lunedì 14 marzo 2016

12 marzo - NEWSLETTER N. 247 DEL 11/03/16



NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

ADEGUAMENTO DI MACCHINE MARCATE CE ALLA NORMATIVA TECNICA DI RIFERIMENTO
1
CGIL CATANIA: CON LE MODIFICHE DEL JOBS ACT AUMENTANO I RISCHI PER LA SICUREZZA
4
AMBIENTI CONFINATI: QUALI SONO I RISCHI?
6
IL LUOGO DI LAVORO E LA GARANZIA DELLE SUE CONDIZIONI DI SICUREZZA
8
PREVENZIONE DI MOLESTIE E VIOLENZE: COSA CAMBIA NEI LUOGHI DI LAVORO?
11
L’ESPOSIZIONE FEMMINILE A STRESS, VIOLENZE E STALKING
14


ADEGUAMENTO DI MACCHINE MARCATE CE ALLA NORMATIVA TECNICA DI RIFERIMENTO
LE CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.72

Come sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.
Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di leggere le mie newsletters, queste consulenze.
Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi simili o analoghi.
Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.
Marco Spezia


QUESITO

Salve ing.,
volevo chiederle un informazione/parere sulla seguente questione.

L’azienda dove lavoro possiede una macchina del 2000 marcata CE (automezzo con compattatore rifiuti a carico posteriore). La parte del compattatore è una macchina conforme alla Direttiva Macchine e conforme alla norma tecnica di riferimento del momento.
Oggi però gli stessi mezzi sono conformi alla Direttiva Macchine e alla norma UNI EN 1501, che prevede come dispositivi di sicurezza per esempio: il limitatore di velocità (a 30 km/h) con l’uomo in pedana, blocco della retromarcia con uomo in pedana (tranne manovre di emergenza), telecamera per l’autista ecc..
Queste predisposizioni non erano obbligatorie nei mezzi più vecchi (comunque marcati CE), per esempio il mezzo di cui parlavo all’inizio era dotato di cintura di trattenuta per l’uomo in pedana, ma non di limitatore di velocità.

Ora la mia domanda è la seguente.
La macchina del 2000 marcata CE, conforme alla Direttiva Macchine e alla norma tecnica dell’epoca, deve essere adeguata ai dispositivi di sicurezza previsti oggi (norma UNI EN 1501)?
Oppure essendo marcata CE deve essere usata conformemente al libretto d’uso e manutenzione del costruttore e mantenuta per come è stata realizzata?
Dalla mia esperienza in questo campo, mentre è chiaro che se una macchina è antecedente alla prima Direttiva Macchina (quindi senza marcatura CE) è obbligatorio adeguarla all’allegato V del D.Lgs 81/08 e comunque adeguarla allo stato dell’arte di oggi in termini di dispositivi di sicurezza, non mi era mai capitato il caso di una macchina marcata CE (prima Direttiva Macchine), però non in linea con i requisiti di oggi della norma tecnica di riferimento (UNI EN 1501).

In attesa di un suo riscontro, la saluto cordialmente.


RISPOSTA

Prima di ogni altra considerazione andrebbe fatta una verifica sulla data di immissione sul mercato del Veicolo Raccolta Rifiuti (VRR) di cui stai parlando.
Infatti nel 2000 esisteva già la norma armonizzata per VRR EN 1501-1:1998 “Refuse collection vehicles and their associated lifting devices - General requirements and safety requirements - Rear-end loaded refuse collection vehicles” (del marzo 1998) che venne recepita in Italia il 30/01/00 dalla norma UNI EN 1501-1:2000 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento - Requisiti generali e di sicurezza - Veicoli raccolta rifiuti a caricamento posteriore”.

Tale norma prevedeva già la limitazione di velocità a 30 km/h e l’inibizione della retromarcia con pedane occupate.
Infatti il punto 6.6.4.3 della norma (versione italiana) specificava che:
Se qualcuno è presente sulle pedane deve essere automaticamente impedito:
-         viaggiare ad oltre 30 km/h;
-         viaggiare in retromarcia.
Deve essere fornito un comando addizionale che permette di inserire ugualmente la retromarcia in caso di emergenza dovuta al traffico stradale.
Questo comando di emergenza deve essere posizionato in modo tale che l’autista lo possa raggiungere facilmente dalla posizione di guida. Tale comando di emergenza deve inoltre disabilitare sia il meccanismo di compattazione che il dispositivo di sollevamento (alza-voltacontenitori) e richiede di dover essere ripristinato tramite chiave prima che il meccanismo di compattazione o il dispositivo di sollevamento possano essere riavviati. La chiave di ripristino deve essere custodita separatamente da quella del VRR”.

Quindi già un VRR del 2000 doveva essere immesso sul mercato con riferimento alla norma armonizzata sopra citata.
Tieni conto però che secondo Direttiva Macchine (sia la 98/37/CE, sia la 2006/42/CE) il costruttore non è obbligato a seguire integralmente le norme armonizzate relative alle macchine che lui vuole immettere sul mercato, non avendo tali norme carattere di cogenza, ma solo di guida.
Il rispetto di tutti i punti di una norma armonizzata, dà infatti automaticamente “presunzione di
conformità” a tutti i requisiti di salute e di sicurezza di cui all’Allegato I della Direttiva Macchine, requisiti questi ultimi che sono invece obbligatori.

Infatti l’articolo 3 della Direttiva 98/37/CE impone che:
Le macchine e i componenti di sicurezza ai quali si applica la presente Direttiva devono rispondere ai requisiti essenziali ai fini della sicurezza e della tutela della salute di cui all’allegato I”;
mentre relativamente alle norme armonizzate tale Direttiva specifica, all’articolo 5, comma 2, che:
Se una norma nazionale che traspone una norma armonizzata il cui riferimento sia stato oggetto di una pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee comprende uno o più requisiti essenziali di sicurezza, la macchina o il componente di sicurezza costruito conformemente a detta norma è presunto conforme ai requisiti essenziali di cui trattasi”.
Analogamente l’articolo 5, comma 1, lettera a) della Direttiva 2006/42/CE impone che:
Il fabbricante o il suo mandatario, prima di immettere sul mercato e/o mettere in servizio una macchina si accerta che soddisfi i pertinenti requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute indicati dall’allegato I”;
mentre l’articolo 7, comma 2 della medesima Direttiva specifica che:
Le macchine costruite in conformità di una norma armonizzata, il cui riferimento è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, sono presunte conformi ai requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute coperti da tale norma armonizzata”.

In sede di procedura di certificazione, che per i VRR (macchina compresa nell’Allegato IV della Direttiva Macchine, in quanto con rischi elevati) prevede il coinvolgimento di un Organismo Notificato che rilasci una Dichiarazione CE di Tipo, il costruttore nel caso non abbia seguito integralmente la norma armonizzata di riferimento deve comunque dimostrare, all’interno della analisi dei rischi contenuta nel Fascicolo Tecnico della macchina, che ha adottato misure di prevenzione e protezione che assicurino requisiti di salute e di sicurezza uguali o maggiori di quelli riportato nella norma armonizzata.

In merito al VRR a cui ti riferisci, rimane quindi da capire se esso sia stato immesso sul mercato secondo Direttiva Macchine e/o secondo norma armonizzata EN 1501-1.
In ogni caso, indipendentemente dalla “storia” relativa alla immissione sul mercato di tale attrezzatura, è obbligo per il datore di lavoro, eseguire una specifica valutazione del rischio, relativa al suo utilizzo e a seguito di tale valutazione, definire e applicare adeguate misure di prevenzione e protezione.
Oltre a ciò, se il VRR non è stata immesso sul mercato secondo Direttiva Macchine, il datore di lavoro è obbligato ad adeguarlo almeno ai requisiti di salute e sicurezza di cui all’Allegato V del D.Lgs.81/08.
L’allegato V del D.Lgs,81/08 (come d’altronde l’Allegato I della Direttiva Macchine) è del tutto generico e non entra nel merito delle specifiche soluzioni da adottare, in questo caso, per la sicurezza degli operatori in pedana.

In ogni caso, al di là che il VRR sia stato o meno immesso sul mercato secondo Direttiva Macchine e con riferimento alla norma armonizzata EN 1501-1, vale quanto disposto dall’articolo 71, comma 4) lettera a), numero 3) del D.Lgs.81/08, che impone (obbligo sanzionabile per il datore di lavoro):
Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano assoggettate alle misure di aggiornamento dei requisiti minimi di sicurezza stabilite con specifico provvedimento regolamentare adottato in relazione alle prescrizioni di cui all’articolo 18, comma 1, lettera z)”;
dove l’articolo 18, comma 1, lettera z) del D.Lgs.81/08 impone sempre al datore di lavoro di:
aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione”.
Pur non essendo stato promulgato il “provvedimento regolamentare” citato, vale comunque l’obbligo per il datore di lavoro di adeguare le attrezzature messe a disposizione dei lavoratori all’evolversi della tecnica.

L’evoluzione della tecnica ha come riferimento anche le norme armonizzate per le macchine.
Una norma armonizzata risponde infatti alla definizione di “norma tecnica” data dall’articolo 2, comma 1, lettera u) del D.Lgs.81/08:
specifica tecnica, approvata e pubblicata da un’organizzazione internazionale, da un organismo europeo o da un organismo nazionale di normalizzazione, la cui osservanza non sia obbligatoria”.
Tale norma non è cogente, ma fornisce comunque presunzione di adeguatezza al “grado di evoluzione della tecnica”.
Pertanto per il VRR citato, il datore di lavoro dovrà adeguare i dispositivi di sicurezza per gli operatori in pedana, secondo l’attuale norma armonizzata EN 1501-1:2011+A1:2015 oppure mediante soluzioni tecniche e organizzative di pari efficacia.
Ricordo che i requisiti per le pedane stabilite dalla norma citata sono:
-         riconoscimento automatico della presenza di operatore in pedana mediante rilevamento del peso, dello spazio occupato o della posizione della pedana;
-         limitazione della velocità del VRR a 30 km/h con pedane occupate;
-         inibizione della retromarcia del VRR a 30 km/h con pedane occupate;
-         inibizione della movimentazione automatica o semiautomatica del dispositivo di compattazione e di quello per il sollevamento dei contenitori;
-         presenza di sistema di esclusione dei dispositivi di sicurezza di cui sopra in condizioni di emergenza e procedura di reset della durata di 5 minuti dopo la fine dell’esclusione;
-         procedura di inizializzazione del sistema di riconoscimento all’accensione del VRR che senza esito positivo consideri il VRR come se avesse le pedane occupate;
-         presenza in cabina di segnalazione di pedana occupata;
-         presenza di telecamera e di video in cabina per la visualizzazione delle pedane;
-         presenza, in prossimità delle pedane, di pulsante “di chiamata” che attivi un segnale acustico in cabina;
-         realizzazione delle pedane e delle maniglie di presa per gli operatori secondo i requisiti funzionali e geometrici riportati nella norma.

L’adeguamento del VRR ai requisiti di cui sopra (e di tutti gli altri contenuti nella citata norma armonizzata), sia per veicoli marcati CE, che per veicoli non marcati, non comporta obbligo di nuova certificazione, ai sensi dell’articolo 71, comma 5 del D.Lgs.81/08 che specifica che:
Le modifiche apportate alle macchine quali definite all’articolo 1, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1996, n. 459 [attualmente articolo 2, comma 2, lettera a) del Decreto Legislativo 27 gennaio 2010, n. 17], per migliorarne le condizioni di sicurezza in rapporto alle previsioni del comma 1, ovvero del comma 4, lettera a), numero 3), non configurano immissione sul mercato ai sensi dell’articolo 1, comma 3, secondo periodo, sempre che non comportino modifiche delle modalità di utilizzo e delle prestazioni previste dal costruttore”.

In conclusione, qualunque sia stata la modalità di immissione sul mercato del VRR citato (ante Direttiva Macchine o in Direttiva Macchine), esso deve essere adeguato al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione, secondo quanto contenuto dalla attuale norma EN 1501-1, oppure secondo altre misure di prevenzione e protezione equivalenti.

CGIL CATANIA: CON LE MODIFICHE DEL JOBS ACT AUMENTANO I RISCHI PER LA SICUREZZA

Da: Rassegna.it
02 marzo 2016

In un convegno affrontate tutte le negatività del provvedimento, dallo stop all’obbligo di tenuta del Registro infortuni alla non applicazione delle norme ai lavoratori con i voucher.
Presentato anche il Coordinamento provinciale di RLS e RLST della CGIL

Le morti sul lavoro cancellano o compromettono ogni anno la vita di centinaia di lavoratori. Le norme italiane puntano sulla prevenzione, ma la CGIL non ha dubbi: le recenti modifiche del Jobs Act introducono parecchie zone d’ombra. Il sindacato, infatti, disapprova lo stop all’obbligo di tenuta del Registro infortuni, la modifica dell’impianto sanzionatorio, la riduzione dei componenti sindacali in Commissione consultiva, la non applicazione delle tutele ai lavoratori con i voucher, e altri “alleggerimenti” nella fase di formazione che appaiono temibili passi indietro.

Il seminario di studio “Dal Testo Unico al Jobs Act, come cambia la legislazione su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, tenutosi mercoledì 9 febbraio nella Sala Russo della Camera del lavoro di Catania, ha evidenziato i punti chiave delle modifiche.
Numerosi gli intervenuti: il segretario confederale CGIL Catania Claudio Longo (che ha coordinato i lavori), il segretario generale CGIL Catania Giacomo Rota, Massimo Malerba (Dipartimento Salute e sicurezza CGIL Catania), Domenico Amich (direttore Ispettorato provinciale del lavoro), gli ingegneri Enzo Maci e Sebastiano Trapani (anche presidente AIAS), Vincenzo Cubito (direttore Inca CGIL), Vito Leocata (medico legale INCA), l’ingegnere Luigi Di Mauro (Coca Cola), Daniele Maugeri (Report RLST) e il responsabile nazionale del Dipartimento Salute e sicurezza della CGIL Sebastiano Calleri.

Di “trend negativo” e “rialzo” delle morti sul lavoro in Italia ha parlato il direttore dell’Ispettorato provinciale del lavoro Domenico Amich. Sono state ben 678 nel 2015, escluse quelle avvenute sulla strada. E se nel febbraio 2015 erano 61 (dati nazionali), nel febbraio 2016 ne sono già state registrate 83.
“Il lavoratore è sempre più ricattato” - ha sottolineato - “Ha sempre meno spazio per rifiutare un lavoro, soprattutto se è avanti negli anni. Le percentuali sono impietose: abbiamo il 37 per cento dei morti in agricoltura, il 23 in edilizia, l’11 nel settore industrie, il 9 nei trasporti e un 20 per cento indifferenziato che va esaminato caso per caso”.

L’ingegnere Enzo Maci ha rimarcato che “i punti deboli della sicurezza sono messi in evidenza dagli infortuni che ogni anno vengono riassunti dai dati INAIL”. La cultura della sicurezza “andrebbe iniziata dalla scuola elementare, se non dal nido, per evitare che appunto permangano lacune legislative. Percorsi formativi semplici destinati ai lavoratori sono insufficienti per un’adeguata formazione”.

Per la CGIL, il rischio che infortuni e malattie professionali siano destinati ad aumentare è concreto. Ma è stato il responsabile nazionale del Dipartimento Salute e sicurezza della CGIL Sebastiano Calleri a evidenziare almeno quattro punti del Jobs Act che il sindacato giudica “pericolosi”.
“Partirei dal demansionamento” - ha detto Calleri - “Durante le relative procedure, il lavoratore può essere adibito a una nuova produzione o all’uso di una macchina per cui non è stata fatta formazione specifica. Il classico esempio è quello dell’impiegato che viene messo in linea di produzione, operando con mezzi di cui non conosce l’uso”.

C’è poi la questione voucher. “Per alcuni dei lavoratori impiegati attraverso questa formula” – ha spiegato – “è prevista la non applicazione delle tutele sullo stato di sicurezza della legislazione conseguente”.

Sul fronte della video-sorveglianza, il responsabile CGIL nazionale ha evidenziato come “oggi sia possibile effettuarla senza alcun controllo nei confronti dei lavoratori con gli strumenti, dal tablet al telefonino, messi a disposizione direttamente dall’azienda”.

Riguardo l’ultimo aspetto, quello dell’abolizione del Registro infortuni, secondo Calleri “sarà sempre più difficile ricostruire gli incidenti all’interno delle aziende e le storie sanitarie dei lavoratori per riconoscere loro un infortunio o una malattia professionale, anche in relazione agli indennizzi INAIL. Anche questa è una norma da cambiare”.

Massimo Malerba, del Dipartimento Salute e sicurezza della CGIL Catania, ha aggiunto che “il Registro infortuni era già stato abolito nel 2008, ma in previsione di introdurre un sistema informatizzato, il SINP, mai avviato”.
“Un’altra criticità” - ha continuato - “è rappresentata dal fatto che, a causa del Jobs Act, i datori di lavoro nelle aziende superiori ai cinque dipendenti possono rivestire il ruolo di addetti alla prevenzione nel sistema di antincendio ed evacuazione. Se ciò andava bene nelle piccole aziende familiari, in quelle medie diventa più complesso”.

Infine, le sanzioni: “Sono state alleggerite quelle multiple e quelle relative al lavoro irregolare, salvo che per stranieri e i minori”.

Ma il seminario è servito anche a lanciare il Coordinamento provinciale degli RLS e RLST della CGIL.
“Creare il Coordinamento consentirà continuità e costanza nell’azione” - ha concluso il segretario confederale CGIL Catania Claudio Longo - “La situazione oggi ci impone una legge più attenta, meglio ancora rigida. Voglio però lanciare una provocazione: anche se ci fosse la migliore legge del mondo, se non partiamo dal rispetto di una vera cultura sulla sicurezza, sulla prevenzione e sulla salute, ci abituiamo all’idea che tutto quello che diventa legge deve di fatto diventare regola. Se questo non accadrà, vanificheremo qualunque legge”.



AMBIENTI CONFINATI: QUALI SONO I RISCHI?

DaArticolo 19 (Città Metropolitana)
03 marzo 2016
di Maria Capozzi

AMBIENTI CONFINATI: COSA SONO E QUALI LE REGOLE?

Qualunque attività comporta rischi propri legati alla natura delle operazioni da svolgere e delle sostanze impiegate. In alcuni casi, però, le stesse attività svolte in condizioni ambientali diverse comportano rischi fondamentalmente diversi. Così è anche le attività degli impiantisti, che possono trovarsi a operare in ambienti difficili, sia per dimensioni e collocazione (ambienti ristretti, difficili da raggiungere, entrata/uscita difficoltose) sia per la possibile presenza di atmosfere pericolose (presenza di gas nocivi, carenza di ossigeno).

A semplice titolo esemplificativo, fanno parte degli ambienti confinati o sospetti di inquinamento: vasche, silos, camini, pozzi, cunicoli, canalizzazioni, fogne, serbatoi, condutture, stive, intercapedini, cisterne, autobotti, camere di combustioni, reattori dell’industria chimica.
Diverse sono le tipologie di rischio che possono presentarsi in un ambiente confinato:
-         per mancanza di ossigeno (asfissia) o per eccesso di ossigeno;
-         per inalazione o per contatto con sostanze pericolose, gas, vapori, fumi (intossicazione);
-         per presenza di gas/vapori infiammabili (esplosione o incendio);
-         per contatto con parti a temperatura troppo alta o troppo bassa (ustioni).

Sono poi presenti rischi diversi, causati da caduta dall’alto, urti, contatti con parti taglienti, schiacciamenti, scivolamenti, seppellimenti, annegamenti, esposizione ad agenti biologici, contatti con tensione elettrica, intrappolamento, stati emotivi legati ad ambienti chiusi e stretti, ecc.

In tali ambienti di lavoro, anche un semplice malore un infortunio di lieve entità può avere complicazioni aggiuntive proprio per la difficoltà a prestare l’adeguato soccorso all’infortunato.
Chi è chiamato a operare in tali ambienti dovrà pertanto possedere maggiori capacità professionali in quanto sarà esposto, sia ai rischi specifici connaturati alla mansione, sia a quelli aggiuntivi derivanti dall’operare in un ambiente confinato.

E’ proprio quanto richiede il D.P.R. 177/11, norma di recente emanazione, sulla qualificazione delle imprese e lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Non è facile orientarsi nell’attuale assetto normativo quando si parla di ambienti confinati.
Infatti non esiste un’unica norma che elenchi quali siano i luoghi di lavoro confinati, né che comprenda tutti gli obblighi di chi si trova a operare in tali realtà. Piuttosto occorre fare una valutazione delle caratteristiche dell’ambiente, delle sue specifiche geometriche e di aereazione, dell’uso che ne viene fatto e di quelli fatti in precedenza, delle eventuali sostanze che contiene.
In generale possiamo dire che le norme che regolamentano la materia appartengono a due tipologie diverse: norme di legge (D.P.R. 177/11; D.Lgs. 81/08, articolo 66, articolo 121 e Allegato IV, Punto 3) e norme tecniche (standard di riferimento, linee guida e procedure).

In ogni caso, c’è una comune linea di interpretazione che concorda nel ritenere che uno spazio confinato:
-         è un ambiente con aperture di ingresso uscita limitate;
-         non è un ambiente di lavoro usuale;
-         potrebbe contenere un’atmosfera pericolosa;
-         ha una sfavorevole ventilazione naturale;
-         potrebbe contenere sostanze inquinanti;
-         presenta rischi di sprofondamento/seppellimento;
-         presenta una configurazione interna che potrebbe causare l’intrappolamento del lavoratore;
-         potrebbe comportare, per l’attività svolta, grave rischio per la salute.
Prima di consentire l’accesso di lavoratori in un ambiente confinato è necessario valutarne i rischi al fine di determinare le misure di prevenzione e protezione che garantiscano la salute e la sicurezza dei lavoratori.
In linea generale la migliore misura di prevenzione è quella di cercare soluzioni alternative effettuando, se possibile, le operazioni di manutenzione, bonifica, ispezione, evitando l’ingresso dei lavoratori nell’ambiente confinato, anche con l’aiuto della tecnologia disponibile sul mercato.
Ad esempio ricorrendo all’ausilio di telecamere, attrezzature robotizzate, sostituzione del componente, ecc..

Qualora ciò non sia possibile è necessario acquisire tutte le informazioni occorrenti sulle caratteristiche dell’ambiente confinato (ad esempio sostanze presenti, utilizzi precedenti, dimensioni e configurazione dei luoghi, collegamenti con altri spazi) e delle attività da effettuare tenendo presente che questi spazi possono essere opportunamente progettati o modificati.
Poiché però può capitare che non ci siano alternative e che si debba comunque operare all’interno di spazi confinati occorre ricordare che, poiché in tali contesti i rischi sono particolari, non tutte le imprese o lavoratori autonomi possono eseguirla, ma devono essere in possesso di particolari requisiti tali da risultare “qualificati”.
La qualificazione delle imprese è una previsione già inserita nell’articolo 6, comma 8, lettera g) e nell’articolo 27 del D.Lgs. 81/08 (Testo Unico Sicurezza), attraverso l’emanazione di appositi Regolamenti. Lo scopo è quello di fare una selezione delle imprese più “virtuose” e pertanto in grado di operare non solo con competenza e professionalità, ma soprattutto in sicurezza.

Infatti il D.P.R. 177/11, in vigore dal 23 Novembre 2011, “Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati” dà tutta una serie di indicazioni e parametri che le aziende e i lavoratori autonomi debbono possedere per poter operare in questo settore.

QUANDO SI APPLICA LA NORMA?

Il Decreto si applica ogni qual volta ci si trova ad operare in ambienti “sospetti di inquinamento di cui agli articoli 66 e 121 del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, e negli ambienti confinati di cui all’allegato IV, punto 3, del medesimo Decreto Legislativo”, vale a dire in tutti quei casi (ad esempio silos, cunicoli, pozzi, serbatoi, stive, tubazioni, cabine, pozzetti, cisterne, vasche, ecc.) che, per le caratteristiche sopra indicate, ricadono nella categoria di spazio confinato o sospetto di inquinamento.

Proprio perché non esiste un elenco esaustivo di cosa sia e cosa non sia ambiente confinato, anche perché può diventarlo nel corso delle lavorazioni, laddove tale situazione non è evidente, è importante che prima di svolgere il lavoro, venga effettuata una attenta valutazione dei rischi mirata a stabilire se siamo o meno in presenza di attività in ambiente confinato, basandosi su alcuni parametri quali l’analisi delle caratteristiche dei luoghi in cui viene svolta l’attività e dalle modalità di esecuzione.

A CHI SI APPLICA LA NORMA?

La norma si applica sia a chiunque si trovi ad operare in ambienti confinati o sospetti di inquinamento sia direttamente con proprio personale sia a chi esegue tali lavori in appalto (e relativi subappalti), compresi i lavoratori autonomi.
Nel caso delle imprese che esternalizzano tali lavorazioni restano comunque in capo al committente alcuni specifici obblighi.

Un utile strumento per meglio capire come operare negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati è rappresentato dal “Manuale illustrato per lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati” dell’INAIL approvato dalla Commissione consultiva il 18 aprile 2012.
Tale documento è scaricabile all’indirizzo:


IL LUOGO DI LAVORO E LA GARANZIA DELLE SUE CONDIZIONI DI SICUREZZA

Da: PuntoSicuro
29 febbraio 2016
di Gerardo Porreca

Si intendono per “luoghi di lavoro” i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro ubicati all’interno di un’azienda/unità produttiva nonché ogni altro luogo di pertinenza delle stesse accessibili al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro.

E’ importante questa sentenza della Corte di Cassazione in quanto fornisce una interpretazione su quali siano da intendere i “luoghi di lavoro” così come definiti dall’articolo 62 del D.Lgs. 81/08 ai fini dell’applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro nello stesso contenute.
Si intendono per “luoghi di lavoro”, ha sostenuto infatti la suprema Corte, i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro ubicati all’interno di un’azienda o di un’unità produttiva della stessa nonché ogni altro luogo di loro pertinenza accessibile al lavoratore nell’ambito della propria attività lavorativa.
La Corte di Cassazione ha inoltre sottolineato che ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede così come si ricava dalla definizione del luogo di lavoro che ha dato il legislatore, laddove ha previsto un collegamento di ordine spaziale indicando “l’interno dell’azienda” o almeno pertinenziale tra l’azienda stessa oppure una sua unità produttiva e il luogo di lavoro.

L’Amministratore Delegato di una società proprietaria di una Galleria commerciale ha ricorso, a mezzo dei difensori, avverso una sentenza della Corte di Appello con la quale la stessa, confermando quella pronunciata dal Tribunale, lo ha condannato alla pena ritenuta equa, giudicandolo responsabile dell’infortunio occorso a una lavoratrice dipendente di un negozio di parrucchiera situato nella Galleria stessa e delle conseguenti lesioni personali dalla medesima patite. La lavoratrice, secondo una ricostruzione incontroversa dell’accaduto, nel transitare nell’ingresso dell’edificio che ospitava la Galleria, scivolava sul pavimento parzialmente coperto da tappeti mobili e bagnato per l’acqua caduta dall’ombrello chiuso di una cliente che l’aveva preceduta.
Ad avviso della Corte di Appello l’infortunio si era determinato a causa del mancato apprestamento di una adeguata copertura del pavimento dell’ingresso della Galleria e che, essendo questo da reputarsi “ambiente di lavoro”, competeva quindi all’imputato, in qualità di proprietaria dell’edificio, che non aveva mai delegato ad altri le funzioni in materia di antinfortunistica, di provvedere a porre in sicurezza il pavimento dell’ingresso.

Con il ricorso in Cassazione l’imputato ha addotto in particolare un vizio motivazionale e una violazione di legge in relazione alla ritenuta aggravante dell’aver commesso il fatto con violazione di norme per la prevenzione degli infortuni non essendo esso il datore di lavoro dell’infortunata che era invece dipendente dell’esercente del negozio di parrucchiere.
L’imputato ha messo in evidenza, altresì, che non sussistendo alcun rapporto di appalto tra la società proprietaria della Galleria e l’esercente dell’attività di parrucchiere, che aveva preso in locazione alcuni locali all’interno delle Galleria stessa, non andava applicato neanche l’articolo 26 del D.Lgs. 81/08 e non incombevano quindi su di esso i doveri in materia di coordinamento che la norma pone in capo al datore di lavoro committente.
L’imputato ha sostenuto ancora che, non sussistendo conseguentemente l’aggravante dell’aver commesso il fatto con violazione di norme per la prevenzione degli infortuni, il reato era procedibile a querela, nella fattispecie non proposta, aggiungendo che il luogo dell’infortunio non poteva essere definito “ambiente di lavoro”, ai sensi e per gli effetti degli articoli 63 e 64 del D.Lgs. 81/08.

E’ del tutto incontroverso, ha sostenuto la suprema Corte di Cassazione, che l’imputato era Amministratore Delegato della società proprietaria dei locali che costituivano il Centro commerciale e che gli stessi erano concessi in locazione alle diverse imprese che avevano deciso di operare nello stesso così come incontroverso era che l’infortunata non fosse alle dipendenze della società che amministrava la Galleria.

Con riferimento alla figura del datore di lavoro, ha precisato la Corte di Cassazione, già la nozione normativa di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 81/08, incardinandosi sulla titolarità di poteri decisionali e di spesa e sulla connessa responsabilità dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha evidenziata la necessità di limitare lo sguardo ricognitivo al perimetro di una determinata organizzazione imprenditoriale della quale va ricostruita la catena gestionale.
Detto altrimenti, ha precisato la suprema Corte, nell’accertamento della esistenza di una concreta posizione di garanzia, premessa dell’attribuzione di uno specifico evento concreto, non interessa un qualsiasi soggetto datore di lavoro, ma colui che ne reca le attribuzioni in riferimento alla determinata organizzazione imprenditoriale nel cui ambito presta la propria attività il lavoratore infortunatosi.

“A mente dell’articolo 62 del D.Lgs. 81/08” - ha quindi sostenuto la Suprema Corte - “si intendono per luoghi di lavoro i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”.
La Corte di Cassazione ha inoltre ritenuto opportuno rimarcare che “ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede” e ciò si ricava proprio dalla definizione che il legislatore ha voluto dare di un luogo di lavoro, laddove ha previsto un collegamento di ordine spaziale (“all’interno dell’azienda”) o almeno pertinenziale tra l’azienda o l’unità produttiva e il luogo di lavoro stesso, e lo implica la logica stessa della normativa prevenzionistica che attribuisce obblighi di sicurezza a colui che é titolare di poteri organizzativi e decisionali che trovano nei luoghi di lavoro l’ambito spaziale e funzionale di estrinsecazione.

La Suprema Corte ha quindi puntualizzato che “proprio ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di luogo di lavoro a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro” e che in particolare “può trattarsi anche di un luogo nel quale i lavoratori si trovino esclusivamente a dover transitare, se tuttavia il transito é necessario per provvedere alle incombenze loro affidate”.
La Corte di Cassazione ha ricordato che già in passato la stessa ha avuto modo di esprimersi in tal senso in una precedente Sentenza (Sentenza n. 28780 del 19/05/11) allorquando, in occasione di infortunio verificatosi su una strada pubblica e aperta al pubblico transito, esterna a un cantiere, ha formulato il principio per il quale nella nozione di “luogo di lavoro”, rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra non soltanto il cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere a incombenze inerenti all’attività che si svolge nel cantiere stesso.

Per contro, e qui la suprema Corte ha individuata una grave lacuna motivazionale nella Sentenza impugnata “Non può parlarsi di luogo di lavoro (da preferirsi in questo caso alla locuzione utilizzata dalla Corte di Appello di ambiente di lavoro) solo sul presupposto che un qualsiasi soggetto, che é anche prestatore d’opera in favore di taluno, vi si trovi a transitare. Va ribadita la stretta correlazione che esiste tra la nozione di luogo di lavoro e la specifica organizzazione imprenditoriale alla quale questo accede in funzione servente; correlazione che deriva dalla necessità che si tratti di ambito spazio-funzionale sul quale possano e debbano estendersi i poteri decisionali del vertice della compagine”.
Può quindi, ha sostenuto la Corte di Cassazione, essere formulato il seguente principio di diritto: “In materia di responsabilità per violazioni delle norme antinfortunistiche, il datore di lavoro obbligato al rispetto delle prescrizioni dettate dal Titolo II del D.lgs. 81/08 per la sicurezza dei luoghi di lavoro va identificato in colui che riveste tale ruolo nell’organizzazione imprenditoriale alla quale accede il luogo di lavoro medesimo”.

Alla luce di tale puntualizzazione risulta chiaro, secondo la Corte di Cassazione, che l’attribuzione al ricorrente di una posizione di garanzia tra quelle definite dalla normativa prevenzionistica, e segnatamente quella di datore di lavoro, avrebbe richiesto la preliminare qualificazione dell’area di ingresso del Centro commerciale come luogo di lavoro della società proprietaria. In caso contrario un eventuale obbligo di assicurarsi della non pericolosità dell’area si sarebbero potuti far discendere unicamente dalla proprietà degli spazi con esclusione, quindi, della violazione di obblighi datoriali e procedibilità a querela del reato.
La Suprema Corte ha quindi voluta fare una puntualizzazione in merito alla possibilità che anche una persona estranea all’organigramma dell’impresa, come era la lavoratrice infortunata rispetto alla società proprietaria della Galleria, potesse beneficiare della tutela apprestata dalla normativa prevenzionistica non essendo la qualità di persona estranea all’ambito imprenditoriale di per sé incompatibile con l’esistenza di un dovere di sicurezza da parte del datore di lavoro.

Per le suindicate motivazioni, quindi, la Corte di Cassazione ha annullata la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello perché accertasse se l’ingresso dell’edificio ove era avvenuto il sinistro in danno della lavoratrice fosse stato, al tempo, luogo destinato ad ospitare posti di lavoro ovvero luogo accessibile nell’ambito del loro lavoro ai lavoratori dipendenti della società proprietaria della Galleria commerciale e, in caso positivo, verificare se sussistessero le condizioni perché la tutela che l’imputato, nella sua qualità, avrebbe dovuto apprestare a vantaggio dei propri dipendenti, dovesse ritenersi estesa anche alla lavoratrice infortunata.

La Sentenza n. 40721 del 9 ottobre 2015 della Corte di Cassazione Penale è consultabile all’indirizzo:



PREVENZIONE DI MOLESTIE E VIOLENZE: COSA CAMBIA NEI LUOGHI DI LAVORO?

Da: PuntoSicuro
02 marzo 2016
di Tiziano Menduto

L’Accordo firmato a gennaio parla di combattere violenza e molestie nei luoghi di lavoro. Quali conseguenze avrà? Che misure preventive è necessario prendere per garantire salute e sicurezza ai lavoratori? Le indicazioni di Giulia Barbucci della CGIL.

Malgrado i ritardi accumulati dalle parti sociali del nostro paese (quasi nove anni!) e il rischio che anche gli ottimi propositi, se non supportati norme ad hoc, siano solo buone intenzioni sulla carta, è necessario sottolineare l’importanza della firma del 25 gennaio 2016 che le principali parti sociali italiane hanno apposto all’Accordo quadro sulle molestie e sulla violenza sul luogo di lavoro firmato il 26 aprile 2007 dalle parti sociali europee.

Un’importanza relativa non tanto e non solo a un Accordo non facile e non scontato (tanto da richiedere nove anni di gestazione...) tra parti sociali datoriali e sindacali che non sempre, in materia di sicurezza, riescono utilmente ad unire le forze per migliorare la prevenzione in Italia... L’importanza di questo Accordo “volontario” nasce principalmente dalla rilevanza che in questi anni di crisi congiunturale, di aumento delle tensioni nelle aziende, di instabilità del mondo del lavoro, ha assunto il tema delle violenze e delle molestie nei luoghi di lavoro.

E del fatto che in questa acuirsi delle tensioni servisse un argine e, prima ancora, una presa di coscienza netta e consapevole, se ne sono accorte le parti sociali che finalmente hanno “recepito” l’Accordo europeo.

Quello che rimane da chiedersi ora, dopo aver cercato di conoscere i motivi di questi “ingiustificabili” ritardi, è che cosa accadrà...
Come si è arrivati all’Accordo? Quali sono i punti qualificanti? Che conseguenze avrà l’Accordo recepito? Come portare la “tolleranza zero” verso comportamenti come molestie e/o violenza nelle aziende?

Per avere qualche risposta abbiamo intervistato una delle persone che hanno lavorato in questi anni al recepimento, tra le parti sociali, dell’Accordo europeo su molestie e violenza: Giulia Barbucci che lavora nell’Area delle politiche europee e internazionali della CGIL.

PuntoSicuro
Cominciamo a raccontare qualcosa dell’Accordo europeo del 2007 recepito dalle parti sociali...
Giulia Barbucci
Intanto l’Accordo firmato dalle parti sociali europee il 26 aprile 2007 è il terzo Accordo autonomo negoziato dalle parti sociali europee a livello intersettoriale, a seguito di una consultazione della Commissione europea sul tema della violenza sui luoghi di lavoro e dei suoi effetti sulla salute e sicurezza sul lavoro. Ed essendo un Accordo autonomo, e non una Direttiva, prevede l’applicazione, volontaria, nei vari Paesi, attraverso accordi tra le parti sociali.
In particolare l’Accordo mira a impedire e a gestire i problemi di prepotenza, molestie sessuali e violenza fisica sui luoghi di lavoro. Esso condanna tutte le forme di molestia e violenza e conferma il dovere del datore di lavoro di tutelare i lavoratori contro tali rischi. Le imprese sono tenute ad adottare una politica di tolleranza zero contro tali comportamenti e a fissare procedure per gestire i casi di molestie e violenza, che possono comprendere una fase informale con la partecipazione di una persona terza che goda della fiducia della direzione e dei lavoratori. I ricorsi andranno esaminati e risolti rapidamente. Occorre rispettare i principi di dignità, riservatezza, imparzialità ed equo trattamento. Contro i colpevoli saranno adottate misure adeguate, dall’azione disciplinare fino al licenziamento, mentre alle vittime sarà fornita assistenza nel processo di reinserimento.
Chiaramente l’Accordo andava poi applicato dai membri nazionali delle parti firmatarie, conformemente alle procedure e alle prassi delle parti sociali negli Stati membri, come disposto dall’articolo 139 del Trattato CE e andava attuato entro 3 anni dalla firma.


P.S.
Qual è l’aspetto più significativo dell’Accordo europeo?
G.B.
Ad esempio il fatto che l’Accordo opta per un approccio attivo piuttosto che giuridico al fine di risolvere il problema delle molestie e della violenza a livello dell’impresa.

P.S.
Una domanda a questo punto viene spontanea: perché in Italia l’Accordo è stato recepito con quasi nove anni di ritardo?
G.B.
Non si può nascondere che il ritardo delle parti sociali italiane è dipeso, in parte, da un atteggiamento di chiusura da parte delle organizzazioni datoriali. Già negli anni scorsi si era tentato di procedere alla traduzione del testo dell’Accordo in italiano (fa fede la versione inglese), ma anche questo tentativo era fallito.
Poi a seguito di incontri delle parti sociali europee, a Berlino e a Roma, le organizzazioni sindacali italiane hanno tentato di rilanciare la questione, tenuto conto anche del fatto che tutti i Paesi più importanti dell’UE avevano attuato già l’Accordo e per evitare un eventuale intervento della Commissione europea. E finalmente si è arrivati all’attuazione dell’Accordo anche in Italia...

P.S.
Diamo ancora qualche informazione sull’Accordo europeo: a chi si applica? a che tipo di molestie e violenze si fa riferimento? quali sono le parti più rilevanti?
G.B.
Come già detto con l’Accordo le parti sociali europee condannano fermamente le molestie e la violenza in tutte le loro forme che possono presentarsi in tutti i luoghi di lavoro e colpire qualsiasi lavoratore tenendo conto anche che del fatto che alcuni gruppi e settori possono essere più a rischio di violenza. E l’Accordo si applica a tutti i luoghi di lavoro e a tutti i lavoratori indipendentemente dalla dimensione dell’azienda, della sua attività e tipologia contrattuale. L’Accordo riconosce anche che l’UE e le leggi nazionali definiscono i doveri dei datori di lavoro nel proteggere i lavoratori contro le molestie e la violenza nei luoghi di lavoro.
L’Accordo afferma, inoltre, che le molestie e la violenza sono causate da comportamenti inaccettabili da parte di uno o più individui e che possono avere forme differenti: fisiche, psicologiche e/o sessuali, costituire un singolo episodio o avere un carattere più sistematico, avere luogo tra colleghi, tra superiori e subordinati o da parte di terzi, a partire da casi di minore entità, fino a casi più gravi che richiedono l’intervento delle autorità pubbliche. E si fornisce una metodologia agli imprenditori, ai lavoratori e ai loro rappresentanti per prevenire, identificare e gestire problemi di molestie e violenza sui luoghi di lavoro.
Direi che gli elementi centrali dell’Accordo sono:
-         il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro, in consultazione con i lavoratori e/o il sindacato di determinare, rivedere e monitorare le procedure appropriate per prevenire e affrontare il fenomeno;
-         il richiedere all’impresa di avere una chiara posizione che sottolinei che le molestie e la violenza nei luoghi di lavoro non sono tollerate e di specificare le procedure da seguire in caso di problemi, attraverso misure appropriate contro gli autori della violenza, fornendo supporto alle vittime;
-         il riconoscimento che procedure aziendali preesistenti possano essere idonee nel trattare molestie e violenza nei luoghi di lavoro.
Senza dimenticare che nell’Accordo si affrontano anche casi di violenza da parte di terzi.

P.S.
Veniamo ora al recepimento in Italia dell’Accordo, firmato il 25 gennaio 2016 da CGIL, CISL, UIL e Confindustria. Una domanda che sorge spontanea riguarda le conseguenze di queste firme. Cosa cambia nella realtà? Qual è il valore aggiunto di questo Accordo rispetto al passato?
G.B.
Sicuramente il valore aggiunto dell’Accordo sta nell’aver avviato e rilanciato il dialogo tra le parti sociali su come combattere il fenomeno della violenza e delle molestie nei luoghi di lavoro. Implementando ora l’Accordo a livello nazionale si cerca di elaborare misure concrete, strumenti e procedure per prevenire, identificare e gestire tali fenomeni.
Bisogna poi sottolineare che l’Accordo copre le molestie e la violenza in tutte le loro forme. E questo malgrado la posizione iniziale dei datori di lavoro nel corso dei negoziati fosse quella che l’Accordo dovesse trattare esclusivamente delle molestie. E si sottolinea che le molestie e la violenza possono avere sia serie conseguenze sociali che ripercussioni economiche.
E in pratica con l’Accordo, una volta riconosciuta l’applicabilità della legislazione esistente a livello europeo e nazionale, si indica che se si chiarisce un legame della violenza, della molestia con il luogo di lavoro, le parti sociali se ne devono occupare anche se l’autore è al di fuori dell’azienda.
Si riconosce poi che il datore di lavoro ha la responsabilità di agire nei casi che ricadono sotto la propria responsabilità nel proteggere i suoi lavoratori. E si segnala che le PMI e anche particolari gruppi o settori possono essere maggiormente a rischio, anche con riferimento alla violenza da parte di terzi.

P.S.
L’Accordo europeo indica poi che una maggiore consapevolezza e un’adeguata formazione posso ridurre l’eventualità di molestie e violenza nei luoghi di lavoro... Chi deve essere formato? Si prevede l’adozione di procedure particolari?
G.B.
Le misure previste, quali quelle di aumentare la consapevolezza del fenomeno e la previsione di formazione specifica, si applicano a tutti, lavoratori e manager.
Inoltre le imprese hanno l’obbligo di non tollerare molestie e violenza, quindi è necessario definire specifiche procedure, compresa la nomina di una persona di fiducia, decisa congiuntamente tra impresa e lavoratori, che può essere un collega di lavoro o un esperto esterno quale ad esempio uno psicologo del lavoro.
Segue poi una lista non esaustiva di azioni che possono essere parte della procedura stabilita a livello aziendale. Si prevedono anche azioni disciplinari nei confronti degli autori della violenza e la presa in carico delle vittime sia attraverso il totale reintegro nel posto di lavoro, comprese misure per prevenire che la vittima sia soggetta ad ulteriori relazioni intollerabili con l’autore delle violenze. Il datore di lavoro dovrà inoltre fornire sostegno e aiuto legale alla vittima.

P.S.
Nel documento di attuazione dell’Accordo si parla anche di incontro tra le parti per individuare alcune strutture...
G.B.
Sì, nell’Accordo si affida alle parti sociali sul territorio il compito di individuare le strutture più idonee nell’assicurare una adeguata assistenza a coloro che siano stati vittime di molestie o violenza nei luoghi di lavoro, ferma restando la facoltà delle singole imprese di adottare ulteriori specifiche soluzioni.

P.S.
Si sta già lavorando per identificare queste strutture? E non è prevista una struttura a livello nazionale?
G.B.
Si è valutato che le parti sociali a livello locale, per la loro maggiore conoscenza del territorio, siano le più adatte a proporre strutture valide alla gestione e risoluzione dei problemi...

P.S.
Sempre riguardo agli aspetti pratici, concludiamo ricordando che nel recepimento degli accordi è inserita una dichiarazione per le aziende sull’inaccettabilità di ogni atto o comportamento che si configuri come molestie o violenza. Qual è il valore e l’importanza di questa dichiarazione?
G.B.
Al di là del recepimento dei contenuti dell’Accordo europeo, le parti hanno valutato che potesse essere importante che le singole aziende adottassero una dichiarazione di impegno e sensibilizzazione di questi fenomeni, per garantire che questi non sono tollerati in alcun modo e che l’azienda debba essere un luogo in cui vi sia sicurezza per tutti.

Il documento “Accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro tra Confindustria, CGIL, CISL E UIL”, recepimento dell’Accordo delle parti sociali europee del 26 aprile 2007 è scaricabile all’indirizzo:

L’ESPOSIZIONE FEMMINILE A STRESS, VIOLENZE E STALKING

Da: PuntoSicuro
08 marzo 2016

In occasione della festa dell’8 marzo un articolo sulla sicurezza in ottica di genere: l’esposizione femminile ai rischi psico-sociali, ai fattori di stress, al mobbing, alle intimidazioni, alle molestie sessuali e alle violenze sul lavoro.

Diverse pubblicazioni in questi anni hanno segnalato come le patologie psichiche siano molto in crescita tra le donne, con la depressione che è la principale causa di disabilità tra i 15 e i 44 anni e una percentuale del 20% di donne che usa ansiolitici (il 15% antidepressivi) contro il 9% degli uomini. E in alcune attività a prevalente occupazione femminile, come l’attività infermieristica, la probabilità di essere vittime di atti di violenze sul lavoro sono ben tre volte superiori rispetto alle altre categorie di lavoratori.

Ne parliamo in occasione della giornata internazionale della donna, una giornata che non deve servire solo a ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne acquisite nel tempo (spesso molto tardi: in Italia il suffragio universale, diversamente da molti altri paesi europei, arriverà solo nel 1945). Ma deve servire anche a mettere in luce le discriminazioni e le violenze sulle donne, anche in ambito lavorativo, che sono ancora presenti in molte parti del mondo, compreso il nostro paese.

A dimostrazione di ciò è sufficiente verificare come la ricerca in materia di salute e sicurezza del lavoro orientata al genere sia un filone di indagine recente. Un ambito di ricerca che ha il compito di considerare i rischi lavorativi non più da un punto di vista “neutro”: bisogna tener conto delle differenze di genere e offrire strategie di prevenzione più adeguate ed efficaci.

Per affrontare oggi il tema dell’esposizione femminile ai rischi psico-sociali, alle molestie e violenze sul lavoro, torniamo a presentare il contenuto di una pubblicazione dell’INAIL, dal titolo “Lavoro, sicurezza e benessere al femminile: il fattore donna al centro delle nuove sfide nel mercato del lavoro” a cura di Emma Pietrafesa, Chiara Brunetti e Maria Castriotta.

La pubblicazione ricorda che la presenza di stress nel mondo del lavoro è correlata a diversi fattori:
-         il tipo di lavoro svolto (problemi con attrezzature inadeguate, ripetitività dei compiti, carico di lavoro eccessivo o insufficiente, lavoro a turni o orari rigidi);
-         la posizione nella gerarchia organizzativa (immobilismo professionale e assenza di prospettive, comunicazione carente, isolamento sociale o fisico);
-         la discriminazione; le difficoltà di conciliare lavoro e vita privata; le molestie sessuali).

E si segnala che rispetto ai colleghi maschi, l’esposizione femminile a tali fattori di rischio è molto superiore a causa delle discriminazioni subite sul lavoro e delle maggiori responsabilità domestiche e familiari.
Monotonia, scarsa autonomia, orari rigidi di lavoro, impiego in mansioni emotivamente gravose (come accade per le infermiere o per le insegnanti che, ad esempio, lavorano molte ore in piedi, in ambienti rumorosi, fattori che già di per sé rappresentano un rischio per la salute, spesso anche a contatto con bambini con disturbi), sono tutti fattori di stress particolarmente onerosi per le donne, proprio alla luce del ruolo sociale che ricoprono.

Se diverse sono dunque le cause che provocano l’insorgere di stress nei lavoratori appartenenti a sessi diversi, persino quando si trovano a operare in uno stesso ambiente di lavoro, diverse dovranno essere anche le strategie di prevenzione.
Dovranno, in definitiva, tener conto delle differenze uomo-donna e considerare come fattori di stress anche le molestie sessuali, le discriminazioni, le responsabilità verso la famiglia e altri fattori che colpiscono maggiormente e più direttamente le donne.

Per esempio le molestie sessuali (manifestazioni verbali come battute a sfondo sessuale, non verbali come sguardi fissi e prolungati, e fisiche, come i contatti fisici non richiesti, ecc.) sono un fattore di stress percepito molto più frequentemente dalle donne che dagli uomini e denunciato dal 30-50% delle lavoratrici contro il 10% dei lavoratori, secondo alcuni studi condotti dalla Commissione Europea Lavoro e Affari Sociali.
Senza dimenticare che spesso le molestie sessuali non vengono denunciate per paura di perdere il posto di lavoro o per il timore di ritrovarsi emarginate dai colleghi.

Anche le intimidazioni e il mobbing sono fattori di stress, dagli accertati effetti sintomatologici sul piano della salute fisica, mentale e psicosomatica della vittima che li subisce, quali stress, depressione, diminuzione dell’autostima, sensi di colpa, fobie, disturbi del sonno e degli apparati digestivo e muscolo-scheletrico; anche questo tipo di rischi è percepito con maggiore frequenza rispetto ai colleghi uomini.

E se le violenze legate al lavoro colpiscono anche gli uomini, le donne ne sono comunque maggiormente esposte: ciò è dovuto anche al loro massiccio impiego in lavori a contatto con il pubblico, dal momento che gli atti violenti sui luoghi di lavoro sono diffusissimi proprio in quelle professioni che prevedono contatto con clienti, pazienti, studenti, ecc..
E nello specifico gli ambienti più a rischio riguardo alle violenze sono costituiti dal settore terziario, con particolare riferimento alle aziende che operano nel settore sanitario, dei trasporti, della vendita al dettaglio, dell’istruzione e del settore dell’industria alberghiera.
E le figure più esposte ai pericoli sono: infermieri, conducenti di mezzi pubblici, cassieri di banche e supermercati, assistenti sociali e personale di bar e ristoranti. La gestione di denaro contante, l’incombenza di dover far rispettare delle regole, il fatto di compiere un lavoro isolato o con pochi colleghi: sono tutti elementi che rappresentano potenziali fattori di rischio.

Ricordiamo a questo proposito che il 25 gennaio 2016 è stato finalmente è stato firmato da CGIL, CISL, UIL e Confindustria l’Accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro che recepisce, dopo quasi nove anni, l’accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro raggiunto nel 2007 dalle rispettive rappresentanze a livello europeo (Businesseurope, Ceep, Ueapme e Etuc).

Concludiamo l’articolo presentando brevemente una scheda di approfondimento del documento INAIL dedicata allo stalking.
Infatti alcuni comportamenti come telefonate, sms, e-mail, visite a sorpresa e perfino l’invio di fiori o regali, possono essere graditi segni di affetto che, tuttavia a volte, possono trasformarsi in vere e proprie forme di persecuzione in grado di limitare la libertà di una persona e di violare la sua privacy. E la persecuzione avviene solitamente mediante reiterati tentativi di comunicazione verbale e scritta, appostamenti e intrusioni nella vita privata.

I contesti in cui si manifesta lo stalking riguardano nella maggior parte dei casi la relazione di coppia (55%), il condominio, la famiglia (figli/fratelli/genitori), ma nel 15% dei casi riguardano anche il posto di lavoro/scuola/università.
La scheda indica che il “molestatore assillante” (stalker) manifesta un complesso insieme di comportamenti che comprende l’aspettare, l’inseguire, il raccogliere informazioni sulla “vittima” e sui suoi movimenti, comportamenti che sono quasi sempre tipici di tutti gli stalker, al di là delle differenze rilevate di situazione in situazione.
E si segnala che alcuni studi su questo fenomeno hanno distinto due categorie di comportamenti attraverso i quali si può attuare lo stalking:
-         la prima tipologia comprende le comunicazioni intrusive, che includono tutti i comportamenti con lo scopo di trasmettere messaggi sulle proprie emozioni, sui bisogni, sugli impulsi, sui desideri o sulle intenzioni, tanto relativi a stati affettivi amorosi (anche se in forme coatte o dipendenti) che a vissuti di odio, rancore o vendetta: i metodi di persecuzione adottati, di conseguenza, sono forme di comunicazione con l’ausilio di strumenti come telefono, lettere, sms, e-mail o perfino graffiti o murales;
-         il secondo tipo di comportamenti di stalking è costituito dai contatti, che possono essere attuati sia attraverso comportamenti di controllo diretto, quali ad esempio pedinare o sorvegliare, che mediante comportamenti di confronto diretto, quali visite sotto casa o sul posto di lavoro, minacce o aggressioni.

Concludiamo ricordando le tre caratteristiche di una molestia perché si possa parlare di stalking;
-         l’attore della molestia, lo stalker, agisce nei confronti di una persona che è designata come vittima in virtù di un investimento ideo-affettivo, basato su una situazione relazionale reale oppure parzialmente o totalmente immaginata (in base alla personalità di partenza e al livello di contatto con la realtà mantenuto);
-         lo stalking si manifesta attraverso una serie di comportamenti basati sulla comunicazione e/o sul contatto, ma in ogni caso connotati dalla ripetizione, insistenza e intrusività;
-         la pressione psicologica legata alla “coazione” comportamentale dello stalker e al terrorismo psicologico effettuato, pongono la vittima “stalkizzata”, definita anche stalking victim, in uno stato di allerta, di emergenza e di stress psicologico.

Il documento dell’INAIL “Lavoro, sicurezza e benessere al femminile. Il fattore donna al centro delle nuove sfide nel mercato del lavoro”, documento curato da Emma Pietrafesa, Chiara Brunetti e Maria Castriottaè scaricabile all’indirizzo:


Nessun commento:

Posta un commento