
Si tratta di
un’impostazione che si è rivelata del tutto fallimentare e che, a meno di non
pensare che dia i suoi risultati nel lunghissimo periodo, andrebbe
completamente ribaltata. Le basi teoriche sulle quali poggiano queste politiche
sono estremamente fragili, per i seguenti motivi.
1) Le politiche di
austerità, soprattutto se attuate in fasi recessive, determinano un aumento,
non una riduzione, del rapporto debito pubblico/PIL, che è infatti
costantemente aumentato (dal 120% del 2010 al 133% del 2016). Ciò a ragione del
fatto che la riduzione della spesa pubblica riduce il tasso di crescita,
riducendo il denominatore di quel rapporto più di quanto ne riduca il
numeratore. Questo effetto è tanto maggiore quanto maggiore è il valore del
moltiplicatore fiscale. Stando alla quantificazione degli effetti moltiplicativi
del Fondo Monetario Internazionale, il consolidamento fiscale è prima ancora
che un errore di politica economica un errore propriamente un errore tecnico,
basato su una stima sbagliata degli effetti moltiplicativi di variazioni della
spesa pubblica.
2) Le politiche di
precarizzazione del lavoro non accrescono l’occupazione, anzi tendono a
generare aumenti del tasso di disoccupazione. Ciò fondamentalmente per due
ragioni. In primo luogo, la precarizzazione del lavoro accrescere l’incertezza
dei lavoratori in ordine al rinnovo del contratto e, dunque, incentiva risparmi
precauzionali deprimendo consumi e domanda interna. In secondo luogo, la
precarizzazione del lavoro, in quanto consente alle imprese di recuperare
competitività attraverso misure di moderazione salariale, disincentiva le
innovazioni, dunque il tasso di crescita della produttività del lavoro e, per
conseguenza, dell’occupazione.
3) La detassazione degli
utili d’impresa non ha effetti significativi sugli investimenti, dal momento
che questi dipendono fondamentalmente dalle aspettative imprenditoriali, le
quali, a loro volta, sono fortemente condizionate dalle aspettative di crescita
(e dunque, da ciò che ci si attende di poter vendere). Manovre fiscali
restrittive, comprimendo i mercati di sbocco interni (quelli rilevanti per la
gran parte delle imprese italiane), possono semmai peggiorare le aspettative e,
dunque, generare riduzione degli investimenti. Peraltro, la detassazione degli
utili d’impresa – in una condizione nella quale occorre generare avanzi primari
– implica aumenti di tassazione sui redditi dei lavoratori, ovvero sui redditi
di quei soggetti che esprimono la più alta propensione al consumo. Anche per
questa ragione, detassare le imprese significa ridurne i mercati di sbocco,
almeno quelli interni, con conseguente riduzione dei profitti e aumento delle
insolvenze.
4) La moderazione
salariale non accresce le esportazioni. L’ultimo Rapporto ISTAT certifica che
il saldo delle partite correnti italiano è migliorato solo perché si sono ridotte
le importazioni, a seguito della caduta della domanda interna, e che l’economia
italiana è, ad oggi, una delle meno internazionalizzate fra le economie
europee. Si registra anche che nonostante un seppur leggero aumento dei margini
di profitto delle nostre imprese a partire dal 2015, verosimilmente imputabile
alle misure di detassazione degli utili, gli investimenti privati continuano a
essere in costante riduzione.
Si tratta, peraltro, di
politiche attuate ormai da quasi un decennio, sempre con risultati
fallimentari. Il fondamentale errore degli ultimi Governi sta appunto nell’aver
usato le (poche) risorse disponibili nel peggiore dei modi possibili:
decontribuzioni alle imprese e trasferimenti monetari alle famiglie. Misure che
non impattano né sugli investimenti privati né sui consumi. Ma che,
verosimilmente, e in una logica di brevissimo periodo, accrescono il consenso,
salvo poi tornare al punto di partenza ma con meno risorse.
Occorrerebbe, per contro,
una radicale correzione di rotta, a partire da un radicale ripensamento del
ruolo che lo Stato può esercitare nella creazione di posti di lavoro. Un numero
rilevante e crescente di studi mostra come lo Stato possa svolgere la funzione
di datore di lavoro di ultima istanza (Employer of Last Resort: ELR) senza
generare significativi effetti collaterali, in particolare senza attivare
pressioni inflazionistiche – peraltro, in una fase di deflazione, semmai
desiderabili.
Ovviamente, affinché
questa proposta possa avere senso occorre che, sul piano politico, i lavoratori
acquisiscano un potere contrattuale sufficiente da spingere il Governo
all’attuazione di una politica per il pieno impiego, e il suo mantenimento,
finanziata attraverso un consistente aumento dell’imposizione fiscale sui
redditi più alti. In altri termini, la proposta è realizzabile a condizione di
non assumere la congettura di Kalecki, ovvero che:
“Il mantenimento del
pieno impiego causerebbe cambiamenti sociali e politici che darebbero un nuovo
impulso all’opposizione degli uomini d’affari. Certamente, in un regime di
permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo
come strumento di disciplina [disciplinary measure]. La posizione sociale del
capo sarebbe minata e la fiducia in sé stessa e la coscienza di classe della
classe operaia aumenterebbero. Scioperi per ottenere incrementi salariali e
miglioramenti delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche. E’
vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di
quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche l’incremento
dei salari risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori è più
probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggi così
solo gli interessi dei rentier. Ma la disciplina nelle fabbriche e la stabilità
politica sono più apprezzate dagli uomini d’affari dei profitti. Il loro
istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è sano dal loro
punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale
sistema capitalista”.
Giacché, se la questione
del pieno impiego si pone in questi termini, non vi è spazio (in un’economia
capitalistica) per misure che vadano in quella direzione.
Va innanzitutto ricordato
che, contrariamente alla vulgata mediatica, l’intero settore pubblico italiano
nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.
L’ultima rilevazione OCSE ci informa che, mentre nel nostro Paese la pubblica
amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito,
Paesi con una popolazione e un PIL pro-capite di entità simile alla nostra, se
ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti (Paese
tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato) il numero di
dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere
che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente
individui con elevata scolarizzazione.
Si può anche rilevare che
una condizione di piena occupazione favorisce la crescita della produttività
del lavoro. Ciò a ragione del fatto che le imprese non sono messe nella
condizione di competere comprimendo i salari e sono, per contro, “forzate” a
competere innovando. In tal senso, lo schema ELR potrebbe essere anche (e forse
più utilmente) pensato per generare crescita economica anche dal lato
dell’offerta, non solo quindi come programma finalizzato al pieno impiego. A
ciò si può aggiungere che, seguendo la linea teorica dei proponenti lo schema
ELR, la spesa pubblica è complementare alla spesa privata per investimenti, dal
momento che l’aumento della spesa pubblica accresce i mercati di sbocco e rende
conveniente l’attuazione di nuovi flussi di investimenti privati.
Conseguentemente, uno
schema ELR potrebbe agire positivamente sul tasso di crescita della
produttività del lavoro, sia per l’aumento degli investimenti pubblici che
farebbe seguito a un aumento della spesa pubblica, sia a seguito del
contenimento di fenomeni di obsolescenza intellettuale che si determinerebbero
nel caso alternativo di disoccupazione, a maggior ragione se di lungo periodo.
Un ulteriore vantaggio derivante dall’attuazione di uno schema ELR
conseguirebbe dal fatto che, in condizioni di piena occupazione, sarebbe
estremamente difficile reclutare lavoratori nell’economia sommersa o, ancor
più, nell’economia criminale. Questo argomento è particolarmente rilevante nel
caso italiano, e ancor più meridionale, dal momento che la presenza del lavoro
nero e dell’attività criminale è molto più diffusa rispetto agli altri Paesi
dell’eurozona.
In più, come mostrato in
particolare da Massimo Florio, lo schema ELR potrebbe utilmente ribaltare la
linea di policy seguita in Italia (con la massima intensità fra i Paesi
dell’Eurozona) finalizzata ad accentuare le privatizzazioni. Le
privatizzazioni, come mostra un’inequivocabile evidenza empirica, generano
effetti redistributivi soprattutto a ragione dell’aumento delle tariffe (e
della conseguente caduta dei salari reali) e dell’eccezionale aumento degli
stipendi dei manager nel passaggio dalla proprietà pubblica alla proprietà
privata. Generano anche minore crescita dal momento che, in moltissimi casi,
Italia non esclusa, le imprese privatizzate sono imprese orientate alla
speculazione finanziaria che, come da più parti documentato, è un rilevante
freno agli investimenti reali.
Le inefficienze del
settore pubblico, come gli sprechi nel settore privato, sono ovunque. La
retorica del dipendente pubblico fannullone resta tale, fa danni al Paese,
impedisce un dibattito aperto su come l’intervento pubblico in economia può
contribuire alla crescita economica e all’aumento dell’occupazione, soprattutto
giovanile e soprattutto di alta qualità. Nel confronto internazionale, l’Italia
è uno dei paesi caratterizzati dai più bassi livelli di assenza per malattia,
ma con minore incidenza nel settore pubblico. La bassa efficienza del settore
pubblico italiano non sembra essere quindi dovuta alla scarsa motivazione al
lavoro dei suoi dipendenti, ma piuttosto alla bassissima dotazione di capitale
che ne caratterizza i processi di produzione di beni e servizi.
di Guglielmo Forges
Davanzati
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