Un anno dopo i 61 licenziamenti degli operi FIAT,
accusati di "aumentare il clima di conflittualità in fabbrica con gravi
conseguenze sui livelli di produttività", il 10 settembre 1980, a Roma,
avviene la rottura delle trattative tra FLM e FIAT sulla cassa integrazione. Il
giorno successivo la Fiat annuncia 14.469 licenziamenti. Subito gli operai del
1° turno di Mirafiori proclamano 8 ore di sciopero. La lotta si estende e si
trasforma nei giorni successivi in lotta ad oltranza, culminando il 10
settembre con l'occupazione di alcuni stabilimenti, tra cui quello storico di
Mirafiori. I picchetti degli operai divennero il simbolo di quell'ultima
trincea posta a difesa dell'attacco definitivo del padronato nei confronti
della classe operaia. Il 27 settembre però, Agnelli è costretto a ritrattare la
decisione (per "spirito di responsabilità", aggiunge) dopo le
dimissioni del governo Cossiga, e decide di tramutare i licenziamenti in una
cassa integrazione per 23.000 lavoratori. Il 30 settebre l'assemblea dei
delegati decide di proseguire la lotta e si continua con il blocco totale dei
cancelli. I picchetti e le occupazioni proseguono incessanti, ma la volontà di
PCI e sindacati a non espandere la protesta al di fuori della fabbrica fa
presto scemare negli operai la fiducia nei loro portavoce istituzionali; per 35
giorni, pullman di delegati della CGIL sono costretti a partire tutte le
mattine dalle città del nord, in particolare dalla zona di Sesto San Giovanni,
Milano e Genova con destinazione Torino.
La direzione FIAT decide allora di
riorganizzarsi chiamando a sè funzionari, quadri intermedi, dirigenti e alti
impiegati (con l'appoggio dei bottegai e della buona borghesia torinese) che,
la mattina del 14 ottobre, convocano una manifestazione al Teatro Nuovo contro
il blocco dei cancelli. Rispondono alla chiamata alcune migliaia di colletti
bianchi (non più di 12.000), che scendono in corteo per le vie di Torino
chiedendo alla FIAT (e, implicitamente, allo Stato) "ordine per
lavorare". La manifestazione, divenuta poi famosa come la "marcia dei
40.000" grazie a un fruttuoso gioco di numeri cominciato da "La
Stampa" (che dava cifre addirittura minori) e proseguito con successo da
"La Repubblica", segna una svolta fondamentale nella lotta degli
operai FIAT, grazie al suo implicito invito al governo di porre fine al
conflitto e al crescente contropotere operaio delle fabbriche torinesi. PCI e
sindacati non perdono allora l'occasione per dichiararsi sconfitti, e il 15
ottobre firmano a Roma l'accordo che prevede la cassa integrazione per 23.000
lavoratori e la conseguente riapertura della fabbrica. Al Cinema Smeraldo di
Torino, intanto, centinaia di delegati e lavoratori Fiat premono per entrare:
sul palco Benvenuto (UIL), Lama e Galli (CGIL) - che hanno già preso la
decisione di soffocare la lotta - cercano in tutti i modi di far accettare ai
delegati operai l'accordo che prevede la loro resa. Nonostante gli sforzi e le
rassicurazioni ("... la Fiat provvederà a richiamare dalla cassa
integrazione guadagni, per il loro reinserimento, quei lavoratori che al 30
giugno 1983 si troveranno ancora in integrazione salariale"), dopo 8 ore
di discussione il Consiglio dei delegati Fiat ed i lavoratori presenti
approvano a maggioranza una mozione in cui respingono l'accordo. Il 16 ottobre
è il trentasettesimo giorno di occupazione di Mirafiori, l'accordo viene messo
in votazione dalle assemblee di fabbrica. Tutti i maggiori sindacalisti sono
presenti in fabbrica: Lama alle Carrozzerie, Benvenuto alle Presse e Carniti
alle Meccaniche. Ines Arciuolo, tra i 61 operai FIAT licenziati l'anno
precendente, racconta così il momento della votazione: "Alla fine
dell'assemblea del secondo turno della Mirafiori-Carrozzeria, la stragrande
maggioranza delle mani – tranne i capi e un solitario astenuto –, esibendo il
tesserino giallo che attesta di essere dipendenti Fiat, si alzano decise e
votano no all'accordo. Ma dal palco, come se gli operai non fossero presenti a
vedere coi propri occhi l'esito del voto, proditoriamente, viene decretato che
l'assemblea ha «approvato a larga maggioranza» come annuncerà un delegato del
Pci, obbedendo alla direttiva di «far passare l'accordo a tutti i costi»
impartita da Fassino, suo dirigente torinese." La reazione degli operai è
furiosa, particolarmente accesa alle Meccaniche, dove volano sassi verso l'auto
in cui si è rapidamente ritirato Camiti. Al secondo turno, tensione ancora più
alta perché gli operai sanno come è andata al primo. Sanno anche che sono stati
i capi e i crumiri a rovesciare il risultato. Cosi in molti casi si organizzano
(per esempio, a Lingotto) per non farli partecipare al voto. Si propone,
altrove, di alzare il tesserino, per fare la conta separata dei tesserini
gialli (operai) e di quelli di diverso colore. Con queste precauzioni, in ogni
modo, si ha la possibilità di verificare che la maggioranza netta degli operai
è contro l'accordo. (Il giorno dopo verrà replicato anche il voto della
Meccanica Mirafiori del primo turno e, poiché questa volta voteranno solo gli
operai, l'ipotesi di accordo sarà respinta). Concluse le assemblee, partono
alcuni cortei spontanei da Lingotto e Mirafiori che confluiscono alla Porta 5;
qui vengono danneggiate un'auto e una cinepresa della RAI, con la polizia che
provoca gli operai nel tentativo di caricarli. I lavoratori si riorganizzano
subito, e dopo aver fatto dei cordoni, si muovono in corteo fino a Lingotto
mentre si spiega alla popolazione che l'accordo è stato respinto dalle
assemblee del secondo turno. Alla sera, però, un comunicato CGIL-CISL-UIL
annuncia che l'accordo si ritiene approvato. La spaccatura coi sindacati
divenne insanabile proprio conseguentemente a quelle giornate, e la conseguenza
della concertazione e degli accordi padronali avvallati dal PCI fu di 61 licenziati
, 24.000 cassaintegrati e un numero impressionante di suicidi (circa 200) tra
gli ormai ex-operai FIAT nel corso di tutti gli anni '80.
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