Ad Asti al via il processo per
truffa ai danni di 130 bengalesi. Un caso di caporalato applicato alla
fabbrica?
di Enrico
Mugnai
Si è aperto con una sorpresa il processo per truffa ai
danni di 130 lavoratori bengalesi. Solo due di loro infatti sono stati ammessi
come parte civile dal giudice Fabio Liuzzo del Tribunale di Asti. La vicenda ha
inizio nell’aprile 2013, quando due bengalesi, Jamal Miah e Musum Hussein,
diramano un appello ai connazionali residenti in Italia. La voce circola tra la
comunità, la proposta è allettante: 1.055 euro al mese per fare l’operaio con
contratto a tempo indeterminato. Ma per entrare nel progetto serve un
contributo iniziale di 2mila euro da versare alla Rubina Coop arl fondata poche
settimane prima da Miah e Hussein. Già alla fine del mese 130 bengalesi erano
partiti da varie parti d’Italia e avevano raggiunto a proprie spese Torino.
Riajul Alam, a quel tempo appena ventenne, è tra loro.
Ha lasciato Vicenza, dove vive coi genitori, ed è giunto in Piemonte pieno di
speranza: «Sapevamo che ci sarebbe stato un contratto a tempo indeterminato,
anche chi aveva solo 2mila euro ha scelto di darli perché sperava di garantirsi
un futuro».
Dopo un breve periodo a Torino in casa di connazionali
a cui pagavano 10 euro al giorno, ai bengalesi viene detto di raggiungere i
luoghi di lavoro, Ceresole D’Alba, Carmagnola e Osasio, dove avrebbero lavorato
per la S.I.O. Automotive srl, il cui rappresentante legale è Daniele Olivero. «Ci
sono venuti a prendere alla stazione con dei camion, abbiamo viaggiato sul
cassone per raggiungere gli edifici dove dovevamo vivere» dice Riajul, che
venne destinato allo stabilimento di Osasio. «Il lavoro era molto duro – racconta
Riajul – dove servivano due persone per svolgere la mansione ne veniva messa
una sola. Olivero ci urlava sempre contro, ci diceva che non servivano né
indumenti né guanti né scarpe. Lavoravamo in pantaloncini corti e ciabatte. Non
ci avevano dato neanche i tappi per le orecchie e il rumore delle macchine ci
assordava. Quando qualcuno si è fatto male, anche in modo grave, è stato
portato all’ospedale solo a fine turno, come privato. Non doveva risultare che
lavorassimo alla S.I.O.».
Come successe a Mohammed Chowdhury, che ferito
seriamente al polso dovette dire ai medici del pronto soccorso di essersi
procurato il taglio a casa tagliando il pesce. I 2mila euro di “entrata”
venivano raccolti da Jamal Miah e Musum Hussein, dicevano che sarebbero state
consegnate a Daniele Olivero. Giovanni Nigra, avvocato di Miah e Hussein che
sono stati ammessi come parte civile: «I miei assistiti erano stati indotti
da Olivero a creare la Rubina, prima per fornire lavoro, poi per acquistare la
S.I.O. L’accordo prevedeva che consegnassero subito un acconto di 40mila euro a
Olivero poi, con gli introiti del lavoro dei bengalesi, versassero 72 rate da
20mila euro per l’acquisto della società. I 2mila euro raccolti servivano a
pagare l’acconto a Olivero per l’acquisto dell’azienda e per affittare le case
dove sarebbero andati a vivere i lavoratori. Era stabilito che Olivero
rimanesse amministratore della S.I.O. per un certo periodo. Poi però ha
iniziato a contestare in modo generico il lavoro dei bengalesi, senza addurre
specifiche motivazioni, rifiutandosi di pagare la Rubina che non poteva pagare
i lavoratori. Alla fine ha annunciato che avrebbe rescisso il contratto».
Roberto Ponzio legale di Daniele Olivero conferma il
pagamento dei 40mila euro, ma pensa che il truffato sia il suo cliente: «Il
signor Olivero rimaneva come amministratore perché i responsabili di Rubina
Coop non conoscevano né i clienti né il mestiere. Olivero avrebbe dovuto
percepire 5mila euro al mese di stipendio, ma non ebbe mai niente. Purtroppo
dopo poco tempo ha dovuto rescindere il contratto perché i lavoratori
danneggiavano il materiale aziendale e non riuscivano a svolgere il lavoro in
maniera appropriata. Il mio assistito è la prima vittima di questa truffa. A
seguito del pessimo lavoro della Rubina Coop la S.I.O. ha perso credibilità
verso i committenti ed è stata costretta a chiudere».
Chi ci ha rimesso di sicuro sono i lavoratori, «Pensavamo
di venire assunti come dipendenti invece ad un certo punto ci hanno fatto firmare
l’iscrizione alla Rubina Coop come soci lavoratori, solo allora abbiamo capito
a cosa servissero i 2mila euro. Non ci hanno mai pagato per il lavoro che
facevamo, quei pochi soldi che ci sono arrivati li abbiamo dovuti dare per
l’affitto e lo scarso cibo che ci fornivano» afferma Riajul. Non solo le
condizioni di lavoro, ma anche quelle abitative, per i 130 lavoratori, erano
indecenti. «Stavamo in 11 in una stanza, non c’era né riscaldamento né energia
elettrica. Invece della fogna c’era una fossa biologica sempre intasata.
Vivevamo nella sporcizia e nel fetore» racconta Riajul. Nonostante Osasio,
Carmagnola e Ceresole d’Alba non siano megalopoli e il numero dei bengalesi
giunti fosse rilevante, le Amministrazioni locali non ritennero opportuno
accertare le condizioni degli edifici locati dalla Rubina. L’avvocato Gianluca
Vitale, che aveva chiesto di ammettere altri sette lavoratori come parte civile
fa un’ipotesi: «Forse la speranza di chi impiegava i bengalesi era che non
stringessero rapporti con gli abitanti dei paesi dove vivevano e rimanessero
invisibili. Di certo non temevano che si sarebbero sindacalizzati. La vicenda
però è venuta alla luce quando i carabinieri, constatando la grave indigenza in
cui vivevano, hanno chiesto alla Caritas di procurare un qualche aiuto. Coperte
e un po’ di cibo».
La Caritas non è la sola ad accorgersi del problema.
La Fiom, che ha ottenuto di costituirsi parte civile nel processo, nel 2013
presenta un esposto alla Procura della Repubblica di Torino. «Abbiamo
cercato di avviare anche vertenze per casi di singoli lavoratori, ma poi,
quando i bengalesi si sono accorti di essere stati raggirati si sono dispersi,
tornando nei luoghi da dove erano partiti, soprattutto del sud Italia» dice
Federico Bellono, segretario provinciale della Fiom. Gli appalti della S.I.O.
erano per case prestigiose, Fiat, Renault, Citroen, Iveco e il ritmo di lavoro
altissimo. Si devono produrre per ogni turno 2000 pezzi se di piccole
dimensioni, 2700 se grandi. «Capitava spesso che dopo aver fatto il turno di
notte venivamo chiamati alle 12 per entrare al lavoro alle 14. In fabbrica per
mangiare c’erano solo dei distributori automatici a pagamento, nessuna mensa
aziendale» rammenta Riajul. «Il caporalato è legato di solito al lavoro
agricolo, ma in questo caso sembra essersi traslato nella fabbrica» afferma
Bellono. Dello stesso parere l’avvocato Vitale «Speriamo che durante il
processo emergano elementi per approfondire le indagini. La truffa non è il
solo reato in questa vicenda. Dagli elementi raccolti dai numerosi lavoratori
con cui abbiamo parlato, cosa che non ha fatto il pubblico ministero, è emerso
un quadro di sfruttamento davvero grave, sia per le condizioni di vita e di
lavoro, sia per il numero delle persone coinvolte». Federico Bellono ritiene
che ci sia stato «un tentativo di trovare manodopera a basso costo e pronta
a tutto. La S.I.O. automotive sta alla base della piramide produttiva e la
verifica da parte dei committenti delle condizioni di lavoro dell’indotto non è
prevista per legge. Sta solo alla serietà delle case automobilistiche, in
questo caso, accertarsi che tutto sia in regola». Ma questa vicenda, che
vede tutti i 130 bengalesi protagonisti, avrà una sua conclusione solo per 2 di
loro. Gli altri, ha deciso il giudice Liuzzo, non potranno prendervi parte
perché non avevano un rapporto diretto con Daniele Olivero ma solo con Rubina
Coop. Una beffa per i 128 lavoratori che oggi, dopo aver perduto 2mila euro e
il lavoro, vedono sfumare anche la speranza di giustizia.
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