giovedì 29 ottobre 2015

29 ottobre - Gli operai cassaintegrati hanno perso due miliardi di salario nel 2015.........



chi lo denuncia?

chi come la CGIL ha contribuito a farli perdere!

Nel 2015, i cassintegrati hanno perso quasi 2 miliardi di euro di reddito: si parla di una media di oltre 660mila lavoratori coinvolti. Intanto, i processi che prevedono un reinvestimento da parte dell’impresa rimangono “irrilevanti”, pari al 5,86% del totale. Questa è la fotografia degli ammortizzatori sociali in Italia, scattata dal rapporto Cgil sulla cassa integrazione. Si tratta di un quadro non del tutto negativo, perché le ore autorizzate sono calate del 32% in un anno e lo stesso sindacato riconosce “un miglioramento nelle attività produttive”. Ma questi segnali vanno inseriti, secondo il rapporto, nel contesto di “una dimensione strutturale della crisi produttiva” e di “una forte assenza di politiche industriali di sviluppo”. Nel dettaglio, lo studio, che rielabora i dati sulla cassa integrazione forniti dall’Inps, sottolinea come “solo in questi nove mesi del 2015, i lavoratori parzialmente tutelati dalla cig hanno perso complessivamente nel loro reddito oltre 1 miliardo e 985 milioni di euro al netto delle tasse, mentre ogni singolo lavoratore che è stato a zero ore per tutto il periodo ha già sopportato una riduzione del salario individuale al netto delle tasse di circa 5.900 euro“. Il rapporto fornisce anche una stima relativa ai lavoratori coinvolti nei processi di cassa integrazione. Da gennaio a settembre 2015, sono state autorizzati 518 milioni di ore di cig. Ipotizzando un ricorso medio all’ammortizzatore pari al 50% del tempo lavorabile globale, si arriva alla cifra di oltre 660mila dipendenti.
Se invece si considerano le ore totali di cig equivalenti a posti di lavoro con dipendenti a zero ore, nel periodo “si determina un’assenza completa di attività produttiva per oltre 330mila lavoratori, di cui oltre 189mila in Cigs e 45mila in Cigd”. Ma al di là dei numeri, lo studio approfondisce anche le causali legate alle domande di cassa integrazione.
“Gli interventi che prevedono percorsi di reinvestimento e rinnovamento strutturale dell’impresa sono solo il 5,86% del totale dei decreti, nel 2014 erano il 5,77% del totale”. Una quota che il rapporto definisce irrilevante: “Resta questo uno dei segnali più evidenti del persistere di un processo di deindustrializzazione in atto nel nostro Paese, ma continua ad essere ignorato e sottovalutato”. Detto questo, il ricorso alla cassa integrazione è calato rispetto al 2014. Nel periodo gennaio-settembre, la flessione si è attestata al 32%: si parla del -24% per la cassa ordinaria, -14% per la straordinaria, -63% per quella in deroga. Anche se, bisogna sottolineare, quest’ultimo dato è legato alle limitazioni imposte dalla legge, che per il 2015 ha stabilito un tetto massimo di cinque mesi per la concessione dell’ammortizzatore. Il rapporto aggiunge che “il numero delle aziende in crisi che fanno ricorso a nuovi decreti di Cigs, per la prima volta dal 2012 diminuiscono sul periodo precedente, fino a settembre sono 4.866 (0,49%) per oltre 9.042 siti aziendali (20,38%)”. L’osservatorio Cgil parla di un “miglioramento nelle attività produttive” che “contribuisce a recuperare gli ampi margini indotti dalla crisi”, anche con “un riflesso sull’aumento occupazionale”. Ma questo non basta per festeggiare. Anche perché, segnala la Cgil, a settembre la cassa integrazione torna ad aumentare su base mensile, con un +54,3%. Questo incremento è sì fisiologico, perché legato alla ripresa delle attività produttive, ma maggiore del 10% rispetto a quello registrato tra agosto e settembre 2014. Per il segretario confederale della Cgil, Serena Sorrentino, “l’aumento in settembre della cassa con una percentuale così significativa è il segnale di una ripresa più lenta di quella prevista dalle stime. I dati andrebbero letti con maggiore prudenza ed attenzione e i toni entusiastici del governo e di alcuni politici dopo il dato del mese precedente erano del tutto fuori luogo”. Non a caso, il rapporto Cgil avverte: “Resta una dimensione strutturale della crisi produttiva, che si manifesta anche con l’abbandono al loro declino di molti settori produttivi, e una forte assenza di politiche industriali di sviluppo”.

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