INDICE
Rete Nazionale Sicurezza luoghi di lavoro e territori bastamortesullavoro@gmail.com
STRAGE FERROVIARIA: STATO, GOVERNI, AZIENDE SONO I
RESPONSABILI!
Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
IN
BANGLADESH CI SONO MOLTI MODI PER MORIRE
Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
DISASTRO FERROVIARIO IN PUGLIA
Proletari Comunisti pcro.red@gmail.com
SULLA
STRAGE FERROVIARIA DI CORATO: COMUNICATO DEI LAVORATORI DELLA CUB TRASPORTI
Comitato Eureco comitatosostegnovittime.eureco@gmail.com
CITTA’ METROPOLITANA AUTORIZZA LA NUOVA EURECO
Resistenza resistenza@lists.riseup.net
LA STRAGE FERROVIARIA DI RUVO DI PUGLIA E’ GUERRA DI STERMINIO NON DICHIARATA
---------------------
From: Rete
Nazionale Sicurezza luoghi di lavoro e territori bastamortesullavoro@gmail.com
To:
Sent:
Wednesday, July 13, 2016 7:11 PM
Subject: STRAGE
FERROVIARIA: STATO, GOVERNI, AZIENDE SONO I RESPONSABILI!
Esprimiamo il nostro profondo dolore per
la morte di 27 vite di giovani, lavoratori nella strage avvenuta ieri tra
Andria e Corato; ci stringiamo ai loro familiari. Speriamo fortemente che ai 27
non si aggiungano altri morti e che i feriti tutti possano guarire al più presto.
Queste morti
pesano come macigni, perchè queste vite non dovevano essere stroncate!
Questi 27 giovani, lavoratori sono stati
UCCISI!
Respingiamo con rabbia e con sdegno gli “arrivi
lampo” ipocriti di Del Rio, di Renzi, delle varie autorità.
I RESPONSABILI DI QUESTA STRAGE, L’ENNESIMA,
HANNO PRECISI NOMI E COGNOMI ANCHE QUESTA VOLTA, SONO GLI STESSI E PER LE
STESSE RAGIONI.
Ci sono le Ferrovie, i treni di serie A,
in cui vi sono sistemi tecnici avanzati di controllo, e ci sono le ferrovie, le
tratte, i treni di serie B in cui vi sono i tagli sulla manutenzione, sui
controlli, sul personale ferroviario, in cui vengono tagliati fondi o non
vengono messi proprio per ammodernare i sistemi di controllo e sicurezza, per
raddoppiare i binari; la serie B che viene lasciata ai famelici profitti delle
aziende private, che chiaramente non hanno alcun interesse a spendere soldi per
la sicurezza.
Nella serie B ci viaggiano soprattutto
pendolari, studenti, famiglie di lavoratori. Come non chiamarla quindi questa
strage, anche “strage di classe”?!
Quel tratto di ferrovia non è nemmeno
automatizzato, siamo alle comunicazioni telefoniche, il cosiddetto “blocco
telefonico” in cui una stazione avverte l’altra del convoglio in movimento.
Ma sono decine e decine di stazioni al sud,
ma anche al nord, che sono in queste condizioni, è su migliaia di kilometri (3.700)
che si viaggia a binario unico!
Che viene a dire il maledetto Renzi: “Bisogna
fare chiarezza al più presto”... E’ da anni che purtroppo è chiarissima questa
situazione, la cui soluzione come non era in testa dei programmi dei ministri e
governi precedenti non lo è neanche in questo.
Mattarella dice: “Occorre accertare
subito e con precisione responsabilità ed eventuali carenze”. Eventuali
carenze?! Ma questi morti sono il risultato di un barbaro calcolo
politico-economico: miliardi vengono messi per la maledetta TAV che distrugge
territori, che passa appunto come un “treno” sui diritti e le volontà delle
popolazioni; mentre non vengono messi neanche poche decine di milioni per
ammodernare, rendere sicuri i treni pendolari, rinviando pure di anni in anni
il potenziamento delle tratte di questi treni (per la tratta Andria-Corato il
potenziamento era stato inserito nella programmazione dei Fondo
Europeo di Sviluppo Regionale nel 2007 per
un importo di poco più di 31 milioni, ma solo ad aprile 2016, dopo ben 8 anni,
era stato messo a gara).
E’ indecente dover sentire, in questo
grande dolore, scempio di corpi, una Boschi dire: “Il governo non farà sconti a
nessuno”. Come se le responsabilità fossero sempre degli altri (sicuramente,
alla fine, saranno del macchinista che si è per fortuna salvato, o di qualche
povero suo collega che non ha avvisato...). Sono loro, i governanti, i
ministri, che non dovrebbero avere sconti!
Ma non poteva mancare “la voce del
padrone”. Il presidente della Confindustria, Boccia ha parlato come se la colpa
fosse astrattamente del ritardo del “Mezzogiorno che deve collegarsi al mondo”;
facendo finta di non sapere che dietro questa situazione delle Ferrovie al sud
ci sono sporchi profitti di di padroni, di aziende private, che hanno, dallo
stesso Stato che fa i treni superlusso, in concessione delle tratte e che non
spendono certo i soldi per ammodernare i sistemi di controllo e di sicurezza.
Il Sole 24 Ore riporta che “...sono ben 34 le aziende
ferroviarie, a partecipazione sia pubblica che privata, sparse in tutto il
paese. Questi soggetti scontano, in qualche caso, un deficit di investimenti...
Insomma, esiste un universo intero che si colloca fuori dai circa 16.700 kilometri
della rete di RFI. Si tratta delle cosiddette ferrovie ex concesse, la cui
costruzione ed esercizio è stata affidata nel tempo dallo Stato a operatori
privati. Negli anni, questi soggetti sono transitati nella sfera di competenza
di Regioni e Province autonome, che stipulano con loro contratti di servizio...
In totale, sono circa 3.700 kilometri, spalmati da Nord a Sud, in cui si
incontrano 2.736 passaggi a livello (metà della rete nazionale) e c’è un
traffico di circa 34 milioni di treni-chilometri all’anno (un decimo di tutta
la rete nazionale). Complessivamente, stiamo parlando di una ventina di gruppi
che controllano 34 società a livello locale. Si va da Ferrovie Nord in
Lombardia fino a una pluralità di soggetti presenti proprio in Puglia, nello
specifico Ferrovie del Gargano, Ferrotramviaria, Ferrovie del Sud Est e
Ferrovie Appulo Lucane”.
La Ferrotramviaria che gestiva la tratta in cui vi è stata
la strage è emblematica. Veniamo a sapere (sempre dal Sole 24 Ore) che è gestita da una famiglia, Pasquini, con
personaggi con problemi giudiziari, con un “vasto giro di trasferimenti di
capitali in nero tra l’Italia e vari paradisi fiscali”, e che nel 2015 ha raccolto utili per
4,7 milioni, con un margine operativo lordo del 15% sui ricavi.
E OCCORRE ANCORA “FARE CHIAREZZA”?
MALEDETTI!
13 luglio 2016
Coordinamento nazionale Slai Cobas per il sindacato di classe
mail:
slaicobasta@gmail.com
cellulare: 347 53 01 704
---------------------
From: Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
To:
Sent: Wednesday, July 13, 2016 11:27 PM
Subject: IN BANGLADESH
CI SONO MOLTI MODI PER MORIRE
Si muore da operaia, nell’incendio di una fabbrica o sotto le sue macerie.
Si muore in
un corteo, uccisi dalla polizia mentre si chiedono diritti e salario.
Si muore da
sindacalista, buttato in un fosso con le ossa spezzate.
Non solo in
un ristorante, massacrati da un commando.
C’è un dato
che emerge fra le righe delle cronache della strage al Holey Artisan
Bakery di Dacca. Un dato che accomuna i mestieri di tutte le nove vittime
italiane: il lavoro nel settore dell’abbigliamento come imprenditori, manager,
buyer, supervisore, addetta al controllo qualità. E’ bizzarro ritrovare in
Bangladesh una tale concentrazione di figure professionali che (se escludiamo i
distretti dell’immigrazione imprenditoriale cinese) qua in Italia sembravano
avviate all’estinzione.
Secondo l’ISTAT
il comparto qui da noi si è ridotto da un milione e centomila occupati nel 1980 a poco più di
quattrocentomila nel 2015. Deve trattarsi di uno strano fenomeno, visto che, a
detta dell’ICE (Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione
delle imprese italiane), ancor oggi l’Italia
è il terzo esportatore mondiale di tessili-abbigliamento dopo Cina e Germania.
Evidentemente
qualcosa non torna. Chi lo produce tutto questo “made in Italy”?
C’entrano,
per caso, quei 2,5 miliardi di euro di articoli d’abbigliamento importati dalla
Cina nel 2015, o quei 952 milioni importati dal Bangladesh, o quei 684 milioni
importati dalla Romania?
All’inizio
degli anni ‘90 il tessile italiano comincia a spostare all’estero le sue reti
di subfornitura. Approfitta del via libera della Comunità Europea al “traffico
di perfezionamento”, un regime doganale che consente di esportare materie prime
e reimportare prodotti finiti in compensazione, senza oneri
tariffari. Sono gli anni in cui i cambi di regime oltre Adriatico aprono
possibilità insperate di delocalizzazione, alla portata anche delle medie
imprese.
Da allora
gli scantinati del Salento o del Nord Est, dove le fabbrichette clandestine
tagliano e cuciono per i grandi marchi, iniziano a svuotarsi.
Gradualmente
si spostano anche i capannoni delle lavorazioni industriali. Marzotto
trasferisce gli impianti dell’ex Lanerossi in Slovacchia e
Lituania. Trasferisce le lavorazioni più nocive, come quelle
della Marlane, delocalizzata a Brno dopo essersi lasciata dietro 107
operai morti e malati, oltre alle tonnellate di scorie tossiche seppellite
sotto lo stabilimento di Praia a Mare. Stefanel e Diesel si spostano a
Timisoara, e così via, fino ai giorni nostri, con la OMSA/Golden Lady
delocalizzata in Serbia.
Nel 1995 l’annuncio
della fine dell’Accordo Multifibre, che limitava le quantità di tessili
esportabili dai paesi in via di sviluppo, apre definitivamente la strada dell’Asia.
Anche i grandi marchi come Valentino, IT Holding, La Perla, Armani, Mariella
Burani, Laura Biagiotti, Roberto Cavalli, cominciano a non disdegnare la produzione
di seconde linee o del denim (il tessuto dei jeans) in Cina, India, Turchia,
Indonesia, accanto all’Egitto e Repubblica Ceca. Per non parlare di Benetton,
che dell’internazionalizzazione ha fatto sistema.
Il fenomeno
è accompagnato dalla consueta retorica: “in
Italia ci sono i lacci e i laccioli”, “la produzione in patria non è più competitiva”, “la delocalizzazione innalzerà i livelli di
professionalità del personale italiano, perché resteranno in Italia le funzioni
alte del fashion”, eccetera, eccetera.
“Produrre all’estero e fare profitti in
patria”, uno studio dal titolo schietto redatto dal Dipartimento di
Scienze Economiche della Ca’ Foscari, spiega la faccenda con meno ipocrisie: su
1.000 euro di fatturato, il profitto lordo di un’impresa italiana che produce
abbigliamento in patria è di 150 euro. Se produce in Romania diventa 400 euro.
Insomma, non è che il profitto in Italia non ci sia, è che ai padroni non basta.
E se possono
guadagnare quasi il triplo in Romania, dove il costo del lavoro è un
decimo del nostro, figuriamoci in Bangladesh, il paese dove i salari degli
operai tessili sono fra i più bassi del mondo. O meglio, delle operaie, visto
che l’80% della forza lavoro del settore è femminile.
La retorica
del “aiutiamoli a casa loro”
insiste sul fatto che quei salari sono commisurati agli standard di quei paesi.
Peccato che non siano commisurati alla soglia di sussistenza, che in Bangladesh
si aggira attorno ai 260 euro al mese.
I salari al
sotto del minimo vitale sono la prima violenza. Costringono a
sottomettersi a livelli disumani di straordinario per poter arrotondare la
paga. Gli orari lunghissimi pesano sulla salute delle operaie, impediscono di
trovare il tempo per riposarsi a sufficienza o per alfabetizzarsi.
Il reddito
familiare non permette un’abitazione decente, cibo e cure sufficienti.
Non ci sono
soldi per mandare i figli a scuola. Con gli adulti sequestrati al lavoro, i
bambini restano semiabbandonati, oppure vengono messi in produzione, per
permettere alla famiglia di sopravvivere.
La seconda
violenza sono le condizioni di nocività e insicurezza.
Una
caratteristica dei processi di delocalizzazione è quella di trasferire all’estero
le lavorazioni più nocive per aggirare le patrie restrizioni in materia di
ambiente e sicurezza del lavoro.
È così che
la sabbiatura (sandblasting), il processo per l’invecchiamento artificiale dei
jeans, ha preso la strada dell’Asia, concentrandosi inizialmente in Turchia.
Le modalità
di lavoro, attuate in assenza delle più basilari misure di protezione, hanno
provocato ben presto in quel paese il dilagare di patologia polmonari
(silicosi, tubercolosi, tumori) fra i lavoratori dell’abbigliamento. Nel 2009,
le organizzazioni operaie turche e le campagne di denuncia internazionale hanno
ottenuto il bando dalla Turchia dell’uso della silice nei processi di
sandblasting e così... la lavorazione è stata delocalizzata altrove, in Cina,
Bangladesh, India, Pakistan e Nord Africa.
Si stima che
circa la metà delle 200.000 paia di jeans esportate dal Bangladesh nel 2012 sia
stato sottoposta a processi di sabbiatura.
Nello stesso
anno, la Clean Clothes
Campaign ha condotto un’indagine sul sandblasting in Bangladesh. Ne è emersa la
storia di Abdul, 32 anni, che dopo due di sabbiatura ha cominciato a sentire
male al petto, febbre e debolezza, ma non riesce a pagarsi le analisi. Abdul,
che ha chiesto invano ai suoi capi che gli cambiassero reparto, perchè tossisce
e sputa sabbia.
E poi c’è la
storia di Rasheed, 24 anni di vita di cui due di sabbiatura. Rasheed con i
polmoni dolenti, pieni di muco. Rasheed che sputa sangue, ma non può
permettersi le cure.
Mohammad,
sabbiatore venticinquenne, invece si è indebitato per pagare esami medici e
farmaci che non servono a niente. Sono costati 1.600 taka, e il suo stipendio
era 3.400 tk (32 euro). La fabbrica non glieli rimborsa. Mohammad usa due
maschere quando lavora, una sopra l’altra, ma non bastano. A fine turno, dice,
tossisce palle di sabbia.
I lavoratori
intervistati hanno riconosciuto, sui capi da sabbiare, le etichette delle
statunitensi Levi’s, Lee ed Esprit, della svedese H&M, della danese
C&A, della spagnola Zara, e delle nostrane Diesel e Dolce & Gabbana.
Negli ultimi
20 anni le esportazioni bengalesi di abbigliamento hanno subito una crescita
esponenziale.
Per approfittarne
al massimo gli imprenditori locali del settore hanno trasformato in fabbriche
molti edifici costruiti per altri scopi. Le imprese hanno innalzato piani
supplementari o aumentato la forza lavoro e le macchine oltre la capacità di
sicurezza delle strutture.
Questo
completo disinteresse verso questioni quali l’adeguatezza delle vie di fuga, la
stabilità degli edifici, la sicurezza degli impianti elettrici, ha provocato
migliaia di morti e feriti, in un crescendo di incendi e di crolli (i dettagli
in appendice) che si sono susseguiti fino al collasso del Rana Plaza, il più
grande disastro della storia mondiale dell’industria dell’abbigliamento.
Sotto le
macerie del Rana Plaza morirono, il 24 aprile 2013, 1.132 persone (più di 2.000
i feriti), prevalentemente operaie che producevano per una varietà di marchi
americani ed europei, fra i quali i nostri Benetton, YesZee, Manifattura Corona
e Pellegrini.
Ma se la
modernità del capitalismo globale sembra riportare le condizioni di lavoro
indietro di un secolo, ai tempi del Triangle Fire, i lavoratori bengalesi
non si sono lasciati fare tutto questo senza reagire.
APPENDICE
25 febbraio 2005
Crollo del Phoenix Building nella zona industriale di Tejgaon, Dacca. Il Phoenix Building ospitava varie
fabbriche di abbigliamento per l’esportazione, fra cui la Phoenix Garments.
Entrambi, Phoenix Building e Phoenix Garments, appartenevano allo stesso
proprietario. Nell’edificio era in corso una ristrutturazione per convertire i
piani superiori in un ospedale privato. Il crollo ha coinvolto 150 lavoratori
edili ed un numero imprecisato di lavoratori tessili.
25 febbraio 2005
Esplode un trasformatore al Gruppo Industriale Imam di Chittagong: 57 lavoratori dell’abbigliamento
rimangono feriti.
11 aprile 2005
Crollo della Spectrum: 64 morti, almeno 74 feriti, tra cui diversi lavoratori con invalidità
permanenti. La fabbrica, costruita su un terreno paludosi di Savar, a 30 km da Dacca, è crollata
sugli operai del turno di notte.
Nei giorni
precedenti gli operai avevano segnalato le crepe nei muri. Gli era stato detto
di tenere la bocca chiusa e tornare al lavoro. La Spectrum operava in
violazione del permesso di costruzione dell’edificio, non rispettava le
norme sui minimi salariali e sul giorno libero.
Committenti
della Spectrum: Inditex (Spagna), Carrefour, Solo Invest, CMT Windfield
(Francia), Cotton Group (Belgio), KarstadtQuelle, New Yorker, Bluhmod
(Germania), Scapino (Paesi Bassi), e New Wave Group (Svezia).
23 febbraio 2006
Incendio alla KTS Textile Industries di Chittagong: 61 morti (fra cui tre ragazze di 12,
13 e 14 anni), circa 100 feriti. Al momento dell’incendio, causato da un corto
circuito, c’erano dalle 400 alle 500 persone in fabbrica. Il cancello
principale era stato bloccato per “impedire furti”. Non c’era nessuna attrezzatura
antincendio, né erano mai state fatte esercitazioni.
Della KTS si
ricordano anche gli straordinari forzati, sette giorni a settimana di
lavoro, il pagamento al di sotto del salario minimo, la negazione dei diritti
di maternità previsti dalla legge, la violenza fisica contro i lavoratori, la
negazione della libertà di associazione e del diritto di contrattazione
collettiva.
Committenti della KTS:
Uni Hosiery, Mermain International, ATT Enterprise, VIDA Enterprise, Leslee
Scott Inc, Ambiance, Andrew Scott.
25 febbraio 2006
Esplosione all’Imam Group, Chittagong: 57 feriti.
In seguito
all’esplosione di un trasformatore i lavoratori si sono precipitati verso le
uscite: decine sono stati feriti cercando di uscire dalle porte troppo strette.
Committenti dell’Imam
Group: i giganti USA Kmart e Folsom Corporation.
6 marzo 2006
Incendio alla Fashions Sayem, Gazipur: 3 morti, circa 50 feriti.
Scoppia un
incendio provocato da un corto circuito presso l’edificio che ospita la Sayem Fashions,
la SK Sweater e la
Radiance Sweater, a 35 chilometri da
Dacca. Le uscite di sicurezza sono ostruite dagli scatoloni in deposito. Le
organizzazioni sindacali riferiscono altre violazioni dei diritti dei
lavoratori: settimana di sette giorni, lunghi orari di lavoro.
Committenti:
Inditex, Charles F. Berg, Wet, Ada Gatti, Bershka Company, BSK Garments,
X-Mail, Kreisy, Persival (non confermato).
25 febbraio 2010
Incendio alla Garib and Garib: 21 morti, circa 50 feriti.
Alle 21:30
il fuoco, apparentemente causato da un corto circuito, ha attaccato il primo
dei sette piani del palazzo diffondendosi rapidamente sui materiali tessili.
Non c’erano
attrezzature antincendio, o erano inappropriate. La scarsa ventilazione ha
impedito il defluire del denso fumo nero, e molti son morti soffocati. Anche
questa volta la porta d’ingresso era chiusa a chiave e le uscite di sicurezza
erano bloccate. Le sbarre alle finestre hanno reso più difficili i soccorsi. La
ditta aveva subito altri due incendi, il primo nel 2009 aveva causato due
morti, un altro nel 2010 solo feriti.
Committenti
della Garib and Garib: H&M, Otto, Teddy (brand Terranova), El Corte Ingles,
Ulla Popken, Taha Group (brand LC Waikiki), Provera e Mark’s Work Wearhouse.
14 dicembre 2010
Incendio al That’s It Sportswear (Hameem Group): 29 morti, 11 feriti gravi, numerose
ferite lievi.
L’incendio,
scoppiato in un edificio moderno, è stato causato da un corto circuito. E’
iniziato al nono piano, rendendo i vigili del fuoco impotenti perché le loro
scale non potevano andare oltre il quinto, e gli elicotteri non riuscivano ad
atterrare perché il tetto era stato illegalmente trasformato in una mensa.
Molti operai sono morti lanciandosi dalle finestre. Non erano mai state fatte
esercitazioni antincendio, le uscite erano bloccate e il luogo di lavoro non
era adeguatamente sorvegliato.
Inoltre, ai
lavoratori era stata negata la libertà di associazione, che avrebbe permesso
loro di svolgere un ruolo per affrontare alcune di queste violazioni in
anticipo sulla tragedia.
Committenti della That’s It Sportswear: Gap, PVH Corp., VFCorporation,
Target, JC Penney, Carter (Oshkosh), Abercrombie
and Fitch, Kohl.
3 dicembre 2011
Scoppio di una caldaia alla Eurotex (Continental): 2 morti, 64 feriti.
Esplode una
caldaia alla Eurotex, nella città vecchia di Dacca. Si diffonde la voce di un
incendio e fra i lavoratori scoppia il panico. Le scale sono sovraffollate e la
pressione fa crollare una ringhiera, molta gente cade. Un operaio riferisce che
in un primo momento i cancelli erano aperti, ma poi sono stati chiusi da un
direttore di fabbrica, che ha invitato la gente a tornare al lavoro dicendo che
non era successo niente. Questo testimone sostiene che i morti e i feriti sono
stati causati quando i lavoratori hanno iniziato a correre su per le scale
spingendosi contro chi tentava di uscire. Jesmin Akter, 20 anni, e Taslima
Akter, 22, muoiono calpestate nella calca. Numerosi clienti stranieri avevano
già individuato problemi di sicurezza e rischi in fabbrica. Venti giorni dopo
lo scoppio della caldaia alla Eurotex, precipita un ascensore presso la Continental, la casa
madre, uccidendo un altro lavoratore e ferendone due.
Committenti
della Eurotex: Tommy Hilfiger
(di proprietà della statunitense PVH Corp.), Zara (di proprietà
della spagnola Inditex), Gap (US), Kappahl (Svezia), C & A (Belgio) e
Groupe Dynamite Boutique Inc (Canada) – direttamente o tramite subappalto.
24 novembre 2012
Incendio alla Tazreen Fashions: 112 morti.
L’incendio
ha origine nei magazzini di stoccaggio dei tessuti e dei filati al piano terra.
Parte l’allarme antincendio, ma i capetti dicono agli operai che non sta
succedendo niente.
Gli operai
dei piani superiori capiscono presto che l’accesso all’uscita del piano terra è
impedito dal fuoco. Il fumo riempie tutti i livelli superiori. I soccorsi
vengono chiamati mezz’ora dopo l’inizio dell’incendio. Quando arrivano, le
fiamme sono già al quinto piano. La gente muore lanciandosi dal sesto. Anche
questa volta le porte dei piani risultano bloccate. La maggior parte delle
vittime sono donne, per 53 di loro non è stata possibile l’identificazione.
Committenti della Tazreen
Fashions: C&A, Kik, Walmart, Li&Fung, Enyce, Edinborough Woollen Mills,
Disney, Dickies and Sears/Kmart
24 aprile 2013
Crollo del Rana Plaza: 1.132 morti, più di 2.000 feriti.
Il Rana
Plaza di Savar (Dacca) era un edificio di otto piani. Nella struttura
operavano, oltre a diversi negozi e una banca, cinque fabbriche di
abbigliamento con circa 5.000 dipendenti.
Progettato
inizialmente per ospitare solo uffici e negozi, l’edificio era stato
sopraelevato abusivamente di quattro piani per far posto alle fabbriche. Al
momento del collasso era in costruzione il nono piano.
Il giorno
prima del crollo erano apparse delle crepe nei muri del palazzo. I negozi e la
banca avevano provveduto all’evacuazione, ma le operaie delle fabbriche erano
state costrette a tornare al lavoro, sotto la minaccia di perdere l’intero
salario del mese.
Sotto le
macerie sono rimasti non solo i corpi delle vittime, ma anche le etichette e i
documenti di spedizione che identificavano i clienti delle fabbriche. Altri
clienti vennero rintracciati grazie ai siti internet dei fornitori. Risultavano
le statunitensi Walmart, Cato Fashion, Children’s Place, Lee Cooper/Iconix, JC
Penney, Dress Bam; le tedesche Adler Modemarkt, Kik, Kids for Fashion, C&A,
NKD, Gueldenpfenning; le francesi Carrefour, Auchan, Camaieu; le britanniche
Bon Marche, Matalan, Premier Clothing, Primark, Store 21; le spagnole El Corte
Ingles, Mango, Lefties/Inditex, le danesi Texman e Mascot, la canadese Loblaws
e la polacca Cropp/LPP oltre alle italiane Benetton, YesZee, Manifattura Corona
e Pellegrini.
---------------------
From: Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
To:
Sent:
Thursday, July 14, 2016 8:05 AM
Subject: DISASTRO
FERROVIARIO IN PUGLIA
Il 13 luglio
avevo scritto: Tanto daranno la colpa ai macchinisti o ai capistazione.
Come
volevasi dimostrare:
Alessandra
SCONTRO
FRA TRENI, PRIMI INDAGATI PER DISASTRO E OMICIDIO COLPOSO
Le
informazioni di garanzia saranno notificate ai due capistazione di Andria e
Corato (sospesi dal servizio da Ferrotramviaria) e al responsabile movimento
della stazione di Andria.
Quel treno non doveva partire dalla
stazione di Andria. La Procura
di Trani mette il primo tassello nell’indagine sulla strage nelle campagne pugliesi e iscrive alcuni nominativi nel
registro degli indagati. Il fascicolo aperto con le ipotesi di reato di
disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo punta dunque al
personale di Ferrotramviaria che era in servizio nelle stazioni di Andria e
Corato al momento dell’incidente: i due capistazione, innanzitutto, più il
responsabile movimento della stazione di Andria. Le informazioni di garanzia
saranno notificate in occasione delle autopsie sui corpi delle 23 vittime.
I primi accertamenti se non hanno
ancora consentito di ricostruire con esattezza la dinamica dell’incidente,
hanno però permesso di avere alcuni punti fermi. Primo tra tutti il segnale di
partenza dato al treno fermo ad Andria: quel convoglio si è mosso quando non
doveva, con l’ok del capostazione e il semaforo verde di via libera. Cosa è
accaduto? C’è stato soltanto un errore umano, ipotesi prevalente tra gli
inquirenti, o anche un guasto tecnico che ha azionato il semaforo?
Prima di iscrivere i nominativi dei
dipendenti di Ferrotramviaria, il procuratore Francesco Giannella ha costituito
un pool di quattro magistrati che assieme a lui indagherà in ogni direzione. “Dobbiamo
scandagliare ogni possibilità” - ha spiegato il Pubblico Ministero - “anche per
non fare l’errore di fermarci a quello che è accaduto”.
La linea è chiara, dunque, ipotizza
tre livelli d’indagine: da un lato si procederà a individuare le singole
responsabilità nella catena di controllo che ha autorizzato il treno a lasciare
la stazione di Andria, dall’altro si prenderanno in considerazione la sicurezza
dei controlli da parte degli enti e la questione del raddoppio della linea, la
sua messa in sicurezza e l’utilizzo dei fondi per arrivare all’individuazione
di altri soggetti che potrebbero avere ruoli tutt’altro che marginali.
Come sono stati usati i fondi
europei stanziati per il raddoppio
della linea Bari-Barletta? Perché i lavori hanno accumulato così tanto
ritardo? E ancora: i sistemi di sicurezza sono adeguati rispetto alla normativa
in vigore? Già in passato si erano verificate delle criticità che dovevano far
scattare l’allarme e che non sono state segnalate? Tutte domande che richiedono
una risposta chiara, perché non è pensabile che le responsabilità di un simile
disastro possano essere addebitate soltanto a un errore umano.
La decisione di procedere fin da
subito su più fronti ha fatto sì che ogni magistrato si occuperà di un aspetto
dell’inchiesta. Ed è ovvio che i primi accertamenti riguarderanno proprio le
responsabilità dei capistazione V.P e A.P e gli eventuali loro collaboratori
per accertare chi ha sbagliato nel dare il segnale di partenza. Senza
dimenticare che la catena di controllo prevede un ruolo attivo anche per i
capitreno a bordo dei convogli: uno dei due, Albino Di Nicolo, è però morto nello
schianto; l’altro è ricoverato in ospedale.
E’ questo il motivo per cui gli
investigatori della Polfer, dopo aver recuperato le scatole nere, hanno
proceduto a sequestrare una serie di documenti che serviranno proprio a
chiarire i ruoli di ciascuno: i brogliacci di movimento dei treni, le immagini
delle telecamere delle stazioni di Andria e Corato e del sistema di
videosorveglianza installato su almeno uno dei due convogli, le conversazioni
telefoniche tra i due capistazione, trascritte in un fonogramma.
Proprio dalla visione delle immagini
delle stazioni, gli investigatori avrebbero già potuto accertare due elementi
importanti. Dopo la partenza del treno da Andria non si sono registrate scene
di disperazione o attività particolari: significa che nessuno dei due
capistazione si è accordo di aver commesso un errore. Inoltre, il macchinista
del treno proveniente da Andria non poteva far altro che partire: oltre all’OK
del capostazione aveva anche il segnale di via libera sulla linea.
Gli investigatori hanno inoltre
verificato che erano due i treni delle Ferrovie del Nord Barese provenienti da
Corato e diretti verso nord e che uno di questi viaggiava in ritardo: potrebbe
essere stata questa la circostanza che avrebbe indotto il capostazione di
Andria a dare il via libera al treno. Un errore che nessuno nega. “Il treno che
è partito per secondo” - dice il procuratore Giannella - “non doveva partire”. “L’unica
stazione di incrocio è quella di Andria” - aggiunte il direttore generale di
Ferrotranviaria, Massimo Nitti - “Quel treno che scendeva da Andria, lì non ci
doveva essere”.
Ma Nitti ha anche difeso il sistema
di comunicazione e sicurezza basato su un fonogramma, il cosiddetto “consenso
telefonico”: “E’ una delle modalità di esercizio che viene regolarmente utilizzata
nelle ferrovie”. Sicuramente ha ragione, ma i magistrati vogliono capire se
davvero tutti i regolamenti e le norme in vigore sono state rispettate. Così
come vogliono far luce sulla questione del raddoppio della linea: il progetto è
previsto dal 2008 e doveva concludersi nel 2015. Ovviamente non si è concluso.
Perché? “Dobbiamo capire. Ci sono tante cose da vedere e da incrociare”, si
limita a dire il procuratore. L’indagine, d’altronde, è soltanto all’inizio.
---------------------
To:
Sent:
Thursday, July 14, 2016 10:06 AM
Subject: SULLA STRAGE
FERROVIARIA DI CORATO: COMUNICATO DEI LAVORATORI DELLA CUB TRASPORTI
COMUNICATO
SULLA STRAGE FERROVIARIA DI CORATO DEL 12 LUGLIO 2016: MAI PIU!
Il
fragore violento di 27 vite spezzate che ha squarciato ieri mattina la campagna
di Corato è l’ultimo di una scia nefasta, che continua a seminare sangue sui
binari di questo paese.
Nonostante
il fiume di denaro pubblico speso in questi ultimi 20 anni per ammodernare la
rete ferroviaria italiana si continua a morire tra i binari, perché nell’era
delle applicazioni tecnologiche abbiamo migliaia di km di rete non coperta da
sistemi di sicurezza adeguati.
Monzuno,
Firenze Castello, Crevalcore, Viareggio, sono alcuni dei precedenti più
emblematici nella storia recente, ma una lunga catena di incidenti ha
imperversato in questi anni, talvolta per incuria, talvolta per errori,
talvolta per malfunzionamenti tecnici, causando centinaia di vittime.
Quello
che manca è una cultura di sicurezza che prescinda dai budget aziendali e dagli
obiettivi industriali; una battaglia per la sicurezza che i ferrovieri,
talvolta sanzionati e licenziati, perseguono da anni, inascoltati da
istituzioni ed aziende oggi impegnate a commemorare i defunti.
In
un paese segnato dalle divisioni economiche, sociali e territoriali, esistono
tante ferrovie... esistono linee tra le più moderne del mondo,
al servizio delle grandi città industriali e poi un’infinità di realtà minori e
dimenticate, dove sopravvivono sistemi tecnici vergognosamente obsoleti, così
come il blocco telefonico e il binario unico che vige tra Andria e Corato.
Oltre
la metà delle linee ferroviarie italiane è tutt’oggi a semplice binario e il blocco
telefonico è il regime di circolazione ancora utilizzabile, in moltissime
linee, in caso di degrado e malfunzionamento dei sistemi tecnici, significativo
peraltro che le linee più arretrate sono proprio quelle delle ferrovie private,
elemento che i fautori della liberalizzazione e delle privatizzazioni
dovrebbero tenere bene a mente.
Da
anni sosteniamo che era necessario mettere in sicurezza l’intera rete italiana,
prima di investire capitali immensi per l’Alta Velocità che serve meno del 10 %
del traffico di viaggiatori; ma in linea con le politiche classiste di questi
anni, si è scelto di agevolare i flussi finanziari ed economici, anziché
servire studenti, pendolari e famiglie. Si tratta della trasformazione delle
ferrovie italiane, che da servizio pubblico e sociale hanno lasciato spazio al
percorso di privatizzazione commerciale, una trasformazione i cui rischi ed
effetti nefasti sono evidentemente stati sottovalutati.
La
politica del trasporto ferroviario in Italia, dagli anni novanta a oggi, ha visto
la chiusura o l’abbandono di molte linee considerate rami secchi, l’impresenziamento
di innumerevoli stazioni e presidi, il taglio drastico di tutti i servizi non
AV.
Non
dimentichiamo che i due treni stavano entrambi viaggiando con un solo macchinista,
sistema macabramente soprannominato “uomo morto” e che nelle stazioni il
personale ferroviario di controllo è stato ridotto al minimo in tutta la rete
ferroviaria, ciò anche con la complicità di sigle sindacali che in virtù della
concertazione e compartecipazione alla gestione aziendale, hanno svenduto in
questi anni i diritti di lavoratori e viaggiatori. Peraltro la probabile
cancellazione del progetto di sotto-attraversamento e stazione AV di Firenze,
dopo che già centinaia di milioni di euro sono stati impiegati in un’opera che
i comitati di cittadini da anni hanno bollato come inutile e dannosa, dimostra
quanto miope sia stata la politica di investimenti di questi anni.
Di
fatto mentre ancora si punta a realizzare contro il volere dei cittadini la TAV in val di Susa con l’investimento
di miliardi di euro, 27 urla spezzate nella campagna di Corato mostrano
inesorabilmente la dura realtà.
Allora
adesso chiamatelo pure errore umano, se volete continuare a mistificare la
realtà avallando la rincorsa di profitti sempre maggiori sulle spalle di
lavoratori e pendolari.
Chiediamo
che si torni a considerare prioritaria la sicurezza di tutti i viaggiatori in
tutto il paese, e che si fermino i processi di privatizzazione che hanno
causato la mattanza di posti di lavoro anche tra gli addetti al movimento e
alla sicurezza; chiediamo il ripristino del doppio agente di macchina e ritmi
lavorativi più umani e più sicuri per tutti.
Siamo
qui per gridare che non permetteremo che questo ennesimo disastro, sia
accantonato e sacrificato in nome del profitto e della speculazione,
continueremo a lottare per presidiare sicurezza e qualità del trasporto e della
vita di utenti e ferrovieri. Con voci stozzare di rabbia e di dolore, trafitti
nel cuore da 27 pugnalate avvelenate, siamo qui per chiedere giustizia e
verità. Siamo qui per gridare Mai
Più.
Ferrovieri Cub Trasporti
---------------------
From: Comitato Eureco comitatosostegnovittime.eureco@gmail.com
To:
Sent: Thursday, July 14, 2016 8:21 PM
Subject: CITTA’ METROPOLITANA AUTORIZZA LA NUOVA EURECO
Buonasera
riceviamo
dal Sindaco del Comune di Paderno Dugnano l’informazione che oggi è arrivata l’autorizzazione
di Città Metropolitana per il nuovo insediamento di una fabbrica smaltimento
rifiuti pericolosi nell’area ex Eureco.
Vi
inoltriamo il comunicato stampa del Sindaco e quello del nostro comitato.
Cordiali
saluti
Per
il Comitato
Loris
Brioschi
Lorena
Tacco
* * * * *
Gentili rappresentanti
del Comitato a sostegno dei Familiari delle Vittime e dei lavoratori
Eureco,
vi comunico che la Città Metropolitana
di Milano ha rilasciato l’autorizzazione integrata ambientale alla società Tecnologia
& Ambiente per l’attivazione di un impianto presso l’insediamento ex Eureco.
Un esito che purtroppo non ci sorprende
visto che il Comune di Paderno Dugnano è rimasto l’unico Ente contrario in sede
di Conferenza di Servizi.
Come annunciato con una nota stampa
(che vi allego), il Comune valuterà ogni azione possibile da intraprendere a
seguito del provvedimento di Città Metropolitana.
Cordialmente.
Il Sindaco
Marco Alparone
* * * * *
COMUNICATO
STAMPA
Ex Eureco,
Città Metropolitana ha rilasciato l’autorizzazione.
“Ignorato
l’indirizzo politico. Ora valuteremo le azioni conseguenti”.
Paderno
Dugnano 14 luglio 2016.
La Città Metropolitana ha comunicato formalmente il
rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale all’impresa Tecnologia &
Ambiente per la realizzazione di un impianto per il trattamento di rifiuti
speciali presso l’insediamento ex Eureco in via Mazzini.
“Una
notizia che purtroppo non ci sorprende visto l’esito dell’ultima conferenza di servizi
dove siamo stati l’unico Ente a ribadire e motivare parere contrario” – commenta il Sindaco Alparone – “Mi spiace che l’indirizzo politico
espresso dal Consiglio Comunale di Paderno Dugnano, e poi dallo stesso
Consiglio Metropolitano, sia stato di fatto superato da un approccio
esclusivamente burocratico rispetto ad una vicenda che per la nostra comunità
ha anche un valore sociale oltre che ambientale e di sicurezza. Nel 2010
quattro lavoratori persero la vita in quell’impianto che oggi si vuole
riattivare sempre a ridosso della Milano-Meda e sempre in prossimità di una
derivazione del Canale Villoresi. Adesso valuteremo con i nostri tecnici le
azioni da intraprendere a seguito del provvedimento di Città Metropolitana”.
L’Amministrazione
Comunale
* * * * *
COMUNICATO
STAMPA
Paderno
Dugnano 14 luglio 2016
Apprendiamo
dal Comune di Paderno Dugnano, che “La Città Metropolitana
ha comunicato formalmente il rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale
all’impresa Tecnologia & Ambiente per la realizzazione di un impianto per
il trattamento di rifiuti speciali presso l’insediamento ex Eureco in via
Mazzini”.
La
parte tecnico-burocratica della Città Metropolitana, la Commissione Servizi,
non ha preso in considerazione la scelta contraria del Consiglio Comunale di
Paderno Dugnano e neppure quella del Consiglio stesso della Città
Metropolitana.
Non è
possibile lasciare spazio ad aziende di questo tipo a Paderno Dugnano dopo un
simile precedente poiché su questa città non pesano solo le morti di 4 operai
dell’allora Eureco (Harun Zeqiri, 44 anni, Sergio Scapolan, 63, Salvatore
Catalano, 55 e Leonard Shehu, 37), ma anche l’esistenza di altri 3 tuttora
abbandonati al loro destino.
Il
comune di Paderno Dugnano costituitosi parte civile durante il processo contro
l’Eureco, ha l’obbligo morale nei confronti delle vittime di riaffermare con
forza quest’opposizione e di far di tutto per impedire che si creino nuove
situazioni potenzialmente pericolose.
In qualità
di “Comitato a sostegno dei famigliari delle vittime e dei lavoratori Eureco”
esprimiamo contrarietà a questo nuovo insediamento, perché la strage accaduta
nel 2010 non abbia a ripetersi, chiedendo il sostegno di tutti i cittadini, le
forze politiche, le associazioni presenti sul nostro territorio.
Per
questo abbiamo richiesto un incontro urgente con Giuseppe Sala attuale sindaco
della Città Metropolitana e chiediamo a tutti i cittadini padernesi a
partecipare ad un primo presidio di protesta indetto per sabato 16 luglio alle 15,30 davanti alla Ex
Eureco in Via Mazzini a Palazzolo Milanese.
Importante
sarà la nostra presenza alla Riunione del Consiglio Metropolitano di lunedì 25
luglio 2016 in
via Vivaio 1 a
Milano.
Altre
iniziative verranno programmate in seguito.
COMITATO A SOSTEGNO DEI FAMILIARI DELLE VITTIME E DEI LAVORATORI EURECO
---------------------
To:
Sent: Sunday, July 17, 2016 2:25 PM
Subject: LA STRAGE
FERROVIARIA DI RUVO DI PUGLIA E’ GUERRA DI STERMINIO NON
DICHIARATA
La strage ferroviaria di Ruvo di Puglia è guerra di sterminio non dichiarata che i vertici della Repubblica Pontificia promuovono nel nostro Paese verso le masse popolari!
Raccogliamo e
pubblichiamo l’articolo scritto da Giorgio Cremaschi che denuncia le parole
criminali che i vari caporioni del Governo Renzi-Bergoglio hanno usato per
strumentalizzare una strage i cui mandanti sono chiari, evidenti. Spesso nella
nostra pubblicistica diciamo che quella che la borghesia promuove nel nostro
paese (e in qualsiasi altro paese imperialista) nei confronti delle masse
popolari è una guerra di sterminio non dichiarata e lo diciamo usando gli
esempi della vita quotidiana: dallo smantellamento della sanità pubblica, alle
centinaia di morti di immigrati nel Mediterraneo, ai morti sul lavoro ecc.
Quella di ieri è l’ennesima
manifestazione di questa guerra.
L’unica via di uscita
per farla finita con la borghesia è costruire un nuovo ordinamento sociale,
costruire la rivoluzione socialista. Oggi più che mai le condizioni oggettive
sono mature. La strage ferroviaria di ieri è l’ennesima dimostrazione che
quello che manca nella nostra società non sono gli strumenti, le tecnologie, le
competenze per evitare lo scontro tra due treni... quello che manca è la
volontà e l’interesse di chi dirige la nostra società di farlo!
La società in cui
viviamo è diretta da una classe (la borghesia) che ha come suo obiettivo il
profitto aldilà di qualsiasi altro interesse. Si muove per fare profitto,
investe per fare profitto. Se dalla costruzione del doppio binario non sono
previsti profitti allora non viene fatto e se poi muoiono decine di lavoratori,
studenti, precari allora significherà che la borghesia troverà il modo di
ricavarne un profitto anche dai morti (ricorderete tutte le dichiarazioni dell’imprenditore
edile che nella stessa notte del terremoto dell’Aquila gongolava per i futuri
profitti o le intercettazioni di Mafia Capitale in cui veniva detto che lo
smercio degli immigrati era “conveniente”).
L’unica via di uscita
è costruire il socialismo cioè l’ordinamento sociale confacente allo sviluppo
delle attuali forze produttive. Il modo migliore, meno doloroso, per arrivarci
è far ingoiare ai vertici della Repubblica Pontificia, un Governo d’Emergenza
Popolare, un governo delle organizzazioni operaie e popolari del nostro Paese e
che mettono mano alla situazione d’emergenza!
Agli esponenti
autorevoli come Giorgio Cremaschi diciamo di mettersi (fin da oggi) a
contributo della costruzione della governabilità delle organizzazioni operaie e
popolari mettendosi a disposizione con ogni loro risorsa, mezzo, capacità.
Partito dei Comitati di Appoggio alla
Resistenza per il Comunismo
* * * * *
CHI PARLA DI ERRORE UMANO E’ UN MASCALZONE!
di Giorgio Cremaschi
La strage ferroviaria di Ruvo di Puglia è come
quella di Crevalcore, come quella di Viareggio, come altri omicidi di poveri
pendolari e ferrovieri: è colpa dei mancati investimenti sulla sicurezza e del
taglio al personale. Chi parla di errore umano è un mascalzone
Voglio fare un
ragionamento semplice, mandando subito all’inferno chi ora spenderà paroloni
per non farci capire niente e continuare come sempre.
Di fronte alla strage
ferroviaria di Ruvo di Puglia, di fronte a quei ragazzi, lavoratori, donne e
uomini assassinati solo perché su un treno per poveri, io urlo che la sola
colpa è di tutti coloro che hanno tagliato gli investimenti sulla sicurezza e
lo stesso personale. Invece sento già parlare di errore umano, come se questo
esistesse davvero nel 2016 nei treni. In Svizzera la maggior parte delle linee
ferroviarie sono a binario unico, quanti incidenti ci sono? Il sistema dei
controlli informatici, la manutenzione continua, i meccanismi di sicurezza e di
arresto immediato della circolazione, non appena qualche cosa non vada, il
rinnovamento del materiale rotabile e delle infrastrutture, i turni umani per
il personale, tutto costruisce un sistema di salvaguardia che impedisce
disastri, come quelli che invece sempre più spesso accadono nelle ferrovie
italiane. Ma da noi si parla di errore umano, vergogna!
A Crevalcore anni fa
c’è stata una strage, si è data la colpa ai macchinisti, opportunamente morti
nell’incidente. A Viareggio invece i macchinisti sono sopravvissuti, e hanno
contribuito a mettere in luce le criminali gestioni della sicurezza che hanno
provocato 31 morti bruciati vivi. Ma il processo per i responsabili delle
Ferrovie si avvia verso la prescrizione.
Quanti soldi si
stanno buttando via per il traforo della Valle di Susa che non serve a niente e
neppure sarà completato? Se con quei soldi si fossero duplicate le linee
ferroviarie ad alta pendolarità, si fosse investito in sicurezza, in semafori
di blocco, in personale, quanti morti in meno ci sarebbero oggi? Ma i NoTAV e
tutti coloro che hanno sollevato la questione degli sprechi per le ferrovie ad
alta velocità e dei tagli per quelle per i pendolari, sono stati tacciati di
essere nemici della modernità. E i ferrovieri che per anni con i sindacati di base
si sono battuti perché a guidare i treni fossero due macchinisti e non solo
uno, sono stati accusati di corporativismo e fannullaggine. E ora grazie alla
legge Fornero un solo macchinista dovrà condurre fino a 67 anni.
Tutte queste ragioni
e altre ancora alla fine risalgono ad un’unica semplice causa: i tagli al
trasporto pubblico ferroviario a favore del profitto sulle tratte più
redditizie e delle privatizzazioni. Così il nostro paese, che nel trasporto
ferroviario negli anni 70 e 80 del secolo scorso era diventato il più sicuro,
ora sta diventando uno dei più pericolosi d’Europa. E la UE vorrebbe che ancora più
tagliassimo sul trasporto pubblico.
Questi sono i
ragionamenti semplici e brutali che dovrebbero essere fatti di fronte ai nuovi
poveri morti. Invece si parla di errore umano, di accertamento delle
responsabilità e soprattutto di evitare troppo facili semplificazioni, perché
la realtà è complessa. Ma almeno tacete, mascalzoni!
Nessun commento:
Posta un commento