NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
ADEGUAMENTO
DI MACCHINE MARCATE CE ALLA NORMATIVA TECNICA DI RIFERIMENTO
LE
CONSULENZE DI SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! – N.72
Come
sapete, uno degli obiettivi del progetto SICUREZZA – KNOW YOUR RIGHTS! è anche
quello di fornire consulenze gratuite a tutti coloro che ne fanno richiesta, su
tematiche relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Da quando è nato il progetto ho ricevuto decine di richieste e devo dire
che per me è stato motivo di orgoglio poter contribuire con le mie risposte a
fare chiarezza sui diritti dei lavoratori.
Mi sembra doveroso condividere con tutti quelli che hanno la pazienza di
leggere le mie newsletters, queste consulenze.
Esse trattano di argomenti vari sulla materia e possono costituire
un’utile fonte di informazione per tutti coloro che hanno a che fare con casi
simili o analoghi.
Ovviamente per evidenti motivi di riservatezza ometterò il nome delle
persone che mi hanno chiesto chiarimenti e delle aziende coinvolte.
Marco Spezia
QUESITO
Salve ing.,
volevo
chiederle un informazione/parere sulla seguente questione.
L’azienda
dove lavoro possiede una macchina del 2000 marcata CE (automezzo con
compattatore rifiuti a carico posteriore). La parte del compattatore è una
macchina conforme alla Direttiva Macchine e conforme alla norma tecnica di
riferimento del momento.
Oggi però
gli stessi mezzi sono conformi alla Direttiva Macchine e alla norma UNI EN
1501, che prevede come dispositivi di sicurezza per esempio: il limitatore di
velocità (a 30 km/h)
con l’uomo in pedana, blocco della retromarcia con uomo in pedana (tranne
manovre di emergenza), telecamera per l’autista ecc..
Queste
predisposizioni non erano obbligatorie nei mezzi più vecchi (comunque marcati
CE), per esempio il mezzo di cui parlavo all’inizio era dotato di cintura di
trattenuta per l’uomo in pedana, ma non di limitatore di velocità.
Ora la mia
domanda è la seguente.
La macchina
del 2000 marcata CE, conforme alla Direttiva Macchine e alla norma tecnica
dell’epoca, deve essere adeguata ai dispositivi di sicurezza previsti oggi
(norma UNI EN 1501)?
Oppure
essendo marcata CE deve essere usata conformemente al libretto d’uso e manutenzione
del costruttore e mantenuta per come è stata realizzata?
Dalla mia
esperienza in questo campo, mentre è chiaro che se una macchina è antecedente
alla prima Direttiva Macchina (quindi senza marcatura CE) è obbligatorio
adeguarla all’allegato V del D.Lgs 81/08 e comunque adeguarla allo stato
dell’arte di oggi in termini di dispositivi di sicurezza, non mi era mai
capitato il caso di una macchina marcata CE (prima Direttiva
Macchine), però non in linea con i requisiti di oggi della norma tecnica
di riferimento (UNI EN 1501).
In attesa di
un suo riscontro, la saluto cordialmente.
RISPOSTA
Prima di
ogni altra considerazione andrebbe fatta una verifica sulla data di immissione
sul mercato del Veicolo Raccolta Rifiuti (VRR) di cui stai parlando.
Infatti nel
2000 esisteva già la norma armonizzata per VRR EN 1501-1:1998 “Refuse
collection vehicles and their associated lifting devices - General requirements
and safety requirements - Rear-end loaded refuse collection vehicles” (del
marzo 1998) che venne recepita in Italia il 30/01/00 dalla norma UNI EN
1501-1:2000 “Veicoli raccolta rifiuti e relativi dispositivi di sollevamento -
Requisiti generali e di sicurezza - Veicoli raccolta rifiuti a caricamento
posteriore”.
Tale norma
prevedeva già la limitazione di velocità a 30 km/h e l’inibizione
della retromarcia con pedane occupate.
Infatti il
punto 6.6.4.3 della norma (versione italiana) specificava che:
“Se qualcuno è presente sulle pedane deve
essere automaticamente impedito:
-
viaggiare ad oltre 30 km/h;
-
viaggiare in retromarcia.
Deve essere fornito un comando
addizionale che permette di inserire ugualmente la retromarcia in caso di
emergenza dovuta al traffico stradale.
Questo comando di emergenza deve
essere posizionato in modo tale che l’autista lo possa raggiungere facilmente
dalla posizione di guida. Tale comando di emergenza deve inoltre disabilitare
sia il meccanismo di compattazione che il dispositivo di sollevamento
(alza-voltacontenitori) e richiede di dover essere ripristinato tramite chiave
prima che il meccanismo di compattazione o il dispositivo di sollevamento
possano essere riavviati. La chiave di ripristino deve essere custodita
separatamente da quella del VRR”.
Quindi già
un VRR del 2000 doveva essere immesso sul mercato con riferimento alla norma
armonizzata sopra citata.
Tieni conto
però che secondo Direttiva Macchine (sia la 98/37/CE, sia la 2006/42/CE) il
costruttore non è obbligato a seguire integralmente le norme armonizzate
relative alle macchine che lui vuole immettere sul mercato, non avendo tali
norme carattere di cogenza, ma solo di guida.
Il rispetto
di tutti i punti di una norma armonizzata, dà infatti automaticamente
“presunzione di
conformità”
a tutti i requisiti di salute e di sicurezza di cui all’Allegato I della
Direttiva Macchine, requisiti questi ultimi che sono invece obbligatori.
Infatti
l’articolo 3 della Direttiva 98/37/CE impone che:
“Le
macchine e i componenti di sicurezza ai quali si applica la presente Direttiva
devono rispondere ai requisiti essenziali ai fini della sicurezza e della
tutela della salute di cui all’allegato I”;
mentre relativamente alle norme
armonizzate tale Direttiva specifica, all’articolo 5, comma 2, che:
“Se
una norma nazionale che traspone una norma armonizzata il cui riferimento sia
stato oggetto di una pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità
europee comprende uno o più requisiti essenziali di sicurezza, la macchina o il
componente di sicurezza costruito conformemente a detta norma è presunto
conforme ai requisiti essenziali di cui trattasi”.
Analogamente
l’articolo 5, comma 1, lettera a) della Direttiva 2006/42/CE impone che:
“Il
fabbricante o il suo mandatario, prima di immettere sul mercato e/o mettere in
servizio una macchina si accerta che soddisfi i pertinenti requisiti essenziali
di sicurezza e di tutela della salute indicati dall’allegato I”;
mentre l’articolo 7, comma 2 della
medesima Direttiva specifica che:
“Le
macchine costruite in conformità di una norma armonizzata, il cui riferimento è
stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, sono presunte
conformi ai requisiti essenziali di sicurezza e di tutela della salute coperti
da tale norma armonizzata”.
In sede di
procedura di certificazione, che per i VRR (macchina compresa nell’Allegato IV
della Direttiva Macchine, in quanto con rischi elevati) prevede il
coinvolgimento di un Organismo Notificato che rilasci una Dichiarazione CE di
Tipo, il costruttore nel caso non abbia seguito integralmente la norma
armonizzata di riferimento deve comunque dimostrare, all’interno della analisi
dei rischi contenuta nel Fascicolo Tecnico della macchina, che ha adottato
misure di prevenzione e protezione che assicurino requisiti di salute e di
sicurezza uguali o maggiori di quelli riportato nella norma armonizzata.
In merito al
VRR a cui ti riferisci, rimane quindi da capire se esso sia stato immesso sul
mercato secondo Direttiva Macchine e/o secondo norma armonizzata EN 1501-1.
In ogni
caso, indipendentemente dalla “storia” relativa alla immissione sul mercato di
tale attrezzatura, è obbligo per il datore di lavoro, eseguire una specifica
valutazione del rischio, relativa al suo utilizzo e a seguito di tale
valutazione, definire e applicare adeguate misure di prevenzione e protezione.
Oltre a ciò,
se il VRR non è stata immesso sul mercato secondo Direttiva Macchine, il datore
di lavoro è obbligato ad adeguarlo almeno ai requisiti di salute e sicurezza di
cui all’Allegato V del D.Lgs.81/08.
L’allegato V
del D.Lgs,81/08 (come d’altronde l’Allegato I della Direttiva Macchine) è del
tutto generico e non entra nel merito delle specifiche soluzioni da adottare,
in questo caso, per la sicurezza degli operatori in pedana.
In ogni
caso, al di là che il VRR sia stato o meno immesso sul mercato secondo
Direttiva Macchine e con riferimento alla norma armonizzata EN 1501-1, vale
quanto disposto dall’articolo 71, comma 4) lettera a), numero 3) del
D.Lgs.81/08, che impone (obbligo sanzionabile per il datore di lavoro):
“Il datore di lavoro prende le misure
necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano assoggettate alle misure di
aggiornamento dei requisiti minimi di sicurezza stabilite con specifico
provvedimento regolamentare adottato in relazione alle prescrizioni di cui
all’articolo 18, comma 1, lettera z)”;
dove l’articolo 18, comma 1, lettera z) del
D.Lgs.81/08 impone sempre al datore di lavoro di:
“aggiornare le
misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che
hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al
grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione”.
Pur non essendo stato promulgato il “provvedimento regolamentare” citato,
vale comunque l’obbligo per il datore di lavoro di adeguare le attrezzature
messe a disposizione dei lavoratori all’evolversi della tecnica.
L’evoluzione della tecnica ha come riferimento anche
le norme armonizzate per le macchine.
Una norma armonizzata risponde infatti alla
definizione di “norma tecnica” data dall’articolo 2, comma 1, lettera u) del
D.Lgs.81/08:
“specifica tecnica, approvata e pubblicata da
un’organizzazione internazionale, da un organismo europeo o da un organismo
nazionale di normalizzazione, la cui osservanza non sia obbligatoria”.
Tale norma non è cogente, ma fornisce comunque
presunzione di adeguatezza al “grado di evoluzione della tecnica”.
Pertanto per il VRR citato, il datore di lavoro dovrà
adeguare i dispositivi di sicurezza per gli operatori in pedana, secondo
l’attuale norma armonizzata EN
1501-1:2011+A1:2015 oppure mediante soluzioni tecniche e organizzative
di pari efficacia.
Ricordo che i requisiti per le pedane stabilite dalla
norma citata sono:
-
riconoscimento automatico della presenza di operatore
in pedana mediante rilevamento del peso, dello spazio occupato o della
posizione della pedana;
-
limitazione della velocità del VRR a 30 km/h con pedane
occupate;
-
inibizione della retromarcia del VRR a 30 km/h con pedane
occupate;
-
inibizione della movimentazione automatica o
semiautomatica del dispositivo di compattazione e di quello per il sollevamento
dei contenitori;
-
presenza di sistema di esclusione dei dispositivi di
sicurezza di cui sopra in condizioni di emergenza e procedura di reset della
durata di 5 minuti dopo la fine dell’esclusione;
-
procedura di inizializzazione del sistema di
riconoscimento all’accensione del VRR che senza esito positivo consideri il VRR
come se avesse le pedane occupate;
-
presenza in cabina di segnalazione di pedana occupata;
-
presenza di telecamera e di video in cabina per la
visualizzazione delle pedane;
-
presenza, in prossimità delle pedane, di pulsante “di
chiamata” che attivi un segnale acustico in cabina;
-
realizzazione
delle pedane e delle maniglie di presa per gli operatori secondo i requisiti
funzionali e geometrici riportati nella norma.
L’adeguamento
del VRR ai requisiti di cui sopra (e di tutti gli altri contenuti nella citata
norma armonizzata), sia per veicoli marcati CE, che per veicoli non marcati,
non comporta obbligo di nuova certificazione, ai sensi dell’articolo 71, comma
5 del D.Lgs.81/08 che specifica che:
“Le modifiche apportate alle macchine quali
definite all’articolo 1, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica
24 luglio 1996, n. 459 [attualmente articolo 2, comma 2, lettera a) del Decreto
Legislativo 27 gennaio 2010, n. 17], per migliorarne le condizioni di sicurezza
in rapporto alle previsioni del comma 1, ovvero del comma 4, lettera a), numero 3), non
configurano immissione sul mercato ai sensi dell’articolo 1, comma 3, secondo
periodo, sempre che non comportino modifiche delle modalità di utilizzo e delle
prestazioni previste dal costruttore”.
In
conclusione, qualunque sia stata la modalità di immissione sul mercato del VRR
citato (ante Direttiva Macchine o in Direttiva Macchine), esso deve essere
adeguato al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della
protezione, secondo quanto contenuto dalla attuale norma EN 1501-1, oppure
secondo altre misure di prevenzione e protezione equivalenti.
CGIL CATANIA: CON LE MODIFICHE DEL JOBS ACT AUMENTANO I
RISCHI PER LA SICUREZZA
Da:
Rassegna.it
02
marzo 2016
In
un convegno affrontate tutte le negatività del provvedimento, dallo stop all’obbligo
di tenuta del Registro infortuni alla non applicazione delle norme ai lavoratori
con i voucher.
Presentato
anche il Coordinamento provinciale di RLS e RLST della CGIL
Le
morti sul lavoro cancellano o compromettono ogni anno la vita di centinaia di
lavoratori. Le norme italiane puntano sulla prevenzione, ma la CGIL non ha
dubbi: le recenti modifiche del Jobs Act introducono parecchie zone d’ombra. Il
sindacato, infatti, disapprova lo stop all’obbligo di tenuta del Registro
infortuni, la modifica dell’impianto sanzionatorio, la riduzione dei componenti
sindacali in Commissione consultiva, la non applicazione delle tutele ai
lavoratori con i voucher, e altri “alleggerimenti” nella fase di formazione che
appaiono temibili passi indietro.
Il
seminario di studio “Dal Testo Unico al Jobs Act, come cambia la legislazione
su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, tenutosi mercoledì 9 febbraio
nella Sala Russo della Camera del lavoro di Catania, ha evidenziato i punti
chiave delle modifiche.
Numerosi
gli intervenuti: il segretario confederale CGIL Catania Claudio Longo (che ha
coordinato i lavori), il segretario generale CGIL Catania Giacomo Rota, Massimo
Malerba (Dipartimento Salute e sicurezza CGIL Catania), Domenico Amich
(direttore Ispettorato provinciale del lavoro), gli ingegneri Enzo Maci e
Sebastiano Trapani (anche presidente AIAS), Vincenzo Cubito (direttore Inca CGIL),
Vito Leocata (medico legale INCA), l’ingegnere Luigi Di Mauro (Coca Cola),
Daniele Maugeri (Report RLST) e il responsabile nazionale del Dipartimento
Salute e sicurezza della CGIL Sebastiano Calleri.
Di
“trend negativo” e “rialzo” delle morti sul lavoro in Italia ha parlato il
direttore dell’Ispettorato provinciale del lavoro Domenico Amich. Sono state
ben 678 nel 2015, escluse quelle avvenute sulla strada. E se nel febbraio 2015
erano 61 (dati nazionali), nel febbraio 2016 ne sono già state registrate 83.
“Il
lavoratore è sempre più ricattato” - ha sottolineato - “Ha sempre meno spazio
per rifiutare un lavoro, soprattutto se è avanti negli anni. Le percentuali
sono impietose: abbiamo il 37 per cento dei morti in agricoltura, il 23 in
edilizia, l’11 nel settore industrie, il 9 nei trasporti e un 20 per cento
indifferenziato che va esaminato caso per caso”.
L’ingegnere
Enzo Maci ha rimarcato che “i punti deboli della sicurezza sono messi in
evidenza dagli infortuni che ogni anno vengono riassunti dai dati INAIL”. La
cultura della sicurezza “andrebbe iniziata dalla scuola elementare, se non dal
nido, per evitare che appunto permangano lacune legislative. Percorsi formativi
semplici destinati ai lavoratori sono insufficienti per un’adeguata formazione”.
Per
la CGIL, il rischio che infortuni e malattie professionali siano destinati ad
aumentare è concreto. Ma è stato il responsabile nazionale del Dipartimento
Salute e sicurezza della CGIL Sebastiano Calleri a evidenziare almeno quattro
punti del Jobs Act che il sindacato giudica “pericolosi”.
“Partirei
dal demansionamento” - ha detto Calleri - “Durante le relative procedure, il
lavoratore può essere adibito a una nuova produzione o all’uso di una macchina
per cui non è stata fatta formazione specifica. Il classico esempio è quello
dell’impiegato che viene messo in linea di produzione, operando con mezzi di
cui non conosce l’uso”.
C’è
poi la questione voucher. “Per alcuni dei lavoratori impiegati attraverso
questa formula” – ha spiegato – “è prevista la non applicazione delle tutele
sullo stato di sicurezza della legislazione conseguente”.
Sul
fronte della video-sorveglianza, il responsabile CGIL nazionale ha evidenziato
come “oggi sia possibile effettuarla senza alcun controllo nei confronti dei
lavoratori con gli strumenti, dal tablet al telefonino, messi a disposizione
direttamente dall’azienda”.
Riguardo
l’ultimo aspetto, quello dell’abolizione del Registro infortuni, secondo
Calleri “sarà sempre più difficile ricostruire gli incidenti all’interno delle
aziende e le storie sanitarie dei lavoratori per riconoscere loro un infortunio
o una malattia professionale, anche in relazione agli indennizzi INAIL. Anche
questa è una norma da cambiare”.
Massimo
Malerba, del Dipartimento Salute e sicurezza della CGIL Catania, ha aggiunto
che “il Registro infortuni era già stato abolito nel 2008, ma in previsione di
introdurre un sistema informatizzato, il SINP, mai avviato”.
“Un’altra
criticità” - ha continuato - “è rappresentata dal fatto che, a causa del Jobs
Act, i datori di lavoro nelle aziende superiori ai cinque dipendenti possono
rivestire il ruolo di addetti alla prevenzione nel sistema di antincendio ed
evacuazione. Se ciò andava bene nelle piccole aziende familiari, in quelle
medie diventa più complesso”.
Infine,
le sanzioni: “Sono state alleggerite quelle multiple e quelle relative al
lavoro irregolare, salvo che per stranieri e i minori”.
Ma
il seminario è servito anche a lanciare il Coordinamento provinciale degli RLS
e RLST della CGIL.
“Creare
il Coordinamento consentirà continuità e costanza nell’azione” - ha concluso il
segretario confederale CGIL Catania Claudio Longo - “La situazione oggi ci
impone una legge più attenta, meglio ancora rigida. Voglio però lanciare una
provocazione: anche se ci fosse la migliore legge del mondo, se non partiamo
dal rispetto di una vera cultura sulla sicurezza, sulla prevenzione e sulla
salute, ci abituiamo all’idea che tutto quello che diventa legge deve di fatto
diventare regola. Se questo non accadrà, vanificheremo qualunque legge”.
AMBIENTI CONFINATI: QUALI SONO I RISCHI?
DaArticolo
19 (Città Metropolitana)
03 marzo 2016
di Maria Capozzi
AMBIENTI CONFINATI: COSA SONO E QUALI LE REGOLE?
Qualunque attività comporta rischi propri legati
alla natura delle operazioni da svolgere e delle sostanze impiegate. In alcuni
casi, però, le stesse attività svolte in condizioni ambientali diverse comportano
rischi fondamentalmente diversi. Così è anche le attività degli impiantisti,
che possono trovarsi a operare in ambienti difficili, sia per dimensioni e
collocazione (ambienti ristretti, difficili da raggiungere, entrata/uscita
difficoltose) sia per la possibile presenza di atmosfere pericolose (presenza
di gas nocivi, carenza di ossigeno).
A semplice titolo esemplificativo, fanno parte
degli ambienti confinati o sospetti di inquinamento: vasche, silos, camini,
pozzi, cunicoli, canalizzazioni, fogne, serbatoi, condutture, stive,
intercapedini, cisterne, autobotti, camere di combustioni, reattori
dell’industria chimica.
Diverse sono le tipologie di rischio che possono
presentarsi in un ambiente confinato:
-
per mancanza di ossigeno
(asfissia) o per eccesso di ossigeno;
-
per inalazione o per
contatto con sostanze pericolose, gas, vapori, fumi (intossicazione);
-
per presenza di gas/vapori
infiammabili (esplosione o incendio);
-
per contatto con parti a
temperatura troppo alta o troppo bassa (ustioni).
Sono poi presenti rischi diversi, causati da
caduta dall’alto, urti, contatti con parti taglienti, schiacciamenti,
scivolamenti, seppellimenti, annegamenti, esposizione ad agenti biologici,
contatti con tensione elettrica, intrappolamento, stati emotivi legati ad
ambienti chiusi e stretti, ecc.
In tali ambienti di lavoro, anche un semplice
malore un infortunio di lieve entità può avere complicazioni aggiuntive proprio
per la difficoltà a prestare l’adeguato soccorso all’infortunato.
Chi è chiamato a operare in tali ambienti dovrà
pertanto possedere maggiori capacità professionali in quanto sarà esposto, sia
ai rischi specifici connaturati alla mansione, sia a quelli aggiuntivi
derivanti dall’operare in un ambiente confinato.
E’ proprio quanto richiede il D.P.R. 177/11,
norma di recente emanazione, sulla qualificazione delle imprese e lavoratori
autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.
NORMATIVA DI RIFERIMENTO
Non è facile orientarsi nell’attuale assetto
normativo quando si parla di ambienti confinati.
Infatti non esiste un’unica norma che elenchi
quali siano i luoghi di lavoro confinati, né che comprenda tutti gli obblighi
di chi si trova a operare in tali realtà. Piuttosto occorre fare una
valutazione delle caratteristiche dell’ambiente, delle sue specifiche
geometriche e di aereazione, dell’uso che ne viene fatto e di quelli fatti in
precedenza, delle eventuali sostanze che contiene.
In generale possiamo dire che le norme che
regolamentano la materia appartengono a due tipologie diverse: norme di legge
(D.P.R. 177/11; D.Lgs. 81/08, articolo 66, articolo 121 e Allegato IV, Punto 3)
e norme tecniche (standard di riferimento, linee guida e procedure).
In ogni caso, c’è una comune linea di
interpretazione che concorda nel ritenere che uno spazio confinato:
-
è un ambiente con aperture
di ingresso uscita limitate;
-
non è un ambiente di lavoro
usuale;
-
potrebbe contenere
un’atmosfera pericolosa;
-
ha una sfavorevole
ventilazione naturale;
-
potrebbe contenere sostanze
inquinanti;
-
presenta rischi di
sprofondamento/seppellimento;
-
presenta una configurazione
interna che potrebbe causare l’intrappolamento del lavoratore;
-
potrebbe comportare, per
l’attività svolta, grave rischio per la salute.
Prima di consentire l’accesso di lavoratori in un
ambiente confinato è necessario valutarne i rischi al fine di determinare le
misure di prevenzione e protezione che garantiscano la salute e la sicurezza
dei lavoratori.
In linea generale la migliore misura di
prevenzione è quella di cercare soluzioni alternative effettuando, se
possibile, le operazioni di manutenzione, bonifica, ispezione, evitando
l’ingresso dei lavoratori nell’ambiente confinato, anche con l’aiuto della
tecnologia disponibile sul mercato.
Ad esempio ricorrendo all’ausilio di telecamere,
attrezzature robotizzate, sostituzione del componente, ecc..
Qualora ciò non sia possibile è necessario
acquisire tutte le informazioni occorrenti sulle caratteristiche dell’ambiente
confinato (ad esempio sostanze presenti, utilizzi precedenti, dimensioni e configurazione
dei luoghi, collegamenti con altri spazi) e delle attività da effettuare
tenendo presente che questi spazi possono essere opportunamente progettati o
modificati.
Poiché però può capitare che non ci siano
alternative e che si debba comunque operare all’interno di spazi confinati
occorre ricordare che, poiché in tali contesti i rischi sono particolari, non
tutte le imprese o lavoratori autonomi possono eseguirla, ma devono essere in
possesso di particolari requisiti tali da risultare “qualificati”.
La qualificazione delle imprese è una previsione
già inserita nell’articolo 6, comma 8, lettera g) e nell’articolo 27 del D.Lgs.
81/08 (Testo Unico Sicurezza), attraverso l’emanazione di appositi Regolamenti.
Lo scopo è quello di fare una selezione delle imprese più “virtuose” e pertanto
in grado di operare non solo con competenza e professionalità, ma soprattutto
in sicurezza.
Infatti il D.P.R. 177/11, in vigore dal 23
Novembre 2011, “Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e
dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o
confinati” dà tutta una serie di indicazioni e parametri che le aziende e i
lavoratori autonomi debbono possedere per poter operare in questo settore.
QUANDO SI APPLICA LA NORMA?
Il Decreto si applica ogni qual volta ci si trova
ad operare in ambienti “sospetti di inquinamento di cui agli articoli 66 e 121
del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, e negli ambienti confinati di cui
all’allegato IV, punto 3, del medesimo Decreto Legislativo”, vale a dire in
tutti quei casi (ad esempio silos, cunicoli, pozzi, serbatoi, stive, tubazioni,
cabine, pozzetti, cisterne, vasche, ecc.) che, per le caratteristiche sopra
indicate, ricadono nella categoria di spazio confinato o sospetto di inquinamento.
Proprio perché non esiste un elenco esaustivo di
cosa sia e cosa non sia ambiente confinato, anche perché può diventarlo nel
corso delle lavorazioni, laddove tale situazione non è evidente, è importante
che prima di svolgere il lavoro, venga effettuata una attenta valutazione dei
rischi mirata a stabilire se siamo o meno in presenza di attività in ambiente
confinato, basandosi su alcuni parametri quali l’analisi delle caratteristiche
dei luoghi in cui viene svolta l’attività e dalle modalità di esecuzione.
A CHI SI APPLICA LA NORMA?
La norma si applica sia a chiunque si trovi ad
operare in ambienti confinati o sospetti di inquinamento sia direttamente con
proprio personale sia a chi esegue tali lavori in appalto (e relativi
subappalti), compresi i lavoratori autonomi.
Nel caso delle imprese che esternalizzano tali
lavorazioni restano comunque in capo al committente alcuni specifici obblighi.
Un utile strumento per meglio capire come operare
negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati è rappresentato dal
“Manuale illustrato per lavori in ambienti sospetti di inquinamento o
confinati” dell’INAIL approvato dalla Commissione consultiva il 18 aprile 2012.
Tale documento è scaricabile all’indirizzo:
IL LUOGO DI LAVORO
E LA GARANZIA DELLE SUE CONDIZIONI DI SICUREZZA
Da:
PuntoSicuro
29
febbraio 2016
di
Gerardo Porreca
Si
intendono per “luoghi di lavoro” i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro
ubicati all’interno di un’azienda/unità produttiva nonché ogni altro luogo di
pertinenza delle stesse accessibili al lavoratore nell’ambito del proprio
lavoro.
E’
importante questa sentenza della Corte di Cassazione in quanto fornisce una
interpretazione su quali siano da intendere i “luoghi di lavoro” così come
definiti dall’articolo 62 del D.Lgs. 81/08 ai fini dell’applicazione delle
disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro nello stesso
contenute.
Si
intendono per “luoghi di lavoro”, ha sostenuto infatti la suprema Corte, i
luoghi destinati a ospitare posti di lavoro ubicati all’interno di un’azienda o
di un’unità produttiva della stessa nonché ogni altro luogo di loro pertinenza
accessibile al lavoratore nell’ambito della propria attività lavorativa.
La Corte di Cassazione ha
inoltre sottolineato che ai fini della individuazione dei soggetti gravati da
obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di
lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al
quale lo spazio in questione accede così come si ricava dalla definizione del
luogo di lavoro che ha dato il legislatore, laddove ha previsto un collegamento
di ordine spaziale indicando “l’interno dell’azienda” o almeno pertinenziale
tra l’azienda stessa oppure una sua unità produttiva e il luogo di lavoro.
L’Amministratore
Delegato di una società proprietaria di una Galleria commerciale ha ricorso, a
mezzo dei difensori, avverso una sentenza della Corte di Appello con la quale
la stessa, confermando quella pronunciata dal Tribunale, lo ha condannato alla pena
ritenuta equa, giudicandolo responsabile dell’infortunio occorso a una
lavoratrice dipendente di un negozio di parrucchiera situato nella Galleria
stessa e delle conseguenti lesioni personali dalla medesima patite. La
lavoratrice, secondo una ricostruzione incontroversa dell’accaduto, nel
transitare nell’ingresso dell’edificio che ospitava la Galleria, scivolava sul
pavimento parzialmente coperto da tappeti mobili e bagnato per l’acqua caduta
dall’ombrello chiuso di una cliente che l’aveva preceduta.
Ad
avviso della Corte di Appello l’infortunio si era determinato a causa del
mancato apprestamento di una adeguata copertura del pavimento dell’ingresso
della Galleria e che, essendo questo da reputarsi “ambiente di lavoro”,
competeva quindi all’imputato, in qualità di proprietaria dell’edificio, che
non aveva mai delegato ad altri le funzioni in materia di antinfortunistica, di
provvedere a porre in sicurezza il pavimento dell’ingresso.
Con
il ricorso in Cassazione l’imputato ha addotto in particolare un vizio
motivazionale e una violazione di legge in relazione alla ritenuta aggravante
dell’aver commesso il fatto con violazione di norme per la prevenzione degli
infortuni non essendo esso il datore di lavoro dell’infortunata che era invece
dipendente dell’esercente del negozio di parrucchiere.
L’imputato
ha messo in evidenza, altresì, che non sussistendo alcun rapporto di appalto
tra la società proprietaria della Galleria e l’esercente dell’attività di
parrucchiere, che aveva preso in locazione alcuni locali all’interno delle
Galleria stessa, non andava applicato neanche l’articolo 26 del D.Lgs. 81/08 e
non incombevano quindi su di esso i doveri in materia di coordinamento che la
norma pone in capo al datore di lavoro committente.
L’imputato
ha sostenuto ancora che, non sussistendo conseguentemente l’aggravante
dell’aver commesso il fatto con violazione di norme per la prevenzione degli
infortuni, il reato era procedibile a querela, nella fattispecie non proposta,
aggiungendo che il luogo dell’infortunio non poteva essere definito “ambiente
di lavoro”, ai sensi e per gli effetti degli articoli 63 e 64 del D.Lgs. 81/08.
E’
del tutto incontroverso, ha sostenuto la suprema Corte di Cassazione, che
l’imputato era Amministratore Delegato della società proprietaria dei locali
che costituivano il Centro commerciale e che gli stessi erano concessi in
locazione alle diverse imprese che avevano deciso di operare nello stesso così
come incontroverso era che l’infortunata non fosse alle dipendenze della
società che amministrava la
Galleria.
Con
riferimento alla figura del datore di lavoro, ha precisato la Corte di Cassazione, già la
nozione normativa di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 81/08,
incardinandosi sulla titolarità di poteri decisionali e di spesa e sulla
connessa responsabilità dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta
la propria attività, ha evidenziata la necessità di limitare lo sguardo
ricognitivo al perimetro di una determinata organizzazione imprenditoriale
della quale va ricostruita la catena gestionale.
Detto
altrimenti, ha precisato la suprema Corte, nell’accertamento della esistenza di
una concreta posizione di garanzia, premessa dell’attribuzione di uno specifico
evento concreto, non interessa un qualsiasi soggetto datore di lavoro, ma colui
che ne reca le attribuzioni in riferimento alla determinata organizzazione
imprenditoriale nel cui ambito presta la propria attività il lavoratore
infortunatosi.
“A
mente dell’articolo 62 del D.Lgs. 81/08” - ha quindi sostenuto la Suprema Corte - “si intendono
per luoghi di lavoro i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati
all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di
pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore
nell’ambito del proprio lavoro”.
La Corte di Cassazione ha
inoltre ritenuto opportuno rimarcare che “ai fini della individuazione dei
soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio
quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso
organizzativo al quale lo spazio in questione accede” e ciò si ricava proprio
dalla definizione che il legislatore ha voluto dare di un luogo di lavoro,
laddove ha previsto un collegamento di ordine spaziale (“all’interno
dell’azienda”) o almeno pertinenziale tra l’azienda o l’unità produttiva e il
luogo di lavoro stesso, e lo implica la logica stessa della normativa
prevenzionistica che attribuisce obblighi di sicurezza a colui che é titolare
di poteri organizzativi e decisionali che trovano nei luoghi di lavoro l’ambito
spaziale e funzionale di estrinsecazione.
La Suprema Corte ha quindi
puntualizzato che “proprio ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di
luogo di lavoro a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o
esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro” e che in
particolare “può trattarsi anche di un luogo nel quale i lavoratori si trovino
esclusivamente a dover transitare, se tuttavia il transito é necessario per
provvedere alle incombenze loro affidate”.
La Corte di Cassazione ha
ricordato che già in passato la stessa ha avuto modo di esprimersi in tal senso
in una precedente Sentenza (Sentenza n. 28780 del 19/05/11) allorquando, in
occasione di infortunio verificatosi su una strada pubblica e aperta al
pubblico transito, esterna a un cantiere, ha formulato il principio per il
quale nella nozione di “luogo di lavoro”, rilevante ai fini della sussistenza
dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra non soltanto il
cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessariamente
costretti a recarsi per provvedere a incombenze inerenti all’attività che si
svolge nel cantiere stesso.
Per
contro, e qui la suprema Corte ha individuata una grave lacuna motivazionale
nella Sentenza impugnata “Non può parlarsi di luogo di lavoro (da preferirsi in
questo caso alla locuzione utilizzata dalla Corte di Appello di ambiente di
lavoro) solo sul presupposto che un qualsiasi soggetto, che é anche prestatore
d’opera in favore di taluno, vi si trovi a transitare. Va ribadita la stretta
correlazione che esiste tra la nozione di luogo di lavoro e la specifica
organizzazione imprenditoriale alla quale questo accede in funzione servente;
correlazione che deriva dalla necessità che si tratti di ambito
spazio-funzionale sul quale possano e debbano estendersi i poteri decisionali
del vertice della compagine”.
Può
quindi, ha sostenuto la Corte
di Cassazione, essere formulato il seguente principio di diritto: “In materia
di responsabilità per violazioni delle norme antinfortunistiche, il datore di
lavoro obbligato al rispetto delle prescrizioni dettate dal Titolo II del
D.lgs. 81/08 per la sicurezza dei luoghi di lavoro va identificato in colui che
riveste tale ruolo nell’organizzazione imprenditoriale alla quale accede il
luogo di lavoro medesimo”.
Alla
luce di tale puntualizzazione risulta chiaro, secondo la Corte di Cassazione, che
l’attribuzione al ricorrente di una posizione di garanzia tra quelle definite dalla
normativa prevenzionistica, e segnatamente quella di datore di lavoro, avrebbe
richiesto la preliminare qualificazione dell’area di ingresso del Centro
commerciale come luogo di lavoro della società proprietaria. In caso contrario
un eventuale obbligo di assicurarsi della non pericolosità dell’area si
sarebbero potuti far discendere unicamente dalla proprietà degli spazi con
esclusione, quindi, della violazione di obblighi datoriali e procedibilità a
querela del reato.
La Suprema Corte ha quindi voluta
fare una puntualizzazione in merito alla possibilità che anche una persona
estranea all’organigramma dell’impresa, come era la lavoratrice infortunata
rispetto alla società proprietaria della Galleria, potesse beneficiare della
tutela apprestata dalla normativa prevenzionistica non essendo la qualità di
persona estranea all’ambito imprenditoriale di per sé incompatibile con
l’esistenza di un dovere di sicurezza da parte del datore di lavoro.
Per
le suindicate motivazioni, quindi, la
Corte di Cassazione ha annullata la sentenza impugnata con
rinvio ad altra sezione della Corte di Appello perché accertasse se l’ingresso
dell’edificio ove era avvenuto il sinistro in danno della lavoratrice fosse
stato, al tempo, luogo destinato ad ospitare posti di lavoro ovvero luogo
accessibile nell’ambito del loro lavoro ai lavoratori dipendenti della società
proprietaria della Galleria commerciale e, in caso positivo, verificare se
sussistessero le condizioni perché la tutela che l’imputato, nella sua qualità,
avrebbe dovuto apprestare a vantaggio dei propri dipendenti, dovesse ritenersi
estesa anche alla lavoratrice infortunata.
La
Sentenza n. 40721 del 9 ottobre 2015 della Corte di Cassazione Penale è
consultabile all’indirizzo:
PREVENZIONE DI
MOLESTIE E VIOLENZE: COSA CAMBIA NEI LUOGHI DI LAVORO?
Da:
PuntoSicuro
02
marzo 2016
di
Tiziano Menduto
L’Accordo
firmato a gennaio parla di combattere violenza e molestie nei luoghi di lavoro.
Quali conseguenze avrà? Che misure preventive è necessario prendere per
garantire salute e sicurezza ai lavoratori? Le indicazioni di Giulia Barbucci
della CGIL.
Malgrado
i ritardi accumulati dalle parti sociali del nostro paese (quasi nove anni!) e
il rischio che anche gli ottimi propositi, se non supportati norme ad hoc,
siano solo buone intenzioni sulla carta, è necessario sottolineare l’importanza
della firma del 25 gennaio 2016 che le principali parti sociali italiane hanno
apposto all’Accordo quadro sulle molestie e sulla violenza sul luogo di lavoro
firmato il 26 aprile 2007 dalle parti sociali europee.
Un’importanza
relativa non tanto e non solo a un Accordo non facile e non scontato (tanto da
richiedere nove anni di gestazione...) tra parti sociali datoriali e sindacali
che non sempre, in materia di sicurezza, riescono utilmente ad unire le forze
per migliorare la prevenzione in Italia... L’importanza di questo Accordo
“volontario” nasce principalmente dalla rilevanza che in questi anni di crisi
congiunturale, di aumento delle tensioni nelle aziende, di instabilità del
mondo del lavoro, ha assunto il tema delle violenze e delle molestie nei luoghi
di lavoro.
E
del fatto che in questa acuirsi delle tensioni servisse un argine e, prima
ancora, una presa di coscienza netta e consapevole, se ne sono accorte le parti
sociali che finalmente hanno “recepito” l’Accordo europeo.
Quello
che rimane da chiedersi ora, dopo aver cercato di conoscere i motivi di questi
“ingiustificabili” ritardi, è che cosa accadrà...
Come
si è arrivati all’Accordo? Quali sono i punti qualificanti? Che conseguenze
avrà l’Accordo recepito? Come portare la “tolleranza zero” verso comportamenti
come molestie e/o violenza nelle aziende?
Per
avere qualche risposta abbiamo intervistato una delle persone che hanno
lavorato in questi anni al recepimento, tra le parti sociali, dell’Accordo
europeo su molestie e violenza: Giulia Barbucci che lavora nell’Area delle
politiche europee e internazionali della CGIL.
PuntoSicuro
Cominciamo
a raccontare qualcosa dell’Accordo europeo del 2007 recepito dalle parti
sociali...
Giulia
Barbucci
Intanto
l’Accordo firmato dalle parti sociali europee il 26 aprile 2007 è il terzo
Accordo autonomo negoziato dalle parti sociali europee a livello
intersettoriale, a seguito di una consultazione della Commissione europea sul
tema della violenza sui luoghi di lavoro e dei suoi effetti sulla salute e
sicurezza sul lavoro. Ed essendo un Accordo autonomo, e non una Direttiva,
prevede l’applicazione, volontaria, nei vari Paesi, attraverso accordi tra le
parti sociali.
In
particolare l’Accordo mira a impedire e a gestire i problemi di prepotenza,
molestie sessuali e violenza fisica sui luoghi di lavoro. Esso condanna tutte
le forme di molestia e violenza e conferma il dovere del datore di lavoro di
tutelare i lavoratori contro tali rischi. Le imprese sono tenute ad adottare
una politica di tolleranza zero contro tali comportamenti e a fissare procedure
per gestire i casi di molestie e violenza, che possono comprendere una fase
informale con la partecipazione di una persona terza che goda della fiducia
della direzione e dei lavoratori. I ricorsi andranno esaminati e risolti
rapidamente. Occorre rispettare i principi di dignità, riservatezza, imparzialità
ed equo trattamento. Contro i colpevoli saranno adottate misure adeguate,
dall’azione disciplinare fino al licenziamento, mentre alle vittime sarà
fornita assistenza nel processo di reinserimento.
Chiaramente
l’Accordo andava poi applicato dai membri nazionali delle parti firmatarie,
conformemente alle procedure e alle prassi delle parti sociali negli Stati
membri, come disposto dall’articolo 139 del Trattato CE e andava attuato entro
3 anni dalla firma.
P.S.
Qual
è l’aspetto più significativo dell’Accordo europeo?
G.B.
Ad
esempio il fatto che l’Accordo opta per un approccio attivo piuttosto che
giuridico al fine di risolvere il problema delle molestie e della violenza a
livello dell’impresa.
P.S.
Una
domanda a questo punto viene spontanea: perché in Italia l’Accordo è stato
recepito con quasi nove anni di ritardo?
G.B.
Non
si può nascondere che il ritardo delle parti sociali italiane è dipeso, in
parte, da un atteggiamento di chiusura da parte delle organizzazioni datoriali.
Già negli anni scorsi si era tentato di procedere alla traduzione del testo
dell’Accordo in italiano (fa fede la versione inglese), ma anche questo
tentativo era fallito.
Poi
a seguito di incontri delle parti sociali europee, a Berlino e a Roma, le
organizzazioni sindacali italiane hanno tentato di rilanciare la questione,
tenuto conto anche del fatto che tutti i Paesi più importanti dell’UE avevano
attuato già l’Accordo e per evitare un eventuale intervento della Commissione
europea. E finalmente si è arrivati all’attuazione dell’Accordo anche in
Italia...
P.S.
Diamo
ancora qualche informazione sull’Accordo europeo: a chi si applica? a che tipo
di molestie e violenze si fa riferimento? quali sono le parti più rilevanti?
G.B.
Come
già detto con l’Accordo le parti sociali europee condannano fermamente le
molestie e la violenza in tutte le loro forme che possono presentarsi in tutti
i luoghi di lavoro e colpire qualsiasi lavoratore tenendo conto anche che del
fatto che alcuni gruppi e settori possono essere più a rischio di violenza. E
l’Accordo si applica a tutti i luoghi di lavoro e a tutti i lavoratori
indipendentemente dalla dimensione dell’azienda, della sua attività e tipologia
contrattuale. L’Accordo riconosce anche che l’UE e le leggi nazionali
definiscono i doveri dei datori di lavoro nel proteggere i lavoratori contro le
molestie e la violenza nei luoghi di lavoro.
L’Accordo
afferma, inoltre, che le molestie e la violenza sono causate da comportamenti
inaccettabili da parte di uno o più individui e che possono avere forme differenti:
fisiche, psicologiche e/o sessuali, costituire un singolo episodio o avere un
carattere più sistematico, avere luogo tra colleghi, tra superiori e
subordinati o da parte di terzi, a partire da casi di minore entità, fino a
casi più gravi che richiedono l’intervento delle autorità pubbliche. E si
fornisce una metodologia agli imprenditori, ai lavoratori e ai loro
rappresentanti per prevenire, identificare e gestire problemi di molestie e
violenza sui luoghi di lavoro.
Direi
che gli elementi centrali dell’Accordo sono:
-
il
riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro, in consultazione con
i lavoratori e/o il sindacato di determinare, rivedere e monitorare le
procedure appropriate per prevenire e affrontare il fenomeno;
-
il
richiedere all’impresa di avere una chiara posizione che sottolinei che le
molestie e la violenza nei luoghi di lavoro non sono tollerate e di specificare
le procedure da seguire in caso di problemi, attraverso misure appropriate
contro gli autori della violenza, fornendo supporto alle vittime;
-
il
riconoscimento che procedure aziendali preesistenti possano essere idonee nel
trattare molestie e violenza nei luoghi di lavoro.
Senza
dimenticare che nell’Accordo si affrontano anche casi di violenza da parte di
terzi.
P.S.
Veniamo
ora al recepimento in Italia dell’Accordo, firmato il 25 gennaio 2016 da CGIL,
CISL, UIL e Confindustria. Una domanda che sorge spontanea riguarda le
conseguenze di queste firme. Cosa cambia nella realtà? Qual è il valore
aggiunto di questo Accordo rispetto al passato?
G.B.
Sicuramente
il valore aggiunto dell’Accordo sta nell’aver avviato e rilanciato il dialogo
tra le parti sociali su come combattere il fenomeno della violenza e delle
molestie nei luoghi di lavoro. Implementando ora l’Accordo a livello nazionale
si cerca di elaborare misure concrete, strumenti e procedure per prevenire,
identificare e gestire tali fenomeni.
Bisogna
poi sottolineare che l’Accordo copre le molestie e la violenza in tutte le loro
forme. E questo malgrado la posizione iniziale dei datori di lavoro nel corso
dei negoziati fosse quella che l’Accordo dovesse trattare esclusivamente delle
molestie. E si sottolinea che le molestie e la violenza possono avere sia serie
conseguenze sociali che ripercussioni economiche.
E
in pratica con l’Accordo, una volta riconosciuta l’applicabilità della
legislazione esistente a livello europeo e nazionale, si indica che se si
chiarisce un legame della violenza, della molestia con il luogo di lavoro, le
parti sociali se ne devono occupare anche se l’autore è al di fuori
dell’azienda.
Si
riconosce poi che il datore di lavoro ha la responsabilità di agire nei casi
che ricadono sotto la propria responsabilità nel proteggere i suoi lavoratori.
E si segnala che le PMI e anche particolari gruppi o settori possono essere
maggiormente a rischio, anche con riferimento alla violenza da parte di terzi.
P.S.
L’Accordo
europeo indica poi che una maggiore consapevolezza e un’adeguata formazione
posso ridurre l’eventualità di molestie e violenza nei luoghi di lavoro... Chi
deve essere formato? Si prevede l’adozione di procedure particolari?
G.B.
Le
misure previste, quali quelle di aumentare la consapevolezza del fenomeno e la
previsione di formazione specifica, si applicano a tutti, lavoratori e manager.
Inoltre
le imprese hanno l’obbligo di non tollerare molestie e violenza, quindi è
necessario definire specifiche procedure, compresa la nomina di una persona di
fiducia, decisa congiuntamente tra impresa e lavoratori, che può essere un
collega di lavoro o un esperto esterno quale ad esempio uno psicologo del
lavoro.
Segue
poi una lista non esaustiva di azioni che possono essere parte della procedura
stabilita a livello aziendale. Si prevedono anche azioni disciplinari nei
confronti degli autori della violenza e la presa in carico delle vittime sia
attraverso il totale reintegro nel posto di lavoro, comprese misure per
prevenire che la vittima sia soggetta ad ulteriori relazioni intollerabili con
l’autore delle violenze. Il datore di lavoro dovrà inoltre fornire sostegno e
aiuto legale alla vittima.
P.S.
Nel
documento di attuazione dell’Accordo si parla anche di incontro tra le parti
per individuare alcune strutture...
G.B.
Sì,
nell’Accordo si affida alle parti sociali sul territorio il compito di
individuare le strutture più idonee nell’assicurare una adeguata assistenza a
coloro che siano stati vittime di molestie o violenza nei luoghi di lavoro,
ferma restando la facoltà delle singole imprese di adottare ulteriori
specifiche soluzioni.
P.S.
Si
sta già lavorando per identificare queste strutture? E non è prevista una
struttura a livello nazionale?
G.B.
Si
è valutato che le parti sociali a livello locale, per la loro maggiore
conoscenza del territorio, siano le più adatte a proporre strutture valide alla
gestione e risoluzione dei problemi...
P.S.
Sempre
riguardo agli aspetti pratici, concludiamo ricordando che nel recepimento degli
accordi è inserita una dichiarazione per le aziende sull’inaccettabilità di
ogni atto o comportamento che si configuri come molestie o violenza. Qual è il
valore e l’importanza di questa dichiarazione?
G.B.
Al
di là del recepimento dei contenuti dell’Accordo europeo, le parti hanno
valutato che potesse essere importante che le singole aziende adottassero una
dichiarazione di impegno e sensibilizzazione di questi fenomeni, per garantire
che questi non sono tollerati in alcun modo e che l’azienda debba essere un
luogo in cui vi sia sicurezza per tutti.
Il
documento “Accordo quadro sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro tra
Confindustria, CGIL, CISL E UIL”, recepimento dell’Accordo delle parti sociali
europee del 26 aprile 2007 è scaricabile all’indirizzo:
L’ESPOSIZIONE
FEMMINILE A STRESS, VIOLENZE E STALKING
Da:
PuntoSicuro
08
marzo 2016
In
occasione della festa dell’8 marzo un articolo sulla sicurezza in ottica di
genere: l’esposizione femminile ai rischi psico-sociali, ai fattori di stress,
al mobbing, alle intimidazioni, alle molestie sessuali e alle violenze sul
lavoro.
Diverse
pubblicazioni in questi anni hanno segnalato come le patologie psichiche siano
molto in crescita tra le donne, con la depressione che è la principale causa di
disabilità tra i 15 e i 44 anni e una percentuale del 20% di donne che usa
ansiolitici (il 15% antidepressivi) contro il 9% degli uomini. E in alcune
attività a prevalente occupazione femminile, come l’attività infermieristica,
la probabilità di essere vittime di atti di violenze sul lavoro sono ben tre
volte superiori rispetto alle altre categorie di lavoratori.
Ne
parliamo in occasione della giornata internazionale della donna, una giornata
che non deve servire solo a ricordare le conquiste sociali, politiche ed
economiche delle donne acquisite nel tempo (spesso molto tardi: in Italia il
suffragio universale, diversamente da molti altri paesi europei, arriverà solo
nel 1945). Ma deve servire anche a mettere in luce le discriminazioni e le
violenze sulle donne, anche in ambito lavorativo, che sono ancora presenti in
molte parti del mondo, compreso il nostro paese.
A
dimostrazione di ciò è sufficiente verificare come la ricerca in materia di
salute e sicurezza del lavoro orientata al genere sia un filone di indagine
recente. Un ambito di ricerca che ha il compito di considerare i rischi
lavorativi non più da un punto di vista “neutro”: bisogna tener conto delle
differenze di genere e offrire strategie di prevenzione più adeguate ed
efficaci.
Per
affrontare oggi il tema dell’esposizione femminile ai rischi psico-sociali,
alle molestie e violenze sul lavoro, torniamo a presentare il contenuto di una
pubblicazione dell’INAIL, dal titolo “Lavoro, sicurezza e benessere al
femminile: il fattore donna al centro delle nuove sfide nel mercato del lavoro”
a cura di Emma Pietrafesa, Chiara Brunetti e Maria Castriotta.
La
pubblicazione ricorda che la presenza di stress nel mondo del lavoro è
correlata a diversi fattori:
-
il
tipo di lavoro svolto (problemi con attrezzature inadeguate, ripetitività dei
compiti, carico di lavoro eccessivo o insufficiente, lavoro a turni o orari rigidi);
-
la
posizione nella gerarchia organizzativa (immobilismo professionale e assenza di
prospettive, comunicazione carente, isolamento sociale o fisico);
-
la
discriminazione; le difficoltà di conciliare lavoro e vita privata; le molestie
sessuali).
E
si segnala che rispetto ai colleghi maschi, l’esposizione femminile a tali
fattori di rischio è molto superiore a causa delle discriminazioni subite sul
lavoro e delle maggiori responsabilità domestiche e familiari.
Monotonia,
scarsa autonomia, orari rigidi di lavoro, impiego in mansioni emotivamente
gravose (come accade per le infermiere o per le insegnanti che, ad esempio,
lavorano molte ore in piedi, in ambienti rumorosi, fattori che già di per sé
rappresentano un rischio per la salute, spesso anche a contatto con bambini con
disturbi), sono tutti fattori di stress particolarmente onerosi per le donne,
proprio alla luce del ruolo sociale che ricoprono.
Se
diverse sono dunque le cause che provocano l’insorgere di stress nei lavoratori
appartenenti a sessi diversi, persino quando si trovano a operare in uno stesso
ambiente di lavoro, diverse dovranno essere anche le strategie di prevenzione.
Dovranno,
in definitiva, tener conto delle differenze uomo-donna e considerare come
fattori di stress anche le molestie sessuali, le discriminazioni, le
responsabilità verso la famiglia e altri fattori che colpiscono maggiormente e
più direttamente le donne.
Per
esempio le molestie sessuali (manifestazioni verbali come battute a sfondo
sessuale, non verbali come sguardi fissi e prolungati, e fisiche, come i
contatti fisici non richiesti, ecc.) sono un fattore di stress percepito molto
più frequentemente dalle donne che dagli uomini e denunciato dal 30-50% delle
lavoratrici contro il 10% dei lavoratori, secondo alcuni studi condotti dalla
Commissione Europea Lavoro e Affari Sociali.
Senza
dimenticare che spesso le molestie sessuali non vengono denunciate per paura di
perdere il posto di lavoro o per il timore di ritrovarsi emarginate dai
colleghi.
Anche
le intimidazioni e il mobbing sono fattori di stress, dagli accertati effetti
sintomatologici sul piano della salute fisica, mentale e psicosomatica della
vittima che li subisce, quali stress, depressione, diminuzione dell’autostima,
sensi di colpa, fobie, disturbi del sonno e degli apparati digestivo e
muscolo-scheletrico; anche questo tipo di rischi è percepito con maggiore
frequenza rispetto ai colleghi uomini.
E
se le violenze legate al lavoro colpiscono anche gli uomini, le donne ne sono
comunque maggiormente esposte: ciò è dovuto anche al loro massiccio impiego in
lavori a contatto con il pubblico, dal momento che gli atti violenti sui luoghi
di lavoro sono diffusissimi proprio in quelle professioni che prevedono
contatto con clienti, pazienti, studenti, ecc..
E
nello specifico gli ambienti più a rischio riguardo alle violenze sono
costituiti dal settore terziario, con particolare riferimento alle aziende che
operano nel settore sanitario, dei trasporti, della vendita al dettaglio,
dell’istruzione e del settore dell’industria alberghiera.
E
le figure più esposte ai pericoli sono: infermieri, conducenti di mezzi
pubblici, cassieri di banche e supermercati, assistenti sociali e personale di
bar e ristoranti. La gestione di denaro contante, l’incombenza di dover far
rispettare delle regole, il fatto di compiere un lavoro isolato o con pochi
colleghi: sono tutti elementi che rappresentano potenziali fattori di rischio.
Ricordiamo
a questo proposito che il 25 gennaio 2016 è stato finalmente è stato firmato da
CGIL, CISL, UIL e Confindustria l’Accordo quadro sulle molestie e la violenza
nei luoghi di lavoro che recepisce, dopo quasi nove anni, l’accordo quadro
sulle molestie e la violenza nei luoghi di lavoro raggiunto nel 2007 dalle
rispettive rappresentanze a livello europeo (Businesseurope, Ceep, Ueapme e
Etuc).
Concludiamo
l’articolo presentando brevemente una scheda di approfondimento del documento
INAIL dedicata allo stalking.
Infatti
alcuni comportamenti come telefonate, sms, e-mail, visite a sorpresa e perfino
l’invio di fiori o regali, possono essere graditi segni di affetto che,
tuttavia a volte, possono trasformarsi in vere e proprie forme di persecuzione
in grado di limitare la libertà di una persona e di violare la sua privacy. E
la persecuzione avviene solitamente mediante reiterati tentativi di
comunicazione verbale e scritta, appostamenti e intrusioni nella vita privata.
I
contesti in cui si manifesta lo stalking riguardano nella maggior parte dei
casi la relazione di coppia (55%), il condominio, la famiglia
(figli/fratelli/genitori), ma nel 15% dei casi riguardano anche il posto di
lavoro/scuola/università.
La
scheda indica che il “molestatore assillante” (stalker) manifesta un complesso
insieme di comportamenti che comprende l’aspettare, l’inseguire, il raccogliere
informazioni sulla “vittima” e sui suoi movimenti, comportamenti che sono quasi
sempre tipici di tutti gli stalker, al di là delle differenze rilevate di
situazione in situazione.
E
si segnala che alcuni studi su questo fenomeno hanno distinto due categorie di
comportamenti attraverso i quali si può attuare lo stalking:
-
la
prima tipologia comprende le comunicazioni intrusive, che includono tutti i
comportamenti con lo scopo di trasmettere messaggi sulle proprie emozioni, sui
bisogni, sugli impulsi, sui desideri o sulle intenzioni, tanto relativi a stati
affettivi amorosi (anche se in forme coatte o dipendenti) che a vissuti di
odio, rancore o vendetta: i metodi di persecuzione adottati, di conseguenza,
sono forme di comunicazione con l’ausilio di strumenti come telefono, lettere,
sms, e-mail o perfino graffiti o murales;
-
il
secondo tipo di comportamenti di stalking è costituito dai contatti, che
possono essere attuati sia attraverso comportamenti di controllo diretto, quali
ad esempio pedinare o sorvegliare, che mediante comportamenti di confronto
diretto, quali visite sotto casa o sul posto di lavoro, minacce o aggressioni.
Concludiamo
ricordando le tre caratteristiche di una molestia perché si possa parlare di
stalking;
-
l’attore
della molestia, lo stalker, agisce nei confronti di una persona che è designata
come vittima in virtù di un investimento ideo-affettivo, basato su una
situazione relazionale reale oppure parzialmente o totalmente immaginata (in
base alla personalità di partenza e al livello di contatto con la realtà
mantenuto);
-
lo
stalking si manifesta attraverso una serie di comportamenti basati sulla
comunicazione e/o sul contatto, ma in ogni caso connotati dalla ripetizione,
insistenza e intrusività;
-
la
pressione psicologica legata alla “coazione” comportamentale dello stalker e al
terrorismo psicologico effettuato, pongono la vittima “stalkizzata”, definita
anche stalking victim, in uno stato di allerta, di emergenza e di stress
psicologico.
Il
documento dell’INAIL “Lavoro, sicurezza e benessere al femminile. Il fattore
donna al centro delle nuove sfide nel mercato del lavoro”, documento curato da
Emma Pietrafesa, Chiara Brunetti e Maria Castriottaè scaricabile all’indirizzo:
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