sabato 14 novembre 2020

14 novembre - riceviamo e pubblichiamo dal Si Cobas Poste MI: Tamponi periodici per tutti i postali.

 

 Visite mediche preventive e di tutela. Sanificazioni e riorganizzazione del lavoro. Chiusura dei centri non essenziali. Informazioni complete sulla pandemia e, se vogliamo, sciopero.

Il covid sta dilagando, da nord a sud, molto più che a primavera.

Gli ospedali sono già al collasso; accedere ai pronto soccorso sta diventando in molti casi impossibile; reparti di terapia intensiva e non sono colmi, vengono annullati interventi e terapie per i tumori, l’ictus e relegato al ruolo di piccola affezione, i contagi crescono in numero di 30/40000 al giorno, i morti seguono in modo proporzionale. Sono passati sei mesi dalla prima ondata e il paese si ritrova punto e a capo, anzi, in condizioni peggiori di prima. Come prima, perché il lockdown fu finto per questo aspetto, si continua a lavorare in gran parte dei settori produttivi. Confindustria lo vuole e così si fa.

Anche in poste si lavora, nelle stesse condizioni dei tempi normali, neppure senza le chiusure e le poche tutele primaverili. Perbacco siamo o non siamo un servizio essenziale? A volte sì e a volte no, verrebbe da dire, a seconda degli interessi del momento. Quando si tratta di garantire il profitto della SpA sì, siamo un servizio essenziale, e quindi tutti a lavorare. Tanto alle poste il rischio è minimo, l’attività è a basso rischio, quindi non c’è problema. Ma allora, come si spiegano i molteplici casi di contagio di cui si sente parlare in categoria?

Probabilmente sono balle diffuse ad arte da sobillatori di mestiere (gli antagonisti, professionisti del disordine) perché l’azienda non dichiara niente ufficialmente; anzi qualcosa rese noto nelle scorse settimane, una manciata di casi positivi ma niente di cui preoccuparsi, perché loro, e i loro sindacati, se ne stavano occupando. Gli organismi aziendali sfornano verbali che definiscono la strategia; le
disposizioni operative sono invece riservate, da non far conoscere ai lavoratori né, inutile dirlo, agli antagonisti, che li userebbero per mestare nel torbido. Ma prima o poi questi documenti compaiono e allora alcune cose cominciano a farsi chiare.

Quattro paginette che si riducono a due punti essenziali: la gestione dei sintomatici in azienda e il controllo della temperatura all’accesso. In sostanza, per entrambe le ipotesi, Poste si è assegnata il compito di confinare in un angolino del centro di lavoro il povero sintomatico, gli fa indossare la mascherina e gli dice di mantenersi a distanza di un metro. Gli dice anche di avvisare il suo medico, mentre loro avviseranno l’autorità sanitaria per farsi pdire cosa devono fare anche per gli altri presenti al lavoro. Fine. Questo è tutto l’impegno di poste. Dimenticavamo che questa volta parlano di termo scanner, ma sapiamo bene come stanno le cose con i termometri fai da te, o fai anche senza, per cui lasciamo perdere.

La palla quindi è nelle mani delle ATS/ASL?! Accidenti questo non ci voleva, perché, come dicevamo sopra, il collasso sta investendo tutte le strutture sanitarie per cui cosa potranno, o vorranno fare ATS e ASL per i presunti contagiati di Poste? Probabilmente poco o nulla se non rinviando Poste alle sue competenze. Di tracciamenti, ricerca di contatti, stretti o larghi fa lo stesso, nessuna traccia, appunto, il postale stia a casa e aspetti di guarire, se è ammalato; quanto ai colleghi presenti non si preoccupino, possono tranquillamente continuare a lavorare e, nel malaugurato caso che in seguito si sentissero male, potranno contattare il loro medico di base, l’importante è che non si azzardino ad andare al pronto
soccorso, poi si vedrà. Questa è la tragicomica realtà della gestione del rischio covid in Poste Italiane SpA, non diversa peraltro da quella di molti altri ambiti. Questa anche la situazione delle AST/ASL.

Stiamo esagerando? Non proprio, è di questi giorni una direttiva del Direttore Generale Welfare della regione Lombardia nella quale dispone per i dipendenti delle strutture sanitarie (medici e infermieri in attività) individuati come contatti di soggetto covid di continuare a lavorare durante il loro turno, salvo poi mettersi in quarantena quando tornano a casa (per tornare al lavoro il giorno dopo?!). Non c’è che dire, un ottimale utilizzo delle risorse in una perfetta gestione aziendale; accidenti, mica si può interrompere l’assistenza ai poveri malati, e poi, che figura ci farebbe l’eccellente sistema sanitario regionale lombardo, se crescesse, come in primavera, il numero dei contagiati, e/o morti? A questo punto potremmo dire che fino a qui abbiamo scherzato ed ora invece parliamo seriamente, ma non sarebbe vero, nonostante le apparenze, non abbiamo scherzato, è tutto vero. Altrettanto serie, forse anche di più, sono le scelte che i postali si trovano di fronte; non sono molte in effetti, sono le solite che ripetiamo da anni, diverse a seconda dei temi specifici, ma fondamentalmente le stesse: accettare lo stato delle cose, magari mugugnando, ma affidandosi alle mani di poste e sindacati, con la possibilità, certo, di sfangarla con i soliti mezzucci (assenze tattiche per esempio); oppure discutere, confrontarsi coi propri compagni di lavoro, valutare la situazione, individuare i propri interessi, quelli di Poste e soci, pensare al che fare, nel concreto, tutti i giorni, per ottenere ciò che si vuole.

Appunto, cosa vogliono i postali in questo momento di covid?

Non possiamo rispondere per tutti, rispondiamo per noi stessi e per i lavoratori a noi vicini. Vogliamo evitare di ammalarci di covid, rischiare la terapia intensiva, e magari di essere cremati. Lo vogliamo per noi stessi, per i nostri famigliari ed amici, anche per i nostri colleghi e tutte le persone che conosciamo, anche per i clienti di poste, per cui lavoriamo. Vogliamo lavorare serenamente – perché dal lavoro dipende, purtroppo, la nostra esistenza -, senza angoscia, senza timori per come finirà la giornata. Vogliamo garanzie da chi è tenuto a fornircele in quanto diretto responsabile: Poste Italiane SpA; dai sindacati ufficiali non vogliamo assolutamente niente, non ci interessano i loro traffici. Vogliamo dispositivi, sanificazioni reali, organizzazione del lavoro con misure efficaci di prevenzione. Vogliamo avere informazioni certe e vere sullo stato delle cose dentro l’azienda, quanti sono i contagi, quelli in quarantena, i decessi! Vogliamo un sistema sanitario in grado di far fronte ai problemi attuali e di lunga data; vogliamo una reale e credibile sanità pubblica, efficiente, estesa a tutti quelli che ne hanno bisogno, lasciando alla sanità privata i ricchi e facoltosi.

Cosa invece non vogliamo.

Non vogliamo un’azienda, che assolve ad un servizio pubblico essenziale, nelle mani di investitori privati. Non vogliamo il welfare aziendale – surrogato illusorio di un welfare state smantellato – mirante a generare profitti. Non vogliamo un sistema sanitario che ragioni in termini di azienda, di profitto, quindi riduca drasticamente il personale medico attivo, le strutture, la qualità delle prestazioni, che annulli nella sostanza, al di là delle parole, la prevenzione a tutti i livelli. Ci fermiamo qui, non accennando neppure a questioni contrattuali e simili, ci sarà tempo, speriamo nel breve futuro. Ora però bisogna affrontare il punto principale della questione: cosa fare, come, con chi per ottenere quello che abbiamo detto.

Cosa fare: pensare con la propria testa, andando oltre il proprio orticello per capire le reali dinamiche in corso; quindi, almeno, da dove viene la pandemia, perché, come si combatte o previene. Individuare chi sono i nostri alleati, consapevoli o meno, noi come loro, coinvolti nella stessa comunità di destino. Capire chi sono i nostri nemici, quelli veri, non quelli che qualche fratello italiano, o qualcuno che ce l’aveva duro, vogliono farci credere. Come e con chi: organizzandoci con i nostri uguali/alleati, attraverso le organizzazioni sindacali e politiche che già ci sono o formandone altre. Dandoci obiettivi da praticare o difendere, come salute, salario, istruzione, dignità, con la lotta. Come tradurre tutto ciò nel quotidiano lavorativo postale è la vera scommessa, ma neppure troppo difficile. Imporre a Poste di garantire la nostra salute e sicurezza sul lavoro, pretendendo l’applicazione delle normative certo, ma andando anche oltre quando queste fossero insufficienti. Puntare alla prevenzione dai contagi invece che sulla cura o, meglio, prima della cura, quindi su una organizzazione del lavoro adeguata alla situazione eccezionale; DPI efficienti; tracciamenti dei contatti con la premessa della ridefinizione della categoria contatti, stretti o meno, perché chi sono questi contatti in un centro di recapito o agli sportelli?

C’è qualcuno che vi lavori che non possa essere indicato come contatto di chiunque altro?

Tamponi, o altro dispositivo analogo, periodico per tutti i centri di lavoro con quarantene effettive e retribuite nella loro interezza, controlli medici reali al rientro, non per penalizzare ma per tutelare.

Come imporre tutto questo? Una sola risposta: con la lotta.

Che significa?

Molte cose, dagli esposti alle ATS, istituzioni, pubbliche autorità, alla diffusione di materiale informativo, alla disobbedienza organizzata e intelligente… agli scioperi.

Un’ampia gamma di strumenti da sempre patrimonio collettivo della classe lavoratrice; quando i postali capiranno che anche loro, tutti, fanno parte di questa entità sociale, si aprirà un mondo di possibilità che ora sembrano fantascientifiche o illusorie.

S.I. Cobas Poste


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