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Daniele
Barbieri pkdick@fastmail.it
RIAPPROPRIARSI
DEL TEMPO E RIDURRE L’ORARIO DI LAVORO
Posta
Resistenze posta@resistenze.org
ARCHIVIATO. L’OBBLIGATORIETA’ DELL’AZIONE PENALE IN VALSUSA
CUB Sanità Firenze cubsanita.firenze@libero.it
IL LAVORO
NELLE RESIDENZE PER ANZIANI
Carlo Soricelli carlo.soricelli@gmail.com
Fwd: REPORT MORTI SUL LAVORO NEI PRIMI SEI MESI DEL
2016
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From: Daniele Barbieri pkdick@fastmail.it
To:
Sent: Monday, June 27, 2016
7:26 PM
Subject: RIAPPROPRIARSI DEL
TEMPO E RIDURRE L’ORARIO DI LAVORO
di Mario Agostinelli
“Lo scopo del lavoro
è quello di guadagnarsi il tempo libero” (Aristotele)
TEMPO E VELOCITA’
HANNO UN LIMITE
Il mondo non ha più
tempo da perdere. Siamo nel mezzo della crisi energetica più rilevante nella
storia dell’umanità. Se per gioco volessimo rappresentare con personalità
conosciute le generazioni che succedendosi hanno “plasmato la memoria” su cui
risiede la nostra civiltà occidentale (a scelta da Pitagora a Pericle a Cesare
a Carlo Magno a Marco Polo a Napoleone a Marx, ad Einstein a Feynman, fino ad
Obama) sarebbe sufficiente spalmare su un grande palco una novantina di
illustri individualità (90 personalità x 25 anni a generazione = 2.250 anni di
storia). Ma se volessimo prevedere quanti
nuovi personaggi potranno salire d’ora in avanti su quel palco, dovremmo
riflettere che, almeno a detta del mondo scientifico più responsabile e
accreditato, non potremmo andare oltre alle quattro o cinque unità, se i nuovi “leader”
si limitassero a replicare il “business as usual”, con i conseguenti effetti
irreversibili e devastanti sul clima e la temperatura del pianeta.
In pratica, la
velocità di trasformazione e di sfruttamento delle risorse naturali e
lavorative è giunta al punto tale da pregiudicare, con gli effetti di
manomissione dei cicli naturali, il mantenimento della biosfera e la
sopravvivenza della specie. E’ singolare come questa constatazione venga
totalmente rimossa per continuare a tenere in vita il più a lungo possibile un
presente senza futuro, creando così uno stallo per superare la crisi e rendendo
impraticabile (in assenza di “desiderio”) il terreno per la ricostruzione di
una ipotesi politica alternativa. La mia convinzione è che la cultura egemone
del liberismo (una ideologia economica e politica, non un metodo scientifico
validato!) si ostini a non voler far conto sulla descrizione della realtà che
ci è restituita dalla rivoluzione
scientifica e concettuale innescata dal XX secolo (in particolare dalla
relatività, dalla quantistica, dalla biologia molecolare o dalle neuroscienze)
per continuare a sostituirla con narrazioni ancorate al modello meccanicistico
e deterministico, al tempo e allo spazio assoluti, al mito risolutore della
crescita, alla provocazione dell’ineguaglianza sociale come molla per la
competizione e giustificazione dell’esclusione. Perpetuare l’ambiente anche
scientifico-culturale della rivoluzione industriale, chiamandola seconda, terza
e oggi 4.0, corrisponde a permanere all’interno di un paradigma di crescita ineguale,
in cui la tecnologia risolverebbe a valle i problemi che la scienza pone a
monte, spesso dando supporto, come vedremo, all’ambientalismo, alle lotte per
la liberazione dall’alienazione del lavoro e per l’uguaglianza.
In questo testo mi
concentrerò sul tempo e sulla velocità
che lega quest’ultimo allo spazio attraverso la relatività, facendo riferimento
a sviluppi attuali ancora poco indagati riguardo al mondo del lavoro e, più in
generale, al tempo complessivo (e alla possibilità) di vita. (Terrò conto, ma
non entrerò specificamente nel merito dei principi altrettanto rivoluzionari
che hanno reso possibile lo sviluppo dell’elettronica e delle tecnologie
digitali e che supportano le nuove opportunità offerte dalla penetrazione della
scienza nel mondo microscopico).
Siamo, senza
rendercene razionalmente conto, prigionieri
ormai di un tempo innaturale, prodotto artificialmente, che istantaneamente
connette ogni luogo, ma è anche caratterizzato dalla paura di quanto il diverso
ci si avvicini e occupi i nostri spazi fisici, non solo virtuali. Intanto (e
incessantemente) innumerevoli e insignificanti eventi periferici popolano il
quotidiano e distraggono da una ricerca e da una visione di un futuro
finalmente sgombrato dalle sole emergenze e non più esposto al rischio di non
sopravvivenza. Un tempo, quello presente, disegnato con il contributo dei
media, abituati ormai a seguire gli eventi e a non cogliere i processi. Un
tempo soggettivamente concepito, ma reso maggioritario dalla precarietà che
accomuna il senso comune, impregnato dal timore e dalla banalità. E’ esperienza
diffusa che molti dei nostri incontri (parlo almeno delle generazioni vicine
alla mia) ci riportino immancabilmente a ricordi trascorsi oppure vagolino nel
presentismo generico, riducendo tutta la densità e la ricchezza sociale delle
nostre relazioni al passato o ad un “presente continuo”, dato che il futuro si
ritiene imperscrutabile o si teme peggiore. Sembrerà ad alcuni singolare, ma da
tempo avanzo l’ipotesi che una più intensa interazione con l’evoluzione del
pensiero scientifico e la scoperta di una interpretazione della realtà naturale
e sociale non più inchiodata al meccanicismo e all’economicismo, contribuirebbe
a liberarci dalla “paura della paura” e,
quindi, fornirebbe anche la politica di una cassetta degli attrezzi e di un
metodo per programmare un futuro più desiderabile.
Prima di esaminare
casi concreti, ancora una breve
premessa, utile al resto del ragionamento per attribuirgli un certo
rigore e non introdurre metafore con il sapore della fantascienza, E utile
soprattutto per confermare la distanza tra i nuovi concetti e il punto di vista
comune.
Lo stupefacente
superamento del presente come attimo deriva dal fatto che, dopo Einstein, a
ogni evento con una propria accelerazione e velocità non si accompagnerà mai
più un tempo assoluto, perchè quell’evento si compie solo nelle quattro
dimensioni indistinguibili dello spazio-tempo, che si incurva tanto più quanto
più si è in presenza di una concentrazione di massa e di energia. A seguito di
ciò, per un osservatore a riposo sul suolo terrestre il tempo passa più
velocemente in altitudine e più lentamente in basso, verso il livello del mare;
un oggetto si contrae nella direzione del suo moto al crescere della sua
velocità; se si viaggia ad alta velocità il tempo, misurato da un osservatore a
riposo, passa più lentamente (ci sono cioè due diversi orologi nei due sistemi di riferimento e la velocità relativa ne è responsabile).
Per rimetterci coi piedi per terra, ricordo che per questi motivi ogni sistema GPS montato sulla nostra
auto, comunicando con satelliti collocati in alta quota e oggetti terrestri in
moto relativo, funziona solo perché corregge relativisticamente in automatico i
dati ricevuti: se così non fosse, svoltereste sempre e solo in strade
sbagliate. Infine, la realtà che percepiamo non è detto che corrisponda all’effettività
del mondo fisico che ci circonda, perché la descrizione di un sistema fisico è
la descrizione dell’informazione tratta da un altro sistema fisico ad esso
correlato, che permette all’osservatore di ottenere la misura richiesta solo (come
dimostra Heisenberg, con una intrinseca indeterminazione).
In conclusione,
soprattutto ai fini di queste note, il
tempo non è un continuo che scorre da sé e lungo il quale avvengono gli
eventi, ma va pensato come entità
locale il cui orologio è diverso da quello di un’altra entità locale che si
muove a diversa velocità. Da ultimo, poiché è impossibile conoscere
esattamente il presente le evoluzioni
future non sono predeterminabili con certezza.
Cosa c’entra, ci si
chiederà, tutto ciò con il lavoro, la sua contrattazione, una necessaria
riduzione e la cura della natura e dei beni comuni? Economia è sempre più economia di tempo. Tempo di lavoro o di
consumo necessario o imposto. Ora la nostra concezione del tempo, ma il tempo
stesso, se si può dire così, ha subito una rivoluzione: le possibilità di
comprimerlo e di accelerarlo sono cresciute all’inverosimile, con conseguenze
imprevedibili sul nostro quotidiano che occorre indagare.
Potremmo assumere il
punto di vista per cui la fisica ponga alcuni vincoli invalicabili alla
politica e all’azione sociale quando occorre prendere decisioni soprattutto
nell’ambito del tempo di vita e dello spazio della biosfera. Anche se nel mondo
macroscopico non ce ne accorgiamo quasi, tuttavia il ricorso diffusissimo alle
tecnologie moderne, così sofisticate e attraversate da onde e particelle
ultraveloci, rivela, come vedremo, che i nostri sensi possono essere ingannati.
A fronte di una trasformazione ancora non pienamente metabolizzata, quel che mi
sembra oggi indispensabile è disegnare delle immagini mentali per l’occhio materiale e spirituale. Se può
convincere in anticipo di quanto profondo sia il cambiamento in gioco e in
quale verso corra, si provi a cliccare su You Tube per questo geniale video di
un grande artista come David Bowie, frastornato dalla velocità artificiale con
cui la sua mente deve fare i conti.
AGGIORNIAMO GLI
OROLOGI
Possiamo ricordare
che in tutte le epoche in cui è stato realizzato un profondo cambiamento della
struttura produttiva e sociale, si è determinato anche un cambiamento delle
concezioni dello spazio e del tempo, spesso anticipate come metafore dalla
poesia e dall’arte. In tutti i casi, una riorganizzazione economica e sociale
ha poi costituito l’hardware per sistemi duraturi. Ciò è avvenuto durante tutti
i passaggi di modifica sostanziale dell’ambiente (dalla caccia, all’agricoltura,
all’industria etc.) in cui le cadenze e il territorio vitale assumevano connotati
nuovi a seguito dell’innovazione tecnologica e sociale dovuta alle nuove
scienze e ai nuovi modi di pensare e percepire e il cambiamento storico dei
sistemi energetici e di produzione si è trovato in corrispondenza coi mutamenti
delle relazioni spazio-temporali del lavoro
e della organizzazione della vita
sociale. Ogni cultura e, al suo interno e entro certi limiti, ogni
individuo libero, ha un proprio particolare bagaglio di impronte temporali,
valori e dinamiche che devono fare i conti con i sistemi e i rapporti di
produzione, da sempre condizionati anche dalle macchine, dagli apparati
organizzativi e dalle tecnologie impiegate. Con l’entrata in scena del
comportamento della luce e di distanze e forze prima
irraggiungibili e irriproducibili coi soli nostri sensi e muscoli, siamo di
fronte ad un “salto antropologico” indotto nella sfera culturale e, certo, più
assimilabile al modello neurologico-istantaneo che a quello
meccanico-sequenziale. Si può affermare che la rivoluzione delle scienze post
novecento sia insolitamente radicale e vada ben oltre lo spazio e il tempo che
l’umanità aveva fin qui sperimentato: questo autentico sovvertimento ha il suo
fulcro nella confluenza di spazio e tempo nel loro rapporto universalmente
immutabile: la velocità della luce.
Nell’analizzare a fondo i meccanismi vitali, sociali e mentali e gli effetti su
di essi del mondo artificiale, ci si deve render conto che la stessa chimica,
ma ancor più l’elettricità, la luce, l’elettronica, gli elaboratori che
controllano e scandiscono il tempo di uomini e tutte le apparecchiature con
velocità di calcolo di molti ordini di grandezza superiore a quelli umani, ci
immettono in uno scenario non più
newtoniano.
Si può ormai
affermare che solo la relatività e la
quantistica forniscono le spiegazioni più convincenti per affrontare l’evoluzione
in corso, una volta adattate ai livelli superiori della biologia, della
psicologia, delle neuroscienze Nelle più recenti ricerche si interfacciano ormai le azioni del
cervello con l’esecuzione di programmi del computer. La genetica, come intersezione di informazione e biologia, scopre e
modifica il meccanismo di riproduzione delle cellule. L’assemblaggio attraverso
nanotecnologie e robot
programmabili (una realtà in parte applicata e certamente prevista per le
stampanti 3D), apre spazi insondati alla costruzione di manufatti di estrema
precisione e addirittura ad assemblatori molecolari, in una fantastica
intersezione tra progettazione, informazione e realizzazioni nel mondo fisico e
naturale. L’intelligenza artificiale
è una realtà sempre più assestata, che prelude a forme avanzatissime di
elaborazione del linguaggio e alla creazione di intelligenza non biologica, che
ormai si spinge ai limiti contemplati dalla macchina di Turing, oltre a
intervenire nei processi di progettazione, assemblaggio e consegna dei
prodotti.
La chiave per
riguadagnare una autonomia rispetto al prevalere della tecnocrazia (e questo è
fondamentale per una strategia
sindacale) e cogliere così i processi sottesi agli obiettivi mai esplicitamente
dichiarati, sta, a mio avviso, nel mettere a fuoco il concetto di velocità.
Quando un algoritmo in base ad un modello adatto viene elaborato in una
macchina digitale, viene eseguito a velocità
di vari ordini di grandezza superiori rispetto a quella a cui funzionano le
connessioni nella mente umana. Inoltre, i computer possono condividere le loro “conoscenze”
con rapidità assai maggiori rispetto a quella con cui comunica il linguaggio
umano. In concreto, i primi commutano segnali elettronici a velocità dell’ordine
di quella della luce (300 milioni di metri al secondo), mentre i segnali
elettrochimici del nostro cervello viaggiano a circa 100 metri al secondo
(anche se gli stimoli psicofisici che presiedono alle emozioni corrono tremila
volte più veloci del pensiero razionale). Un fattore 3.106 per l’elaborazione (e 103
rispettivamente per le reazioni emotive) differenzia la velocità della
macchina rispetto a quella dell’uomo. Per trarre dai confronti tra le velocità
relative una prima conclusione, portiamo a paragone anche le velocità muscolari
e quelle delle macchine in moto sulla terra: i nostri movimenti arrivano fino a
poco più di 10 metri
al secondo (la corsa di Usain Bolt) ed un’auto veloce arriva fino a 90 metri al secondo (una
Formula 1). Ne segue che il cervello umano può agevolmente controllare l’attività
muscolare e quella meccanica (un bravo pilota porta al traguardo la sua
vettura), ma non può competere con la
rapidità di controllo che un computer può esercitare su un qualsiasi
apparato biologico o meccanico, anche se il vantaggio del cervello rimane
quello di consumare poco e, soprattutto, di svolgere operazioni di cui si rende
cosciente. Ogni donna e uomo può pensare, intuire, progettare, sognare e
comunicare attraverso la propria facoltà cognitiva. Lo può fare, ma in tempi
relativamente lunghi, mentre se sa copiare e trasferire qualsiasi attività
cognitiva nel linguaggio di una macchina elettronica, quest’ultima è in grado
di riprodurre le operazioni mentali più e più volte in un baleno. In
conclusione, esiste una gerarchia di
velocità e di potenza di
calcolo da quando sono state inventate le macchine elaboratrici tra loro
interconnesse in rete, che, per quanto riguarda il controllo di dispositivi
meccanici, di movimenti e di attività dei viventi, superano di gran lunga in
rapidità le potenzialità fino a prima riservate al cervello umano, che agisce
come spettatore a valle di un progetto pensato a monte. La questione ha grande
rilevanza nei processi lavorativi e in quelli della comunicazione e in tutte le
forme di automazione che si interfacciano con la persona, lavoratore o
consumatore che sia.
Il problema tocca
tutta la vita di relazione, ben oltre la produzione, i servizi, il consumo.
Quando, come avviene oggi, dobbiamo prendere in considerazione l’essere umano
ormai “protesizzato” completamente e integrato nei propri strumenti che
elaborano e si collegano a velocità prossime a quelle della luce, o la “civiltà
di macchine intelligenti” o la manipolazione genetica delle specie, ci dobbiamo
attrezzare per poter consapevolmente affrontare una incessante compressione del tempo biologico operata
artificialmente, che andrebbe regolata da un’etica condivisa e da una democrazia che non si consuma alla
velocità della luce. E’ indispensabile cioè mantenere una prospettiva di
società che necessita di un tempo umano e che non è certo predeterminata dall’accanimento
dei tecnocrati. Quando constatiamo che lo sforzo più impegnativo dei governi
sta nel potenziare l’impiego delle armi, costruire muri e tollerare crimini
contro l’immigrazione, accettare il dilagare della povertà e sottovalutare il
cambiamento climatico, capiamo che stanno sempliceente perpetuano un mondo e
una società strutturata anche attraverso la velocità in divisioni invalicabili.
Ma… per quanto tempo ancora?
RIAPPROPRIARSI DEL
TEMPO
Nel Novecento, l’ultimo
secolo del secondo millennio, il socialismo ha mancato il suo obiettivo più
ambizioso: un tempo libero dalle costrizioni del consumo, del mercato e delle
macchine. Nella sua presunta oggettività, oggi come ieri, la scansione dei
secondi e delle ore degli orologi registra (come in un campo di battaglia)
furti e appropriazioni di tempi. Ho scritto orologi al plurale perché con la
digitalizzazione siamo spesso di fronte a sistemi che funzionano a velocità
relative talmente diverse dall’orologio biologico da far intervenire la legge
della relatività.
Questa contesa con
tutti i connotati di classe a noi noti, può sfuggire nelle sue proporzioni, se
non si coglie che, in particolare negli ultimi quarant’anni le
telecomunicazioni, la digitalizzazione, l’accesso alle banche dati, la rapidità
di interconnessione e di elaborazione hanno accentuato la possibilità di espropriazione del tempo per alcuni e del
suo possesso per altri. Senza una piena comprensione qualitativa e
quantitativa del “furto di tempo” il valore sociale del lavoro (operaio ma non
solo) perde il potere di riscatto civile e di equa redistribuzione che aveva
conquistato. Anche i tempi di vita, di ozio, di apprendimento sono oggetti di
esproprio, al punto che il riscatto del “tempo
proprio” rappresenta forse l’esigenza primaria dell’esistenza ai giorni
nostri. Si tratta allora di denunciare con tutta l’autonomia necessaria la
colonizzazione del tempo come punto di emersione dei conflitti più abilmente
mascherati. Di fatto, possedere e dominare il tempo (lavoro e ozio, orario
vincolato e tempo libero) così come una volta possedere e dominare lo spazio,
corrispondono, nel senso comune, a una manifestazione di successo e di
supremazia politica e sociale, mentre subire un imponente meccanismo di
controllo e sequestro del tempo (saturato, accelerato, compresso, spiato,
sprecato, ormai al di fuori di qualsiasi forma di negoziato) fa parte dell’affermazione
di uno stile di vita imposto e passivamente accettato, contraddistinto dal
consumo e dallo spreco.
Un’azione è data dal
prodotto di un’energia per un tempo. Se il tempo viene artificialmente saturato
perché un dispositivo riempie le pause biologiche di un dipendente, nel tempo
del lavoratore si compiono una grande quantità di operazioni del dispositivo: l’applicazione
è muscolare, mentale, cognitiva, reattiva, diremmo incessante, ma non è
assolutamente retribuita come tale Oggi, il
sistema d’impresa punta soprattutto a saturare con il massimo di
operazioni il tempo retribuito; a non pagare il tempo di attenzione richiesto
tra un’operazione e l’altra e a allungare di fatto la prestazione lavorativa in
base ad una reperibilità incessante. Addirittura, può riservarsi il potere,
riconosciuto per legge dopo il varo del Jobs Act, di annullare o sospendere a
comando il tempo di lavoro dei suoi salariati. La strategia d’impresa consiste
nel massimizzare tempo ed energia sotto il profilo economico a lei utile, e non
restituendo né al lavoro né alla natura l’accumulo del loro sfruttamento. La natura, al contrario, sceglie, tra i
vari concepibili modi di realizzare le sue azioni la traiettoria più economica
dal suo punto di vista, che è quella della minimizzazione dell’energia.
Avvengono così delle scissioni irreparabili tra mondo artificiale e naturale,
tra tempo fisico e tempo biologico, tra tempo produttivo e tempo proprio e viene infranta
definitivamente l’armonia tra tempo del mondo, tempo di vita e tempo di lavoro.
La globalizzazione liberista e la accentuata finanziarizzazione dell’economia
producono una irrecuperabile distruzione della biosfera e, contemporaneamente,
iniquità sociale.
Riappropriarsi del
tempo ha anche una componente di genere che va liberata dall’assetto attuale di
potere maschile, per ricondurla al ragionamento generale fatto sopra. Sono da
combattere le pratiche sociali ed economiche, le istituzioni e i sistemi
culturali o religiosi che sostengono o applicano la discriminazione della
donna. Sono passibili di sanzioni tutte le forme di dominio maschile e in
particolare le differenze di entrate economico-salariali e il non
riconoscimento del lavoro domestico intra-familiare legato alla riproduzione
della vita.
Il mutare del sistema
di produzione, delle tecnologie e dei rapporti di classe ha rivoluzionato il
tempo dei salariati, creando le condizioni di un irrazionale eccesso di
capacità trasformativa da parte del lavoro e accelerando così il degrado
(entropia) del mondo naturale (materie prime) e quella crisi da
sovrapproduzione che è una delle cause principali della crisi attuale. Occorre
perciò convincersi che non siamo più soltanto di fronte ad un tradizionale
conflitto tra capitale e lavoro. L’enorme “dividendo” che si ottiene a spese
della natura e del lavoro nella nuova organizzazione su scala temporale e
spaziale della produzione, deve essere dal capitale restituito alla natura conservando l’ambiente e distribuito tra i lavoratori con la riduzione generalizzata e politicamente
sostenuta dell’orario di lavoro.
NUOVA MANIFATTURA E
ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO (4.0?)
In ogni settore le
aziende utilizzano ormai l’Intelligenza Artificiale (IA) per ottimizzare la
logistica (il primo contratto della Ascent è stato redatto per la logistica di
Desert Storm in Iraq), valutare la correttezza delle transazioni con i clienti,
(il NASDAQ controlla così gli insider trading), fare valutazioni di mercato
(Wal-MArt rifornisce le scorte in base alle tendenze manifestate in tempo reale
dai consumatori). I sistemi esperti di AI anticipano in tempo reale le
soluzioni migliori per l’impresa, anche apprendendo iterativamente dal passato.
Nelle linee e nei reparti di produzione, poi, l’impiego di robot che
interagiscono con gli umani è in evoluzione, mentre nella manifattura entrano
di prepotenza le stampanti 3D.
Vediamo di che cosa
si tratta e quali ripercussioni si avranno sull’organizzazione e sul mercato del lavoro. Sono in corso due grandi trasformazioni che li
riguardano da vicino: in primo luogo l’implementazione di sistemi di
intelligenza artificiale applicati alla robotica e, in secondo luogo, la
conferma delle possibilità delle nanotecnologie, che permettono un grande
sviluppo di “assemblatori” programmati (le attuali stampanti 3D) consentendo
evoluzioni che fino ad un decennio fa erano impensabili.
Per IA si
intende l’abilità di un computer di svolgere funzioni e ragionamenti
tipici della mente umana. E’ in corso un dibattito sulle potenzialità
aperte per far compiere ai computer azioni in cui, al momento, gli esseri umani
sono più performanti. Le macchine possono condividere tra loro conoscenze: noi
d’altra parte abbiamo bisogno del linguaggio che è estremamente più lento.
Poiché le macchine sono più rapide degli individui nell’aggregare e connettere
le loro risorse, se la conoscenza, come sta avvenendo, migra sul web, le
macchine interconnesse accrescono enormemente la loro capacità di leggere,
ricercare e comprendere le informazioni.
I robot in simbiosi con la IA sono sempre più impiegati
nei processi di produzione. L’ultima generazione usa sistemi di visione
flessibile, che rispondono anche a condizioni variabili. La visione delle
macchine migliora la capacità dei robot di interagire con esseri umani,
mantenendo un contatto visivo diretto. E’ ormai notizia di tutti i giorni l’imminente
circolazione di veicoli guidati senza intervento umano. Per la gestione dei
processi manifatturieri e la gestione dell’organizzazione del lavoro vengono
impiegati in coordinazione robot evoluti e sistemi esperti, che comportano lo sviluppo di regole logiche
specifiche per simulare i processi decisionali degli esperti umani, anche se va
ricordato che gli umani non si basano solo su decisioni logiche, ma anche sulle
loro esperienze precedenti. E’ per questa ragione che questi sistemi sono
progettati per apprendere, “si fanno un’esperienza” sulla base dello scambio
delle pratiche migliori e l’eliminazione degli insuccessi.
A livello superiore
ai capannoni di produzione, il CIM
(Computer Integrated Manufacturing) impiega sempre più spesso tecniche di IA
per ottimizzare l’uso di risorse, logistiche, just in time. La conoscenza viene
codificata in paradigmi di soluzioni preparate da tecnici. Successivamente gli
archetipi vengono corretti via via in base a nuovi casi dell’esperienza reale.
Passando al processo
manifatturiero di produzione di opzioni personalizzate e su richiesta ci si
appresta in un futuro non tanto lontano a utilizzare assemblatori molecolari (l’evoluzione
delle stampanti 3D) e a “fare cose a livello atomico: metti gli atomi dove dice
il chimico e crei la sostanza” (Feymann). Eric Drexel, il ricercatore di
riferimento in questo campo, teorizza un assemblatore molecolare per realizzare
strutture stabili: addirittura un computer funzionante.
Quella che si chiama nanotecnologia promette un po’
precocemente nientemeno che gli strumenti per ricostruire il mondo fisico un
frammento molecolare dopo l’altro. Si ridurrebbero così le dimensioni spaziali
della tecnologia a velocità esponenziali. A questo ritmo, le dimensioni chiave
per la maggior parte delle tecnologie elettroniche e meccaniche entrerebbero in
qualche decina di anni nell’ordine delle nanotecnologie. L’energia poi potrebbe
essere fornita in forma di elettricità o in forma chimica. In pratica, si
costituirebbero unità da scrivania che possono produrre qualsiasi oggetto
progettabile. Inizialmente di piccole dimensioni e poi, a vari stadi di
assemblaggio sempre più grande. “Internet
delle cose”, provvederà a far sì, per esempio, che i sensori non abbiano
bisogno di batterie o si avvalgano di energia di scarto prodotta da calore e
vibrazioni.
Il costo reale di
questi processi di inaudita portata, ove fossero realizzati su vasta scala e in
forme stabili e ingegnerizzabili, non è tanto nell’investimento o nel consumo
di materie prime e energia, quanto nel
valore dell’informazione che descrive ciascuna tipologia di prodotto da
realizzare (abito, componente meccanico, organo artificiale etc.). Addirittura,
si pensa che in un futuro assai prossimo i prototipi potrebbero essere di norma
scannerizzati e tradotti in software operativo. Il valore allora della
produzione entrerebbe sostanzialmente nel campo dell’informazione.
C’è da chiedersi cosa
sia avvenuto già oggi quasi a nostra insaputa dell’organizzazione delle imprese e di quella del lavoro e in
quale direzione si stia andando. Per il presente è significativo come le
aspettative riguardo il dominio della nuova tecnologia spingano il padronato a
relazioni sindacali che escludono la contrattazione e prevedano la messa totale
a disposizione della forza lavoro, una volta concepito e realizzato un
investimento. Il caso Marchionne-Fiat-Chrysler è emblematico: tempi, carichi,
ritmi, saturazioni, interventi robotizzati, sono studiati a tavolino e imposti
con la complicità dei governi che si fanno poi vanto della destinazione di un
impianto in una località di loro competenza, costi quel che costa. Per questa
via le strategie delle aziende vengono sottratte definitivamente alla
partecipazione dei lavoratori organizzati: i sistemi esperti condizionano i
programmi e i bilanci previsionali, che non sono quasi mai notificati
pubblicamente. Il tempo della produzione è ormai già tutto nelle mani delle
direzioni aziendali e il diritto al lavoro è confuso con la disponibilità e una
progressiva alienazione che, a dispetto della fatica fisica, era sconosciuta
nel secolo scorso. Impressiona la sproporzione tra l’accesso delle imprese a
strumenti esclusivi sul terreno dell’informazione e della sua elaborazione e la
possibilità di intervento autonomo da parte dell’organizzazione dei lavoratori. Semplificando, si potrebbe
affermare che l’impresa adotta il modello neurale, mentre il sindacato rimane
inchiodato anche nelle sue rivendicazioni a quello meccanico-muscolare dell’organizzazione
del lavoro taylorista e che il sistema [AI, robot, nanotecnologie] si orienta
ad agire come un despota che decide in quali ordini di tempo e spazio condurre
il gioco delle relazioni industriali e sindacali.
Per l’oggi e ancor
più per il futuro, lo scenario su cui vogliamo porre l’attenzione è quello che
incrocia ancora una volta tempo e spazio nella concezione di cui si è
impadronita la scienza più attuale ma che rimane estranea alle congetture su
cui si difende il sindacato mentre la politica si esercita come ancella dell’economia.
La manifattura futura potrebbe comprimere
a tal punto lo spazio e il tempo della
fabbrica, da portarlo a dimensioni accessibili più agli algoritmi ai
robot e alle operazioni degli elaboratori pre-programmati che all’intervento
dall’esterno di qualsiasi antagonista che agisca in autonomia. Anche la
manifattura, quindi, sta dirigendosi verso la dimensione astratta, superveloce
e di difficile controllo in cui si è già situata la finanza. Ma a non essere
cambiate sono le forme e le norme di organizzazione e di funzionamento del
sistema, basate sempre sulla suddivisione e l’individualizzazione del lavoro e
poi sulla sua ricomposizione/totalizzazione in qualcosa che per il “padrone” (usato
etimologicamente) deve essere sempre maggiore della semplice somma delle parti
prima suddivise e separate. Se ieri, nel fordismo era necessario concentrare
migliaia di lavoratori all’interno di luoghi chiusi come appunto le grandi
fabbriche perché il mezzo di connessione/totalizzazione delle parti suddivise
del lavoro era necessariamente fisico e presupponeva uno spazio concentrato e
concentrante (questo permetteva l’efficienza produttiva di allora), oggi il
mezzo di connessione, ovvero la rete, permette di scomporre e di
individualizzare n volte di più la forma e la norma di organizzazione e di
farla esplodere in lavori (e in lavoratori) disconnessi da un luogo fisico (la
fabbrica) ma connessi in un luogo virtuale come appunto la rete. E, nel
contempo, si risparmia lavoro e si saturano i tempi, possibilmente 24 ore su 24
e 7 giorni su sette.
Giunti a questo punto
c’è tuttavia da chiedersi se sia socialmente e economicamente compatibile una
elevata sostituzione del lavoro con intelligenza artificiale, macchine
autoreplicanti e robot. Lo spostamento dell’intervento umano solo verso la
progettazione, gli automatismi, lo sviluppo della robotica e dei sistemi
esperti, che dilagano già oggi anche verso professioni intellettuali autonome,
agiscono tutti come risparmiatori di forza lavoro. E mentre per il vecchio
paradigma l’innovazione produceva disoccupazione nell’immediato, che veniva
compensata in seguito da nuovi domini produttivi, c’è da chiedersi se questo
sarà ancora vero in futuro. Se non lo fosse, le alternative verso cui
scivoleremmo malauguratamente sarebbero due: o la maggioranza dell’umanità
diventerà (per semplificare) progettista, oppure non avrà i mezzi per vivere (e
per comprare). Uno scenario possibile sarebbe quello di una impossibile
alleanza tra superesperti e possidenti e tutto il resto della società ridotta a
mestieri serventi e sottopagati, (scomparsa della middle class); oppure, ancora
(ma servirebbe un governo mondiale) il salario universale di cittadinanza,
alimentato dal surplus dei nuovi schiavi robotici. In entrambi i casi solo una
parità di rappresentanza potrebbe ribaltare la china ridando attraverso il
potere elettorale e rappresentativo quella sovranità ormai confiscata in
rapporti di forza. Va detto infine che, ancor prima di prospettare scenari che
potrebbero apparire da fantascienza, non reggerebbe il bilancio economico di
una società siffatta. Immaginiamo migliaia di robot che lavorano in una
fabbrica e un esiguo numero di lavoratori che li controllano. I robot avranno una vita assai più breve dei
lavoratori e, quindi, nella competizione capitalistica, andranno
continuamente sostituiti con costi di ammortamento annuo e reinvestimenti
enormi. Sarebbero minimi gli occupati, mentre l’utile netto sarebbe basso e
finiremmo col vivere in un mondo pieno di macchine complicate con tantissimi
disoccupati, senza reddito e possibilità di consumo. E dato che solo il lavoro
e la natura producono “nuovo valore” e ben pochi lavoratori sarebbero occupati
e le risorse esaurite, anche il “nuovo valore” sarebbe assai basso e non ci
sarebbe sufficiente plusvalore da ridistribuire. Di che cosa si occuperebbe allora la politica se la maggioranza
della popolazione sarà privata della propria capacità lavorativa, cioè
espropriata dal lavoro?
Certamente l’intuizione
di immergere la realtà, tutta, in un ambiente spazio-temporale e in relazioni
di materia ed energia che non sono puro contorno, ma si impastano con la realtà stessa, non basta a mostrarci la
necessità di un diverso modello di sviluppo globale e di un assetto di potere
meno protervo. Ma se continuiamo a immaginare la realtà e il suo evolversi come
un inesorabile prolungamento del presente, non entreremo mai in sintonia con
quelle stesse leggi della natura che impieghiamo per creare le protesi
artificiali e tecnologiche di cui ci circondiamo e da cui diventiamo dipendenti
senza prenderne adeguatamente coscienza. Rettificare e riallineare il bagaglio
di conoscenze su cui ragionare, aiuta ad approfondire le fratture del nostro
tempo.
LA NECESSITA’ DELLA RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO
L’espropriazione del
tempo è una condotta di classe che non ha confini. Ripristinare l’autonomia
individuale e collettiva sul proprio tempo caratterizzerebbe i diritti civili e
sociali in una società liberata. Non si tratta solo di quantità di ore della
giornata e della vita, ma della qualità sociale che assumerebbe l’intero arco
della esistenza e dell’attività di riproduzione, produzione, ozio e consumo. I tempi che sperimentiamo hanno una
componente relativa e soggettiva che dipende dall’intensità dei ritmi, dalla
velocità con cui si accumulano esperienze, dal riconoscimento ottenuto nell’ambiente
sociale di riferimento. Tuttavia le tecnologie in uso, basate sull’elettronica
e la digitalizzazione, uniformano le cadenze e i ritmi delle esistenze in base
a velocità artificialmente determinate. E’ possibile ribadire la priorità del tempo biologico e di quello dei cicli della
biosfera su quello della produzione e del consumo regolato dagli orologi
digitali? Sarebbe di per sé una straordinaria conquista culturale da portare a
compimento. Basterebbero tre ore di
lavoro e tre ore di studio per educare al controllo democratico in
dimensione storica della direzione e delle ricadute delle trasformazioni
scientifiche tecnologiche culturali in corso.
Con il progredire
dell’automazione flessibile e l’invasione di piattaforme software di progettazione
e comunicazione ormai adattabili a qualsiasi utilizzo e installabili su
qualsiasi terminale (anche lo smartphone del dipendente!) l’organizzazione
sindacale e una politica rappresentativa del lavoro dovranno affrontare un
aspetto che va oltre il tradizionale contrasto tra produttori. Ci troveremo
presto di fronte all’alienazione
della maggioranza della popolazione, la quale sarà privata della propria
capacità lavorativa, cioè espropriata dal lavoro, trasferito in procedure e
conoscenze codificate e eseguito con velocità e ritmi biologicamente
insostenibili. E’ per questo che con la massima urgenza si deve ripensare radicalmente il lavoro, scegliendo
la via della cooperazione e dell’integrazione tra componente manuale e
intellettuale, dando accesso alla formazione di base non di meno che alla
formazione specialistica, rendendo trasparenti i processi e mettendo a
disposizione della contrattazione collettiva (parliamo del contratto nazionale
di lavoro!) la scelta degli algoritmi e delle piattaforme software di cui la
prestazione del lavoratore si deve avvalere. Non sembri una fuga in avanti: già
oggi il risparmio di lavoro e la sua sempre maggiore subordinazione avvengono
passando dalla comunicazione interna via mail, dal ricorso ad “App”
appositamente destinate, dalla presa d’atto dell’avanzamento della produzione
su terminali condivisi. Le innovazioni nel flusso delle decisioni e nell’organizzazione
del lavoro sono basate su sistemi elettronico-neuronali,
con il posizionamento di elaboratori e
robot lungo la filiera di produzione, con l’impiego di telecamere,
fotocellule e sensori che funzionano a velocità non troppo lontane da quelle
della luce. Essi si estendono sempre più al di fuori del luogo di produzione
tradizionale attraverso la sintonizzazione e la sincronizzazione permanente
delle reti di produzione e consumo in tempo reale. Si sta strutturando così
negli intenti del datore di lavoro un “tempo
della prestazione” che non appare nel quadrante dell’orologio appeso
alla parete, che non può essere misurato solo in durata di secondi minuti o
ore. Emerge dunque una voluta discrepanza con l’unità di misura tempo-orario
utilizzata per il salario e la contrattazione. E’ come se, attraverso l’apparato
tecnologico appositamente progettato, venisse creato del tempo in più donato
all’azienda che ha introdotto a questo fine l’apparecchiatura artificiale:
tempo non riconosciuto in alcun modo al lavoratore. Usando il paradosso dei
gemelli di Einstein, potremmo dire che se l’addetto a un computer dovesse
elaborare coi suoi tempi le stesse operazioni che un computer elabora in un
minuto, si troverebbe di parecchi anni più vecchio. Per quel tempo il sindacato una volta dei ritmi, dei cottimi, non
contratta più. C’è solo da ridurre le ore giornaliere, settimanali, annue
contrattualizzate. Altro che superamento dell’orario di lavoro come proclamano
in sintonia il ministro Poletti e il segretario della FIM Bentivogli!
Se non si riparte da
una revisione del tempo retribuito, dando per scontata una saturazione
inimmaginabile prima d’ora e non si rivendica la riduzione dell’orario di
lavoro per poter fare altro,
non sarà mai possibile redistribuire i guadagni di produttività accaparrati
esclusivamente dall’impresa e tanto meno rifinalizzare all’ambiente e alla
società l’eccesso di capacità trasformativa che è oggi indirizzata
esclusivamente verso il massimo profitto, l’eccesso di consumo e lo spreco.
CONCLUSIONI
Il neoliberismo come
fenomeno mondiale combatte il riconoscimento di una soggettività politica al
lavoro sfruttato e alla natura degradata, depotenzia l’autonomia che andrebbe
riconosciuta alle loro rappresentanze e offusca le loro identità con una
torsione imposta ai media, mentre il governo dell’innovazione tecnologica punta
a ridurre anziché allargare le forme legittime di partecipazione. Questi
processi hanno una radice comune nel sequestro di tempo ottenuto anche
attraverso l’incontrollabilità della velocità relativa dei dispositivi
impiegati e nella privatizzazione dei dati resi disponibili dall’attività sociale
che viene registrata dalla rete.
Ricavare
esclusivamente valore economico dal
tempo e dalle conoscenze condivise è la peggiore illusione su cui ci si
può incamminare. Significherebbe una continua compressione del tempo, l’offuscamento
della memoria, l’inseguimento del presente, nessuna strategia per un futuro che
si annuncia drammatico, una rimozione della democrazia come processo che
richiede tutta la durata della partecipazione attiva.
Riappropriarsi del
tempo, ridurre drasticamente l’orario, ricontrattare l’organizzazione del
lavoro e le piattaforme e gli algoritmi in uso nella rete, utilizzare parte del
tempo libero reso disponibile dalla tecnologia per estendere la conoscenza
generale e la consapevolezza delle implicazioni delle nuove tecnologie: mi
sembra questa una possibile indicazione. Senza un supporto culturale adeguato e
una padronanza dei meccanismi che si utilizzano, si diventa individui isolati, informaticamente atomizzati e,
purtuttavia, connessi alle catene di produzione e di consumo, senza distinzione
di orario e senza il privilegio di un tempo consapevolmente liberato. Si
finisce con l’essere incessantemente al lavoro e, contemporaneamente, con l’essere
più o meno inconsapevolmente fornitori di informazioni e dati sensibili. Si
diventa e rimane (al lavoro, al consumo e nella vita sociale) connessi ma lontani.
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From: Posta
Resistenze posta@resistenze.org
To:
Sent: Thursday, June 30, 2016
2:51 AM
Subject: ARCHIVIATO. L’OBBLIGATORIETA’
DELL’AZIONE PENALE IN VALSUSA
Martedì 5 luglio 2016, alle ore 20.30, presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino, via Magenta, 31, verrà proiettato il documentario: “ARCHIVIATO. L’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa”, con il patrocinio di:
-
Controsservatorio Valsusa;
-
Antigone - Per i diritti e le garanzie del sistema penale;
-
A buon diritto - Associazione per le libertà;
-
Associazione Nazionale Giuristi Democratici;
-
L’altro diritto - Centro di documentazione su carcere, devianza e
marginalità.
Il video,
che ha fruito della collaborazione, tra gli altri, di Elio Germano come voce
narrante, nasce dall’esigenza di raccontare uno dei molteplici risvolti
giudiziari legati alla lotta popolare valsusina.
Come in
tutte le aree di acuito conflitto sociale la contrapposizione, e a volte lo
scontro fisico, tra coloro che protestano e le forze dell’ordine determina l’intervento
dell’Autorità Giudiziaria chiamata a perseguire gli autori di condotte violente
o comunque illecite da chiunque agite, manifestanti o agenti di polizia.
L’articolo
112 della Costituzione sancisce che “il
Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”: ciò
significa che la Procura
è tenuta a indagare su ogni notizia di reato venga denunciata o giunga alla sua
attenzione e che ha poi il dovere di chiedere al Giudice di verificarne, in un
pubblico processo, la fondatezza.
Tale
principio è posto a garanzia dell’uguaglianza dei cittadini e ha lo scopo
dichiarato di eliminare ogni possibile valutazione discrezionale del Pubblico
Ministero sulle notizie di reato che pervengono alla Procura della Repubblica.
Naturalmente
tale imprescindibile obbligo trova un ovvio e giustificato temperamento nella
possibilità del Pubblico Ministero di richiedere l’archiviazione di un procedimento
penale tutte le volte in cui le indagini che ha svolto abbiano accertato l’infondatezza
della notizia di reato o l’impossibilità oggettiva di attribuirla ad un autore.
L’idea del
filmato nasce dalla constatazione di come gli illeciti commessi da agenti e
funzionari di pubblica sicurezza ai danni di manifestanti o fermati, ampiamente
documentati dai media, non determinino i medesimi esiti giudiziari di quelli
commessi dai manifestanti.
Nel
contenuto, ma emblematico contesto valsusino tale discrasia assume caratteri
macroscopici: centinaia di denunce e procedimenti penali avviati nei confronti
di attivisti e simpatizzanti del Movimento No TAV, anche e soprattutto per
reati bagatellari, trovano immancabile sbocco in processi e sentenze, mentre le
decine di querele, denunce ed esposti per gli abusi compiuti dalle forze dell’ordine,
anche gravemente lesivi dei diritti e dell’incolumità dei manifestanti, non
sono mai giunti al vaglio di un processo.
Il
documentario “ARCHIVIATO. L’obbligatorietà
dell’azione penale in Valsusa” affronta dunque il delicato tema della
tutela giudiziaria delle persone offese dai reati commessi dagli agenti e dai
funzionari appartenenti alle varie forze dell’ordine e per farlo si avvale di
immagini e documenti, per lo più inediti.
Il filmato,
all’inevitabile e drammatica rappresentazione delle violenze subite dai
manifestanti nel corso delle operazioni di ordine pubblico condotte dalla
polizia in Valsusa, fa seguire la narrazione del successivo iter processuale
sino al suo disarmante e preoccupante epilogo.
Il trailer
del documentario è visibile al link:
Pagina
Facebook:
ARCHIVIATO. L’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa
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From: CUB
Sanità Firenze cubsanita.firenze@libero.it
To:
Sent:
Thursday, June 30, 2016 11:28 PM
Subject: IL
LAVORO NELLE RESIDENZE PER ANZIANI
Trasmettiamo a seguire il contenuto
di un numero speciale del nostro giornalino dedicato alla situazione degli
anziani e dei lavoratori nelle Residenze per anziani.
RESIDENZE SANITARIE ASSISTENZIALI (RSA): QUALITA’ DEL LAVORO E QUALITA’ DELLE CURE NEI SERVIZI ASSISTENZIALI PER
ANZIANI
...E VISSERO PER SEMPRE ANZIANI E MALATI
L’Agenzia europea per l’ambiente
ha recentemente attribuito all’Italia il record delle morti premature per
inquinamento (84.400 decessi su un totale di 491.000 a livello
europeo) senza che questo dato incida minimamente sulle scelte delle
amministrazioni che continuano a progettare grandi opere, dannose, inutili e
costose come inceneritori, TAV, ecc. .
Per la prima volta, in
Italia, l’aspettativa di vita sta calando ma ormai sappiamo che l’aspettativa
di una vita sana in Italia negli ultimi anni si è dimezzata. In continuo
aumento sono le malattie croniche. Un dato spaventoso dovuto a molte cause: l’ambiente,
l’alimentazione, lo stress, le nuove povertà.
Gli italiani si ammalano
sempre prima e vanno in pensione sempre dopo. Dal luogo di lavoro si finisce
direttamente in una stanza di ospedale o in ospizio, se non si muore prima.
Nel contempo il diritto
alla cura viene sempre più messo in discussione dalle politiche europee e del governo
italiano: la percentuale dei cittadini che rinunciano a curarsi è passata in 1
anno dal 26% al 41% (Censis), ma è ancora sulla sanità e sul sociale che
continuano ad agire i tagli del governo, facendo gravare sempre più i costi e
il peso dell’assistenza di chi si ammala sui lavoratori e sulle famiglie.
MA COM’E’ LA VITA
DEGLI ANZIANI E DELLE PERSONE NON AUTOSUFFICIENTI?
In Italia ci sono 4,1
milioni di cittadini non autosufficienti di cui 3,5 milioni anziani (indagine
AUSER).
L’offerta di strutture è
sottodimensionata: solo il 2% di anziani che ne hanno necessità è ricoverato in
RSA, solo il 3,6% è curato a domicilio. La media europea è molto più alta, con
il 5% di anziani che sono ricoverati in RSA e il 7% curati a domicilio.
Com’è allora possibile che
ci siano posti vuoti in RSA?
L’accesso ai servizi
alla persona passa da procedure di valutazione del bisogno effettuate da una commissione
della ASL l’Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM) che attribuisce un punteggio
alla persona affetta da non autosufficienza. Il punteggio deriva dalla
condizione di salute e dalla presenza di rete familiare o amicale di supporto
alla persona, dalle condizioni dell’alloggio ecc. ma non dipende dall’l’Indicatore
della Situazione Economica Equivalente (ISEE); la UVM deve stabilire il Percorso Assistenziale
Personalizzato (PAP) deve cioè decidere sulla permanenza al domicilio con
assistenza, o il ricovero in Centro Diurno o il ricovero in RSA.
Accade sempre più di
frequente che anche con il punteggio massimo il PAP non preveda il ricovero in
RSA e la famiglia deve arrangiarsi. In altri casi il PAP prevede il ricovero in
RSA, che per legge deve avvenire entro 60 giorni, ma, spesso, i servizi non ci
sono quindi la persona entra in lista d’attesa e solo davanti alle difficoltà
che eventualmente la famiglia manifesta si può ottenere un ricovero di
sollievo, per almeno due mesi. Questo significa che i familiari si cercano una
struttura, inseriscono la persona e ottengono la quota sanitaria per i mesi
previsti dal ricovero di sollievo, al termine dei quali però devono pagare l’intero
costo della retta o riportare a casa il familiare.
La motivazione ufficiale
della lista d’attesa è che non ci sono posti liberi, ma visto che privatamente
o con il ricovero di sollievo i posti si trovano, è legittimo ipotizzare che il
mancato ricovero avvenga per non erogare la quota sanitaria da parte della ASL.
Tutto questo in violazione di norme
regionali e nazionali a cui si aggiungono informazioni parziali e
talvolta reticenti da parte dei servizi, per cui il cittadino non è in grado di
far valere i propri diritti.
Non meno accidentato è
il percorso delle persone con patologie psichiatriche, alle quali viene disconosciuta
la patologia psichiatrica al compimento dei 65 anni, come dire che a 65 anni
una persona con patologia psichiatrica non è più malata ma solo anziana non
autosufficiente. Non esiste legge, né regionale né nazionale, che legittimi
queste procedure della sanità toscana, di cui però abbiamo ripetute
testimonianze. L’informazione relativa ai propri diritti è quindi la prima
forma di autodifesa; sarebbe buona cosa che gli operatori e gli assistenti
sociali non accettassero di essere strumento di disinformazione e di violazione
del diritto dei cittadini, forse si risparmierebbero anche molte frustrazioni e
condizioni di burn out.
Ma le risorse sono
davvero così limitate? Recentemente è emerso con la delibera 405 della regione
Toscana, che 5 milioni di euro destinati alla non autosufficienza non sono
stati spesi.
(Per ulteriori
informazioni rimandiamo alla associazione ADINA)
I LAVORATORI DELLE RSA
Le strutture per
anziani, disabili, malati cronici, pazienti psichiatrici... sono state negli
anni progressivamente esternalizzate, affidandone la gestione a privati o a
Cooperative sociali. Anche quest’ultime negli anni hanno perso sempre più lo
scopo mutualistico previsto dall’articolo 45 della costituzione, per diventare
strumento di compressione dei costi imposti dagli enti pubblici.
Nelle RSA molti
lavoratori sono immigrati, sotto perenne ricatto di perdere il permesso di soggiorno
se perdono il lavoro e sono donne, perché è ancora alle donne che si affidano
anche nel lavoro i maggiori compiti di assistenza.
Molti sono i contratti
applicati: dal contratto UNEBA ANASTE per le RSA private, al Contratto delle
Cooperative Sociali nelle RSA in appalto, al contratto AGIDAE nelle RSA a
gestione religiosa. Comunque tutti questi contratti sono caratterizzati da
salari minimi, lontani da quelli dei dipendenti pubblici che svolgono le stesse
mansioni. C’è anche un largo uso dei contratti a tempo determinato.
Inoltre, a ogni cambio
di appalto i lavoratori risultano nuovi assunti il che comporta l’applicazione delle
nuove normative, che chiaramente sono sempre peggiori delle precedenti.
Anche la garanzia del
monte ore contrattuale non è acquisita, in molte strutture i lavoratori vengono
retribuiti per le ore effettivamente lavorate e occorre fare battaglia affinché
gli orari garantiscano il monte ore stabilito contrattualmente e questo spesso
viene pagato dai lavoratori con turni pesanti e rientri talvolta fuori dalle
normative previste sul riposo giornaliero.
I “MINUTAGGI” E LE
CONDIZIONI DI LAVORO NELLE RSA
A fronte di questa
situazione le ultime gare di appalto stanno producendo un taglio di ore su
tutti gli operatori delle strutture assistenziali, in base all’applicazione dei
requisiti minimi previsti dal Decreto del Presidente della Giunta Regionale n.15
del 26 marzo 2008. Requisiti minimi che nel passato erano stati talvolta
incrementati dalle cooperative aggiudicatarie, ma che attualmente le
cooperative stesse si adeguano a rispettare per poter vincere gare di appalto
sempre più al ribasso.
Questi sono i requisiti
richiesti:
-
assistenza di base: 2.23 ore/giorno/utente;
-
assistenza infermieristica: 0,44 ore/giorno/utente;
-
assistenza riabilitativa e animazione: 0,11 ore/giorno/utente.
Inoltre sulle figure
dell’assistenza gravano talvolta una serie di compiti aggiuntivi come pulizie, portierato
non sempre legittimi e che tolgono tempo ai tempi già ristretti dell’assistenza.
E’ proprio sulle figure addette all’assistenza che ricadono mansioni inferiori
e anche superiori, vicine a quelle infermieristiche.
Si può garantire un adeguato livello di assistenza in così pochi minuti?
Se poi andiamo a vedere gli organici troviamo 2 al massimo 3 operatori ogni
20 anziani, spesso gravi, difficili da accudire e assistere.
Può, con questi organici essere garantita la qualità della vita degli
anziani ospiti delle strutture?
Inoltre in molte RSA non
vengono neppure rispettate le poche ore di assistenza giornaliera previste, in
quanto non vengono sempre sostituite i lavoratori assenti per malattie, ferie,
ecc. .
Ma anche con i parametri
minimi rispettati, i carichi di lavoro previsti dai piani di lavoro espongono i
lavoratori a condizioni massacranti: stiamo parlando di un lavoro così
delicato, con soggetti fragili e in forte disagio, e nello stesso tempo pesante
e faticoso.
Ed è su questi stessi
lavoratori che spesso poi ricadono le conseguenze di eventuali disservizi o anche
danni legati ad un’organizzazione del lavoro che pone una tempistica
difficilmente compatibile con i bisogni delle persone ospiti delle strutture.
Sempre di più le cooperative e i gestori fanno ricadere con sanzioni
disciplinari sui lavoratori le disfunzioni dei servizi, create dai risparmi
voluti dai committenti e sanciti dalle cooperative e dagli aggiudicatari.
Anche per quel che
riguarda le figure socio educative, le ultime gare di appalto hanno operato
tagli di ore, in adeguamento ai parametri regionali, che, sommati ad un
aggravio di compiti burocratici richiesti, peggiorano i tempi per l’assistenza
e la qualità della vita degli anziani nelle RSA.
VOGLIAMO PARLARE ANCHE DELLE PULIZIE?
Anche per queste figure
i piani di lavoro sono spesso incompatibili con la qualità del servizio che dovrebbe
essere offerto, qui non ci sono nemmeno minutaggi previsti da delibere, e le
ore sono a libera scelta dell’aggiudicatario, in base al livello di pulizia
richiesto dal committente e sulla base di linee guida nazionali di riferimento,
basate sulle metrature delle superfici piuttosto che sulle caratteristiche del
servizio.
INFERMIERI E RSA: IL MANCATO INVESTIMENTO
Nonostante che la
normativa italiana riconosca al personale infermieristico un ruolo
professionale e come tale dotato di piena autonomia nel proprio lavoro, il
quadro che abbiamo di fronte è tutt’altra cosa. Oggi, a causa di esigenze
economiche sempre più limitate e limitanti, imposti sia dall’ente che appalta
che dalla cooperativa che assume l’appalto, l’infermiere non è più nelle
condizioni di poter esprimere la propria professionalità e contraddicendo anche
al proprio codice deontologico che lo lega alle sane pratiche e al bene dell’utente
è costretto ad accettare un ruolo passivo e subordinato privato del proprio
ruolo e a detrimento della salute dell’utente.
Ancor più grave si
ritiene anche il mancato riconoscimento organizzativo, spesso nelle mani di personale
non propriamente preparato a gestire le complesse dinamiche assistenziali. La complessità
non è solo legata a un peggioramento delle condizioni di salute degli utenti
che afferiscono al servizio ma anche alla dimensione multidisciplinare con la
quale si dovrebbe prevedere l’assistenza.
Gli aspetti sanitari, in
un contesto di sottodimensionamento delle professioni sanitaria e sociali a fronte
dei riferimenti economicisti, non sono legati alla volontà di favorire una alta
qualità della vita, ma esclusivamente a gestire il quotidiano in maniera del
tutto fuorviante rispetto a quelle che dovrebbero essere le “mission” delle
strutture.
L’arrivo di un utente in
RSA non prevede alcuna possibilità di miglioramento delle sue condizioni bio-psico-sociali,
come se il percorso fosse già predestinato al “morire”.
Nonostante vi siano
svariati movimenti culturali e scientifici che riconoscono, nella cura e nella assistenza
all’anziano le pratiche atte a favorire le migliore condizioni possibili di
vita e di morte, queste rimangono spesso letture da convegno raramente messe in
pratica nelle RSA.
Riabilitazione fisica e
cognitiva, cure palliative, contenzioni fisiche, appropriatezza farmacologica e
prescrittiva sono solo alcune delle tematiche che trovano ampio spazio nella
letteratura scientifica ma raramente una sua applicazione pratica.
In questo senso gli
Infermieri, portatori di un sapere proprio nell’assistenza, sarebbero i principali protagonisti di un possibile cambiamento che attualmente non
è visibile.
In molte RSA la presenza
dell’infermiere è prevista solo di giorno.
Possiamo considerare legittima la mancanza dell’infermiere la notte in
una struttura adibita ad ospitare anziani e spesso pure malati?
LA SALUTE E LA SICUREZZA DEI
LAVORATORI DELLE RSA
L’aggravio dei carichi
di lavoro, può garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori sottoposti a continue
movimentazione di pesanti carichi, si pensi solo al sollevamento delle persone
non autosufficienti che gravano a peso morto.
Gli ausili previsti per
la prevenzione degli sforzi da sollevamento, non vengono sempre usati soprattutto
a causa dei pochi minuti che si possono dedicare ad ogni paziente a causa dei
tempi da rispettare, esponendo a rischio se stessi e gli ospiti. Inoltre questi
ausili spesso insufficienti, non sono neppure in buone condizioni.
Nel settore socio
assistenziale, c’è una vera e propria epidemia di malattie del Sistema nervoso
e dell’apparato muscolo scheletrico di chiara origine professionale, ma l’INAIL
non riconosce le origini professionali delle malattie da sforzo e i postumi
permanenti.
COSA FARE?
E’ necessario che ogni
lavoratore, ogni giorno:
-
verifichi che almeno il minimo richiesto sia garantito negli orari
predisposti e che si attivino per tempo le sostituzioni di chi è in malattia,
ferie, ecc.;
-
verifichi che ci sia il rispetto delle normative vigenti sull’orario di
lavoro (riposi giornalieri e settimanali);
-
si adoperi a usare gli ausili, anche se rallentano le tempistiche previste
dai piani di lavoro e a segnalarne ogni disfunzione.
Tutti insieme possiamo
portare avanti le battaglie che da anni la CUB promuove a livello locale e nazionale,
coinvolgendo anche le associazioni di utenti e familiari, per:
-
condizioni di lavoro migliori e aumento
dei tempi di assistenza;
-
sicurezza sul lavoro, riconoscimento del
lavoro usurante e della malattia professionale;
-
contratto unico per tutti i lavoratori del
settore;
-
non applicazione del Jobs Act nei cambi di
appalto;
-
rispetto dei diritti dei lavoratori e
degli utenti;
-
tutela della qualità delle cure.
CUB Sanità Sindacato di base
Via Guelfa 148/R
telefono e fax: 055 49 48 58-
Per contatti anche:
Paola 339 53 11 085
Nicola 348 70 84 852
---------------------
From: Carlo
Soricelli carlo.soricelli@gmail.com
To:
Sent: Friday,
July 01, 2016 9:45 AM
Subject: Fwd: REPORT
MORTI SUL LAVORO NEI PRIMI SEI MESI DEL 2016
Sono 300 i morti sui luoghi di lavoro nei primi
sei mesi del 2016. Lo stesso numero di morti che avevamo sui luoghi di lavoro,
il 30 giugno il 30 giugno del 2014. Lo stesso giorno del 2015 erano 302, un
calo favoloso dello 0.7%...
Questo mese c’è stata un’autentica carneficina di
agricoltori schiacciati dal trattore. Sono stati 30, due anche nell’ultimo
giorno del mese. La strage c’è stata anche tra i lavoratori dell’edilizia, ben
4 negli ultimi tre giorni. I morti sui luoghi di lavoro in queste due categorie
sono stati il 56% sul totale.
Teniamo presente che stiamo parlando solo dei
morti sul posto di lavoro, se a questi aggiungiamo i morti sulle strade e in
itinere le vittime sul lavoro in totale più che raddoppiano.
Si alza sempre di più l’età di chi muore per
infortuni sul lavoro a causa della legge Fornero e di chi l’ha votata.
Obbligare a far svolgere lavori pericolosi per se e per gli altri, si può dire
che è stata una legge indecente per non dire di peggio? Che è stato criminale
non tenere per nulla conto della vita di chi lavora, e neppure della sicurezza
dei cittadini e degli automobilisti, se a lavorare in tarda età è un guidatore
di un TIR?
Se qualcuno vuole mi denunci pure, chi come me
monitora i morti sul lavoro e registra queste tragedie da ormai 10 anni rimane
allibito per la leggerezza con cui è stata fatta e approvata questa legge
vergognosa e a favore dei più forti, che non si è fermata neppure davanti alla
vita e alla sofferenza di lavoratori costretti a svolgere lavori pericolosi,
stressanti e faticosi quasi fino a settant’anni. E questo riguarda anche
tantissimi artigiani che muoiono numerosissimi in tarda età. Li vedi con le
mani gonfie, con la schiena dolorante, con riflessi poco pronti. Insomma come
definire questo autentico calvario a cui sono sottoposti questi lavoratori?
E poi con la tecnologia che c’è ora com’è
possibile che si assiste a giugno alla morte di un agricoltore al giorno,
schiacciato dal trattore senza che nessuno in Parlamento alzi la voce per
questa carneficina. Sono 66 dall’inizio dell’anno e 352 da quando si è
insediato il Governo Renzi. Nessuno della minoranza PD e dell’opposizione ha
niente da dire e questo solo perché il Ministro Martina delle Politiche
Agricole appartiene a questa minoranza? E’ solo “ammoina” quella a cui
assistiamo ogni giorno in Parlamento per problematiche che ai cittadini e
lavoratori non gliene può fregare di meno? Povero nostro Paese come sei ridotto
con questa classe dirigente.
Un autentico e importante calo delle morti c’è
stato nella Regione Lombardia nei primi sei mesi di quest’anno, nessuno è più
lontano di me dalla Lega, contro il razzismo di noi meridionali ci ho anche
scritto anche un libro vent’anni fa “Maruchein” (terrone) abitavo in Via del
Carroccio. Ma non sono cieco e prevenuto su queste tragedie. Se il risultato
che sta ottenendo la Lombardia
non è frutto della casualità, come è capitato per altre importanti regioni, ma
di un lavoro fatto sul territorio, tanto di capello a chi questa regione la
dirige nelle varie articolazioni.
Occorre capire che le morti sul lavoro sono da “conteggiare”
non con assurdità come “l’indice occupazionale” e altre amenità del genere, ma
sul numero complessivo della popolazione, visto che a morire sono tantissimi
lavoratori non assicurati all’INAIL, o che lavorano in nero. La Lombardia ha il doppio
degli abitanti delle regioni più popolose del nostro Paese, e rispetto alle
altre ha da quando monitoro questo fenomeno un andamento migliore.
Carlo Soricelli curatore dell’Osservatorio
Indipendente di Bologna morti sul lavoro
SONO 300 I MORTI PER INFORTUNI SUI LUOGHI DI LAVORO DALL’INIZIO
DELL’ANNO.
Oltre 630 se si aggiungono i morti sulle strade e
in itinere.
Morti per infortuni sui luoghi di lavoro nel 2016 per regione e
provincia in ordine decrescente.
I morti sulle autostrade e all’estero non sono
conteggiate nelle province. Quando guardate l’andamento delle regioni e delle
province pensate che ci sono almeno altrettanti morti per infortuni sulle strade
e in itinere.
CAMPANIA 33: Napoli 13, Salerno 9, Caserta 6, Avellino 4,
Benevento 1.
EMILIA ROMAGNA 31: Forlì Cesena 6, Reggio Emilia 6, Bologna 5, Modena
4, Ferrara 3, Parma 2, Piacenza 2, Ravenna 2, Rimini 1.
VENETO 26: Vicenza 8, Padova 6, Belluno
3, Treviso 3, Verona 3, Venezia 2, Rovigo 1.
TOSCANA 24: Massa Carrara 6, Arezzo 4, Livorno 4, Lucca 3, Pisa 2, Siena
2, Firenze 1, Grosseto 1, Pistoia 1, Prato 1.
LAZIO 22: Roma 7, Latina 6, Viterbo 5, Frosinone 3, Rieti 1.
SICILIA 20: Catania 5, Agrigento 3, Caltanissetta 3, Messina 3, Palermo
1, Enna 1, Ragusa 1, Trapani 1.
PIEMONTE 19: Cuneo 9, Asti 5, Torino 3, Alessandria 1, Vercelli 1.
LOMBARDIA 19: Brescia 9, Bergamo 3, Como 2, Pavia 2, Milano 1,
Cremona 1, Lecco 1.
PUGLIA 14: Taranto 7, Barletta
Andria Trani 2, Foggia 2, Lecce 2, Brindisi 1.
TRENTINO ALTO ADIGE 10: Trento 6, Bolzano 4.
MARCHE 10: Macerata 4, Ancona 2, Ascoli Piceno 2, Pesaro Urbino 1.
ABRUZZO 10: Chieti 5, Pescara 2, Teramo 2, L’Aquila 1.
SARDEGNA 9: Cagliari 4, Sassari 3, Nuoro 1, Oristano 1.
CALABRIA 8: Catanzaro 3, Cosenza 2, Crotone 1, Reggio Calabria 1, Vibo
Valentia 1.
UMBRIA 4: Terni 3, Perugia 1.
LIGURIA 4: Genova 2, Imperia 1, Savona 1.
MOLISE 4: Campobasso 4.
FRIULI VENEZIA GIULIA 3: Gorizia 1, Pordenone 1, Udine 1.
BASILICATA 1: Potenza 1.
I lavoratori morti sulle autostrade, all’estero e in mare non sono
segnalati a carico delle province.
Consigliamo a tutti quelli che si occupano di queste tragedie di separare
chi muore per infortuni sui luoghi di lavoro, da chi muore sulle strade e in
itinere con un mezzo di trasporto. I lavoratori che muoiono sulle strade e in
itinere sono a tutti gli effetti morti per infortunio sul lavoro, ma richiedono
interventi completamente diversi dai lavoratori morti sui luoghi di lavoro. E
su questo aspetto che si fa una gran confusione. Ci sono categorie come i
metalmeccanici che sui luoghi di lavoro hanno pochissime vittime per infortuni,
poi, nelle statistiche ufficiali, non separando chiaramente le morti causate
dall’itinere, dalle morti sui luoghi di lavoro, risultano morire in tantissimi
in questa categoria che è numerosissima e ha una forte mobilità per recarsi o
tornare dai luoghi di lavoro.
Anche quest’anno una strage di agricoltori schiacciati dal trattore, sono
già 66 dall’inizio dell’anno, Tutti gli anni sui luoghi di lavoro il
20% di tutte le morti per infortuni sono provocate da questo mezzo. 132 sono i
morti schiacciati dal trattore nel 2015 e 152 nel
2014.
Contiamo molto della sensibilità dei media e dei
cittadini che a centinaia ogni giorno visitano il sito. In questi nove anni di
monitoraggio le percentuali delle morti nelle diverse categorie sono sempre le
stesse: l’agricoltura sempre la categoria con più vittime, seguono l’edilizia,
i servizi, i metalmeccanici e l’autotrasporto.
MORTI SUL LAVORO NEL 2015
Sono stati 678 i morti per infortuni sui luoghi di lavoro nel
2015, contro i 661 del 2014 (+2,6%). Erano 637
nel 2008 (+6,1%).
L’INAIL nel 2014 ha
riconosciuto complessivamente 662 morti sul lavoro, di questi il 52% sono
decessi in itinere e sulle strade, ma le denunce per infortuni mortali sono
state 1107.
Crediamo che anche per il 2015 ci siano più o meno le stesse percentuali. Nel 2015 tra gli assicurati INAIL c’è
stata un’inversione di tendenza, per la prima volta dopo tantissimi anni questo
Istituto vede aumentare le denunce per infortuni mortali. Ma le denunce non
comportano necessariamente un riconoscimento dell’infortunio mortale. Sta a noi
che svolgiamo un lavoro volontario, senza interesse di nessun tipo, far
conoscere anche questo aspetto ai cittadini italiani.
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