mercoledì 9 febbraio 2022

9 febbraio - Licenziata dopo il Covid, il giudice del lavoro ordina la riassunzione

 

I giorni di quarantena non vanno conteggiati come quelli di una normale malattia. Lo ha stabilito il giudice del lavoro del tribunale di Asti che ha disposto la riassunzione di una commessa, affetta da varie patologie, licenziata per aver superato la soglia massima di «mutua» annuale di 180 giorni.

Dal 2002 la donna lavorava nei punti vendita del Sud Piemonte di una catena di supermercati con sede nell’Astigiano. La commessa, 45 anni, due figli, non aveva mai ricevuto particolari contestazioni disciplinari e i rapporti con i titolari apparivano buoni.Nel 2020 le era stata diagnosticata una grave patologia, ed era rimasta a casa in malattia per quasi sei mesi. Ma è anche l’anno del Covid, e il 20 novembre la donna aveva iniziato ad accusare mal di testa e mal di gola. Pochi giorni dopo il tampone, positivo. In poco più di due settimane guarisce ma non c’è tempo di festeggiare.

A casa le arriva la lettera di licenziamento per aver superato il cosiddetto «periodo di comporto», cioè i giorni in cui è consentito assentarsi per malattia senza che venga meno il rapporto. Nel contratto del commercio 180 nell’anno solare. La commessa a causa delle sue patologie e del contagio da Coronavirus aveva complessivamente fatto registrare 184 assenze. Quattro giorni in più sufficienti all’azienda per dichiarare concluso, dopo 18 anni, il rapporto di lavoro.

La donna, assistita dall’avvocato Massimo Padovani ha impugnato il licenziamento e dopo 13 mesi ha vinto la causa.

Il giudice Elisabetta Antoci, con un’ordinanza innovativa e considerata pilota a livello nazionale, ha ordinato il reintegro della lavoratrice nella ditta e il pagamento di 12 mensilità.

L’impresa, difesa dall’avvocato Giovanni Filippi, ha poi firmato un accordo con la dipendente che è già tornata in servizio. Scrive nelle motivazioni il giudice Antoci: «Ciò che contraddistingue la malattia da Covid-19 dalle altre è l’impossibilità, imposta autoritativamente, per il lavoratore di rendere la prestazione e per il datore di riceverla per i tempi normativamente e amministrativamente previsti, che prescindono dall’evoluzione delle condizioni di salute ma dipendono dalla positività». Spiega l’avvocato Padovani: «Tra dipendente e impresa entra in gioco l’Asl che dispone i provvedimenti di isolamento. I giorni di quarantena pertanto non vanno conteggiati come quelli di una normale malattia». La vicenda si inserisce in una fase pesante dell’epidemia. Il 20 novembre 2020 il Piemonte è in zona rossa, i contagi crescono a ritmi elevati. Il medico di famiglia, aveva prescritto inizialmente 4 giorni di riposo (sindrome parainfluenzale) senza ordinare un tampone. Il 23 la segnalazione dello stesso medico all’Asl come sospetto caso covid; viene disposta la quarantena per 14 giorni, fino al 7 dicembre. Il 27 la donna va a fare un tampone molecolare: positivo. Sulla piattaforma Asl l’isolamento viene prorogato fino al 10 dicembre. Il 30 novembre la commessa spedisce una mail al datore di lavoro comunicando la positività. L’azienda non risponde. Il 9 dicembre il tampone è negativo e il giorno dopo l’Asl invia il provvedimento di via libera. Subito la lavoratrice chiede di tornare in negozio ma l’azienda le anticipa telefonicamente di averle inviato la lettera di licenziamento per il superamento di soli quattro giorni del «periodo di comporto». La commessa non ci sta, fa causa e la vince.


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