NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
JOBS ACT: IL (MAGRO) BILANCIO DI UN ANNO DI INTERVENTI RENZIANI, E I LORO VERI OBIETTIVI
Riporto
a seguire un interessante, dettagliato e documentato articolo dei compagni
Clash City Workers sui mancati effetti positivi del Jobs Act.
Nell’articolo
si dimostra che i motivi reali per cui è stato varato il pacchetto “Jobs Act”
non è stato certo un aumento dell’occupazione, la crescita del PIL, il
miglioramento dell’economia italiana.
Il
Jobs Act è servito piuttosto per mantenere o aumentare il profitto per i
padroni, per scaricare in parte sulla collettività il costo del lavoro, per
cancellare la conflittualità, per estendere la flessibilità del lavoro fino a
legalizzare vere e proprie forme di lavoro nero.
Ma
cosa c’entra tutto questo con la sicurezza sul lavoro?
Un
primo effetto deleterio (diretto) del Jobs Act è stato l’ulteriore riduzione
delle tutele previste dalla normativa su salute e sicurezza (D.Lgs. 81/08) a
causa delle modifiche peggiorative ad essa apportate, come evidenziato in un
mio articolo specifico.
Il
secondo (indiretto, ma, secondo me, ben più grave) peggioramento apportato dal
Jobs Act è il cancellamento o la riduzione della conflittualità, rendendo così
i lavoratori ancora più ricattabili e quindi meno propensi ad avviare vertenze
anche sul rispetto del diritto a un lavoro salubre e sicuro.
In
conclusione, come ha già avuto modo più volte di scrivere, la crisi la stiamo
pagando (e continueremo a pagarla visto l’andamento involutivo dell’economia
mondiale) sulla nostra pelle, nel senso letterale del termine.
L’aumento
degli indici infortunistici e delle malattie professionali ne è una prima
conferma.
Marco
Spezia
da
Clash City Workers
6
marzo 2016
PREMESSA
Quello che state
per leggere è il nostro quarto o quinto contributo sul Jobs Act. Se la nostra è
un’ossessione, lo è in misura speculare a quella del Governo e dei suoi
megafoni ambulanti che, nel corso dell’ultimo anno, ci hanno quasi
quotidianamente edotto sui prodigiosi effetti delle politiche governative sul
lavoro.
Arriviamo buoni ultimi
a rivelarvi che, in realtà, di prodigi se ne sono visti pochi: ma l’ansia da
prestazione dell’apparato di Governo su questi temi è di per sé rivelatrice del
fatto che l’attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna
critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità
lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun
tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di
chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere
mediatico.
NOTA DI METODO
Ascriveremo alla
categoria Jobs Act molte cose diverse: gli esoneri contributivi stabiliti dalla
legge di stabilità 2015; i decreti che costituiscono il Jobs Act vero e proprio
(decreti Poletti del 2014, contratto a tutele crescenti, demansionamento e
controllo a distanza); l’estensione della possibilità di utilizzo dei voucher.
Faremo questa mescolanza perché, al di là delle differenze tecniche tra i
provvedimenti, ci interessa cogliere il nesso politico dietro tutta l’azione
governativa sul lavoro, in un contesto, quello italiano, che non sembra proprio
intenzionato a voler uscire dalla crisi (ammesso che qualcun altro ci sia
effettivamente riuscito).
AGGIORNAMENTO 6 MARZO 2016: NOTA SULLE FONTI
I dati che sono
stati utilizzati per questo documento sono presi, essenzialmente,
dall’Osservatorio sul Precariato dell’INPS e dal database dell’ISTAT. In
particolare, quelli relativi all’incremento occupazionale 2015 e alla sua
composizione sono tratti dal comunicato stampa ISTAT del 2 Febbraio 2016,
reperibile al link:
L’ISTAT ha,
successivamente, aggiornato tutte le serie storiche relative all’occupazione,
in seguito ad un’innovazione metodologica relativa alla destagionalizzazione
dei dati. I cambiamenti non sono pochi, né di scarso peso: per fare solo un
esempio, il dato relativo all’incremento occupazionale 2015, che ammontava a
+109.000 unità secondo il vecchio metodo, è “improvvisamente” diventato
+163.606. Non avendo la possibilità di verificare di nuovo, e in breve tempo,
tutti I dati, ci attestiamo su quelli che l’ISTAT forniva fino al mese scorso. Non possiamo fare a meno di notare, però, che la procedura seguita dal
nostro istituto di statistica è poco rigorosa e piuttosto “bizzarra”,
quantomeno dal punto di vista comunicativo. Del resto questo
improvviso aumento di circa un terzo dei posti di lavoro in più per il 2015
(che ai malpensanti potrebbe far nascere più di un sospetto) è in scia con
quanto è accaduto, ad esempio, in Grecia, Spagna e Portogallo negli anni
scorsi; o con quanto è accaduto con i dati sulle migrazioni forniti da Frontex;
dati che cambiano all’improvviso e che dimostrano, anche presupponendo la buona
fede di chi li fornisce, il carattere profondamente politico, e quindi
ideologicamente orientato, della raccolta ed elaborazione statistica di dati,
sulla quale poi si fanno, o si giustificano, le scelte dei governi.
1. SPAZZIAMO IL CAMPO DALLA FALSA PROPAGANDA: IL JOBS ACT È STATO UN FLOP (A CARO PREZZO)
Vi chiediamo un
momento di pazienza prima di iniziare. Vi sembrerà di essere sommersi da un
mare di numeri contraddittori e incomprensibili, e di perdervi, ma state
tranquilli: ne usciremo vivi.
Le fonti utilizzate
sono, come abbiamo detto, il bollettino mensile dell’Osservatorio sul Precariato
dell’INPS e le rilevazioni statistiche dell’ISTAT.
Qual è la differenza tra le due fonti?
L’INPS analizza i
flussi, cioè l’andamento mensile delle attivazioni e delle cessazioni di contratti;
l’ISTAT lo stock, cioè il saldo finale degli occupati, il suo incremento o
decremento.
Non è la stessa cosa, un nuovo contratto o un nuovo
posto di lavoro?
No. Una stessa
persona può essere intestataria di più contratti, contemporaneamente (due
part-time, per esempio) o successivamente: ad un solo posto di lavoro possono
corrispondere più contratti. Un altro esempio (è successo nel 2015) è che un
lavoratore, formalmente “autonomo”, diventa dipendente: quel lavoratore già era
presente nel mercato del lavoro, quindi al nuovo contratto non corrisponde
automaticamente un nuovo posto.
Che cosa ha fatto
la propaganda governativa, a partire dall’inizio del 2015? Ha usato sistematicamente
i dati INPS, cioè quelli sui contratti, e li ha spacciati per posti di lavoro
(con la supina, pigra e colpevole complicità della quasi totalità della stampa
nazionale); non solo, per cantare le lodi del Jobs Act il Governo è arrivato
addirittura a presentare come “crescita dell’occupazione” il dato lordo sui
nuovi contratti attivati, senza calcolare le contemporanee cessazioni. Hanno
imbrogliato spudoratamente e goffamente, per un anno intero.
La realtà,
ovviamente, è diversa.
Il numero di nuovi contratti a tempo indeterminato
attivati, al netto delle cessazioni, nell’anno 2015 è 186.048. Il numero dei
nuovi occupati, invece, è 109.000 (secondo ISTAT): questo è il
prodotto di un incremento del lavoro dipendente
(+247.000) e un forte decremento del lavoro
autonomo (-138.000); all’interno del lavoro dipendente prevale,
seppur di poco, il tempo indeterminato sul determinato (135.000 contro 113.000)
ma sono i posti a tempo determinato che hanno la
percentuale di crescita più alta (+4,9% rispetto al +0.9% degli
indeterminati), confermandosi la tipologia di lavoro più dinamica e finendo per
rappresentare il 14,2% del totale dell’occupazione, cifra record mai registrata
(nel 2014 erano il 13,6%).
Ciò che l’ISTAT,
purtroppo, non ci dice è la composizione di quei 109.000 nuovi occupati: quanti
di loro sono a termine, quanti indeterminati, quanti autonomi.
Non potendo
stimarli in alcun modo, postuliamo un assunto palesemente impossibile e falso,
cioè che tutti i 109.000 nuovi posti di lavoro siano a
tempo indeterminato: in questo modo creiamo lo scenario
(ripetiamo, impossibile) più favorevole alla propaganda governativa.
Quindi in sostanza
l’occupazione aumenta di molto poco, anche perchè crolla il lavoro autonomo.
All’interno del lavoro dipendente il miracolo del Jobs Act consisterebbe invece
in quei 135.000 contratti a tempo indeterminato. Come veniamo subito a
dimostrare però il costo potenziale, per la
collettività, di ogni posto di lavoro è stato altissimo e ingiustificabile.
E’ ormai assodato
(lo dice da tempo Marta Fana, lo ha detto finanche Bankitalia) che il “merito”
della relativa, modestissima crescita dei contratti a tempo indeterminato è
essenzialmente da attribuirsi agli esoneri contributivi. Basta vedere,
l’andamento mensile delle accensioni dei nuovi contratti a tempo indeterminate:
a Dicembre hanno registrato un enorme incremento, proprio quando era l’ultima
occasione per le imprese di accaparrarsi i sopraccitati sgravi. Secondo
Bankitalia, inoltre, “la combinazione del contratto a tutele crescenti e degli
incentivi spiega solo il 5% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato”.
Vediamo, dunque, di
che cifre potenzialmente parliamo, quanto ci potrebbe costare questa manovra. I
nuovi contratti che hanno usufruito degli sgravi sono stati 1,44 milioni; l’ammontare massimo degli sgravi previsto
dalla legge di stabilità è 8.060 euro annui per tre anni.
Il calcolo, dunque, è: (8.060x3)x1.440.000 = 34.819.200.000
euro.
Il costo potenziale
di ogni nuovo posto di lavoro (postulando che tutti i contratti godano del
massimo degli sgravi per tutti e tre gli anni) è dunque di 319.442 euro: nella
realtà è sicuramente maggiore, ma non sappiamo di quanto. Altissimo e ingiustificato, non ci sarebbe neanche bisogno di scriverlo.
A questo punto
qualche cantore governativo potrebbe dirci che abbiamo imbrogliato, che il Jobs
Act non può essere valutato solo sulla base dei nuovi posti di lavoro e che
comunque il calo della disoccupazione e l’aumento degli occupati sono dati
positivi, anche se irrisori.
Certo! Peccato che
il Jobs Act non c’entri nulla!
La disoccupazione è diminuita dell’1% scendendo dal
12,4% all’11,4%,
ma i dati sono sostanzialmente in linea con quelli europei: nell’Eurozona la
disoccupazione è al 10,5%, in Francia al 10,1%, in Spagna al 21,4%, in Germania
al 4,5%. La curva di crescita è in linea con l’UE, dove da gennaio a novembre
la disoccupazione è scesa dello 0,7%.
In sintesi: il Jobs Act è stato ininfluente rispetto
alla dinamica del mercato del lavoro, l’andamento è stato in linea con quello
del resto dell’UE; quel pochissimo in più ci è costato carissimo!
2. EFFETTI POLITICI DELL’OPERAZIONE
Insomma, il Jobs
Act ha prodotto poco in termini lavorativi nonostante le roboanti promesse di
Renzi; che cosa ha prodotto, invece, in termini politici?
1. Contratto a tutele crescenti
Il tempo
indeterminato non esiste più, dal momento che è stato di fatto cancellato il
reintegro e la sanzione amministrativa in caso di ingiustificato motivo è
modesta. Ci sono stati, infatti, già casi di licenziamenti di lavoratori
assunti con il contratto a tutele crescenti.
2. Contratti a tempo determinato.
Abolito ogni
obbligo di indicazione delle ragioni tecniche, produttive, organizzative,
sostitutive nei primi 36 mesi di ricorso al contratto a termine, fino a un
massimo di 5 rinnovi. Considerato che basta cambiare il titolo della mansione
per ricominciare daccapo con lo stesso lavoratore, si può dire che non c’è alcun limite di utilizzo ai contratti a termine.
L’unica sanzione prevista, per un utilizzo oltre il limite del 20% del totale del
personale, è minima: il 20% della retribuzione del 21esimo contratto. Non a
caso, nonostante i consistenti sgravi contributivi per i
contratti a tutele crescenti e nonostante la libertà di licenziare, i contratti
a termine sono la forma di contrattazione più utilizzata nel lavoro
subordinato.
3. Voucher
Non sono contratti,
ma sono la forma di organizzazione del lavoro maggiormente cresciuta nel 2015.
Ne sono stati venduti 114.921.574 del valore nominale
di 10 euro, per un ammontare complessivo dunque di oltre un
miliardo di euro. Danno diritto alla maturazione della pensione e
all’assicurazione INAIL, ma non a disoccupazione, maternità,
malattia, ecc., perché non si certifica, col voucher, la continuità del
rapporto di lavoro. Il limite economico di utilizzo annuo è
9.333 euro lordi a lavoratore, più basso nel caso di prestazioni per
imprenditori commerciali e liberi professionisti. Ciò significa che, nel corso
del 2015, almeno 123.134 lavoratori sono stati pagati
con voucher. Molti di più, se si considera che per alcuni
settori (pub, ristoranti, ecc.) il limite è più basso, è che molti vengono
retribuiti in parte in nero, in parte in voucher. Possiamo stimare senza timore
di esagerare che sono stati circa 200.000 i lavoratori pagati in voucher, pari
alla totalità dell’incremento del numero degli occupati (nel cui computo comunque
non confluiscono).
4. Controllo a distanza
Senza alcun
collegamento con eventuali effetti benefici sul mercato del lavoro, nel Jobs
Act è stata inserita la possibilità, per i datori di lavoro, di controllare i
lavoratori attraverso telecamere a circuito chiuso, controllo telematico
sull’uso dei PC, chip nelle scarpe per il controllo dei movimenti: in pratica è
diventato legale il modello organizzativo di Amazon.
5. Demansionamento
Come dice questo
articolo (http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-sanatoria-nascosta-nel-jobs-act/)
una pratica, quella del mancato riconoscimento della professionalità, che è anticostituzionale
e riconosciuta dalla medicina del lavoro come lesiva dell’integrità
psico-fisica dei lavoratori, è stata riconosciuta innocua e consentita sempre e
comunque.
3. MA INSOMMA, L’ECONOMIA E’ RIPARTITA?
Il 14 Marzo 2015
Renzi era in visita al cantiere dell’Expo. Mancavano 50 giorni all’apertura e
il cantiere era pronto al 90%, ma ciò bastava e avanzava, per Renzi e Squinzi,
per lanciarsi in ottimistiche previsioni sulla ripresa in Italia. Dall’articolo
de laRepubblica on-line di quel giorno leggiamo che Squinzi dichiarava:
“Possiamo invertire la rotta e cambiare la condizione del Paese. Expo è il
motore che permetterà al Paese di accelerare i consumi interni ed è il
trampolino per la crescita del nostro PIL”. Renzi, dal canto suo, non si
sottraeva: “Dopo questo non finisce tutto perché finalmente l’economia italiana
sta ripartendo e potremo reinvestire nel settore delle infrastrutture anche
alla luce delle nuove tecnologie”. Di dichiarazioni come queste, il Governo, i
giornalisti al suo seguito, gli esperti che non ne indovinano una da anni ne
hanno rilasciate con frequenza più che quotidiana. E’ andata davvero così?
Insomma: il PIL cresce, ma pochissimo (+0,7% al
secondo trimestre 2015, gli ultimi dati accessibili); la produzione industriale
crolla (-1% a dicembre 2015, era al +0,2% un anno prima; i prezzi al consumo
ristagnano allo 0,1%; la disoccupazione segue la tendenza europea e resta
comunque alta, mentre sale la quota di inattivi; l’OCSE, infine, ha tagliato le
stime di crescita per i prossimi due anni, per praticamente tutto il mondo. E’
evidente che, in un contesto di crisi generalizzata e globale, solo un
imbecille o qualcuno in malafede può ritenere che misure come gli esoneri
contributivi e il Jobs Act possano rilanciare l’occupazione...
Bene: proveremo a dimostrarvi che tutto ciò che il
Governo ha fatto sul lavoro è esattamente il prodotto di imbecilli in malafede!
4. QUAL E’ STATO L’OBIETTIVO REALE? DI FATTO, QUALI SONO STATI GLI EFFETTI PIÙ CONSISTENTI DEL JOBS ACT?
Il costo del lavoro per le imprese è stato ridotto,
scaricandolo sulla collettività, quindi, in ultima analisi, sul salario.
La conflittualità è stata annichilita dalla
cancellazione dell’articolo 18, dal controllo a distanza e dal demansionamento.
La possibilità di ricorrere al lavoro precario, o di
“legalizzare” il nero, è aumentata enormemente, col boom dei
voucher e la predominanza dei contratti a tempo determinato.
Il Governo,
insomma, ha fatto regali immensi ai padroni: ma i
padroni, che stanno facendo per il famoso “sistema Paese”? Vediamolo.
5. L’ECONOMIA
ITALIANA, OVVERO: IL MORTO INTERROGATO NON RISPOSE
Uno dei cavalli di
battaglia del Governo è stato che gli interventi sul lavoro avrebbero
rilanciato la produttività; non a caso nell’ultima legge di stabilità lo Stato
si fa praticamente carico degli investimenti privati introducendo il cosiddetto
“superammortamento”, cioè una valutazione maggiorata del 40% delle spese
sostenute per l’acquisto di nuovi macchinari e i canoni di locazione, in
maniera tale da avere consistenti sconti su IRES e IRPEF: in parole semplici i padroni pagano meno tasse se investono.
A quanto pare, però, a questo fatto di spendere i
soldi i padroni italiani sono piuttosto refrattari: tra il 1995 e il
2014, infatti, la quota di investimenti sul PIL è diminuita del 2,51%! Nonostante
ciò, nello stesso arco di tempo la produttività,
cioè la quantità di prodotto per unità lavorativa, è costantemente aumentata, tranne che nel 2009 e nel
2012: in totale, nel 2014 era il 47% in più rispetto al 1995!
Chi ha fatto questo vero e proprio miracolo
italiano?
I lavoratori! Solo aumentando l’intensità di sfruttamento, intesa anche,
brutalmente, come pagare di meno per più lavoro, è possibile crescere in
produttività riducendo gli investimenti...insomma, avremmo tutto il diritto di decidere noi sulle scelte economiche, visto
che sono i numeri stessi a dirci che mandiamo avanti la baracca,
ma invece dobbiamo sorbirci le lezioncine di chi ci accusa della mancata
crescita perché...guadagniamo troppo!
In un recente
documento del proprio Centro Studi, infatti, Confindustria grida allo scandalo,
sostenendo esplicitamente che, in uno scenario in cui il valore aggiunto non
cresce a sufficienza, la massa salariale assume, rispetto al PIL, proporzioni
intollerabili.
E hanno ragione (dal loro punto di vista...)! La curva dei
salari, infatti, dall’inizio della crisi del 2008, da quando cioè il PIL è in
contrazione, diventa leggermente anticiclica. Dal momento che non esiste ancora
(per fortuna) una scala mobile al contrario (anche se c’è da dire che con gli
ultimi rinnovi dei CCNL sono quasi riusciti ad imporla), non è stato possibile
per i padroni tagliare i salari proporzionalmente al crollo del PIL, quindi
questi ultimi sono, in percentuale, aumentati: di pochissimo, +1,20 % la
differenza tra il 2014 e il 1995, ma abbastanza per allarmare Confindustria. Non è un caso, infatti, che nei più importanti rinnovi contrattuali del
2015 i padroni abbiano chiesto un ridimensionamento salariale, o in alternativa
la corresponsione degli aumenti concordati in forma di premio di risultato.
Ma che cos’è che
davvero preoccupa Confindustria? La produttività cresce senza che loro investano
più di tanto, e se lo fanno hanno lauti sconti sulle tasse; i salari sono aumentati in proporzione al PIL, sì, ma dello 0,06% medio
all’anno; non pagano i contributi per i neoassunti, possono
licenziarli quando vogliono, possono usare i voucher in qualunque settore...che cosa ti preoccupa, Squinzi?
Noi lo sappiamo,
perché loro non hanno vergogna a dirlo: li preoccupa il cosiddetto MOL, Margine
Operativo Lordo, che noi più chiaramente chiamiamo profitto. Rispetto al 1995, nel 2014 la percentuale del
MOL sul PIL era diminuita dell’1,40%, e di anno in anno la variazione oscilla
tra un + e un – zero virgola...insomma, si può dire che sia leggerissimamente
in calo, e che l’unico sforzo dei padroni in questi vent’anni sia stato quello
di mantenerlo più o meno costante, non farlo diminuire troppo.
6. MA CHE COLPA ABBIAMO NOI?
Ricapitoliamo un
po’ il comportamento di questi geni dell’economia e della finanza: scoppia la
crisi, e la prima cosa che fanno in Italia è minare
alla base le possibilità di una ripresa, diminuendo la
percentuale di capitale investito, solo per continuare a mettersi in tasca più
o meno gli stessi soldi a fine anno; dopo che hanno fatto questo decidono che è
il momento di attaccare frontalmente i salari: il Jobs
Act e i rinnovi contrattuali arrivano esattamente a questo punto,
e si portano dietro anche una prevedibile riduzione delle imposte sul lavoro,
dal momento che ci sarà sempre meno welfare da finanziare.
Il risultato è che siamo di fronte al
più grave attacco al salario degli ultimi 30 anni
almeno, che: non farà aumentare il PIL; non avrà risultati sulla produttività;
servirà a mantenere invariata, almeno per qualche anno, la quantità di soldi
che i padroni rubano, fino a trovarci (si parla già del 2017) precipitati in
un’altra crisi, peggiore della precedente (l’andamento delle Borse degli ultimi
mesi è un indicatore affidabile).
Se ciò non
bastasse, per non farsi cogliere di sorpresa il capitale
italiano sta tentando disperatamente di svendere al miglior
offerente i settori produttivi strategici.
Parliamo di Finmeccanica, che sta svendendo tutto ciò che non è legato
alla produzione militare, come l’aeronautica (e lo sanno bene i lavoratori
Alenia, Fincantieri. Dema...).
Parliamo dell’ILVA, il più grande impianto siderurgico a ciclo integrale d’Europa
finché non è stato regalato dallo Stato ai Riva, che hanno smesso di investirci
fino a quando, con l’esplodere dello scandalo ambientale, l’unica prospettiva
realistica, per quanto lontana, è diventata una riconversione dello
stabilimento in un impianto di lavorazione di semilavorati, non più competitivo,
a spese dello Stato.
7. CONCLUSIONI
Usiamo l’abusata
metafora del Governo, o della società, come una nave, precisamente, per restare
ancora di più nel cliché, come il Titanic.
Qualcuno l’ha
costruito male, risparmiando su tutto, dai pezzi alla manodopera. Ci ha caricato
sopra una quantità di gente, tutta in qualche modo costretta a lavorarci o
viverci. Alle prime falle, questo qualcuno ha pensato bene di ripararle
prendendo dei pezzi da altre parti della chiglia. Ogni volta che riparava,
aumentava la fragilità complessiva, ma al tizio non interessava, l’importante
era continuare a navigare, speculando e arricchendosi su tutti, dai marinai ai
passeggeri. A un certo punto il Titanic inizia a collassare, il tizio e altri
stronzi come lui non solo si buttano sulle scialuppe scacciando gli altri,
accusano passeggeri e lavoratori che è colpa loro, sono troppi, è pure un po’
giusto che muoiano e, ciliegina sulla torta, prima di salire sulle scialuppe si
affannano anche a sfasciare ulteriori pezzi di chiglia, contando di vendere un
po’ di ferraglia a qualcuno, dopo la bufera.
Sperano, gli stronzi, di sopravvivere sempre, di
restare sempre a galla rispettando la loro natura; sperano quindi,
dopo l’ennesimo naufragio, di trovare ancora qualcuno a cui vendere la loro
paccottiglia. Ma un dopo, e un qualcuno, per loro potrebbero non esserci; prima
che il naufragio si compia la gente sulla nave potrebbe decidere di buttarli a
mare, oppure potrebbero sbarcare in un posto dove sanno benissimo com’è andata
e fanno loro pagare tutto, fino all’ultimo centesimo.
Insomma, in questa
storia, e nella Storia, come sempre, il futuro non è scritto!
RICERCA SUL FENOMENO INFORTUNISTICO E LE MALATTIE PROFESSIONALI
DEGLI AGENTI DI POLIZIA MUNICIPALE
DaArticolo
19 (Città Metropolitana)
di Beatrice Cocchi, Marcello Crovara, Leopoldo
Magelli
Tra gli strumenti di cui i RLS dovrebbero poter
disporre per svolgere al meglio la loro attività, sia in termini di conoscenza
e valutazione dei rischi che in termini di messa a punto di idonee ed efficaci
misure preventive e protettive da proporre ai datori di lavoro, la conoscenza
corretta e puntuale dell’andamento degli infortuni e delle loro caratteristiche
e determinanti, nonché dei casi di malattia professionale costituisce un
elemento basilare.
Proprio per confermare la validità di questa
affermazione, vi proponiamo qui una breve sintesi dei risultati di una recente
ricerca (luglio 2014 – luglio 2015) svolta nella nostra regione (coinvolgendo
anche altre due regioni limitrofe).
Infatti l’indagine sul fenomeno infortunistico e
sulle malattie professionali degli agenti di Polizia Municipale ha riguardato
il personale di tre regioni (Emilia Romagna, Liguria, Toscana) e un periodo di
osservazione di 5 anni (dal 2009 al 2013). I dati studiati sono quelli
rilevabili (come casi definiti per gli infortuni, come casi denunciati per le
malattie professionali) dalle statistiche e dai flussi informativi INAIL.
La ricerca è stata promossa dalla Scuola
Interregionale di Polizia Locale (di Emilia Romagna, Liguria e Toscana) e si è
potuta realizzare grazie alla preziosa collaborazione dell’INAIL: ringraziamo
anche SIPL e INAIL per aver acconsentito alla presentazione su Articolo 19 di
questo contributo.
La ricerca è stata condotta da Beatrice Cocchi,
Marcello Crovara (INAIL) e Leopoldo Magelli, con la collaborazione anche di
Michele Cicalini (SIPL).
Il primo elemento da evidenziare è che il
fenomeno infortunistico appare in calo, sia in termini di numero assoluto di
infortuni che in termini di indice di incidenza; in ogni modo, il numero di
infortuni è significativo (il che ha permesso un’attenta analisi del fenomeno):
si tratta di 4.090 infortuni riconosciuti e definiti nei 5 anni, con un valore
assoluto che scende dagli 864 casi del 2009 ai 787 del 2013, e un indice di
incidenza, che, nei vari anni e nelle diverse regioni, scende dal 2009 al 2013
da 8,7 a
8,3 per l’Emilia-Romagna, da 8,4
a 7,2 per la
Liguria, da 8,7
a 8,0 per la
Toscana.
Gli infortuni delle lavoratrici assommano ad un
terzo esatto del totale (del resto, le lavoratrici sono circa un terzo del
totale degli agenti di Polizia locale nelle tre Regioni).
Il trend dell’Indice di Incidenza è perfettamente
corrispondente a quello dei numeri assoluti: un calo dal 2009 al 2013, con un
notevole calo dell’indice nel 2012, un recupero nel 2013, ma sempre a valori
inferiori rispetto all’anno iniziale del periodo di osservazione, il 2009.
E’ da notare che il tasso grezzo unificato di infortuni
per il personale delle polizie locali delle tre regioni, nell’arco del
quinquennio, presenta un valore medio sempre superiore (ad esempio nel 2012 del
28,6%) al valore medio di tutti i lavoratori italiani assicurati all’INAIL
(sempre nel 2012, del 18,6%). In altri anni, lo scarto è ancora maggiore
(massimo nel 2011: 33,6% versus 20,5%!). Questo dato dimostra che, pur in calo,
il fenomeno infortunistico nella polizia locale è un elemento di significativa
importanza.
Per quel che riguarda la dinamica degli
infortuni, il campo è dominato da tre elementi:
-
l’infortunistica stradale,
intesa come incidenti stradali (si includendo che escludendo gli infortuni in
itinere): 1.048 casi;
-
l’infortunistica legata a
cadute e simili durante le attività di spostamento appiedato: 1.052 casi;
-
l’infortunistica legata ad
atti di violenza, aggressione, ecc., subiti durante e attività di vigilanza e
controllo: 950 casi.
Le parti anatomiche più interessate sono:
-
l’arto inferiore dal bacino
alla caviglia esclusa (728 casi, il 18,39%);
-
la colonna vertebrale nei
segmenti toracico, lombare e sacrale (717 casi, il 18,11%);
-
l’arto inferiore nella sua
parte più distale, ovvero caviglia e piede (519 casi, il 13,11%);
-
l’arto superiore inteso come
braccio, gomito, avambraccio polso, mano esclusa (480 casi, il 12,12%);
-
la, mano e le dita (445
casi, l’11,24%).
Le tipologie di lesione più rappresentate sono le
contusioni (42,4%) e le lussazioni/distorsioni (40,0%): assieme totalizzano più
dei 4/5 degli eventi.
Per quel che riguarda la durata degli infortuni e
le conseguenze in termini di inabilità, si rileva che (a parte i casi mortali
che sono stati, in totale, 2) il 21% ha avuto una durata superiore ai 40 giorni
(all’interno di questi va ricompreso quel 3,5% del totale infortuni la cui
durata ha superato i 120 giorni).
Quanto agli esiti (sempre tenendo presenti i 2
casi mortali) l’83,1% non ha presentato postumi permanenti a fronte di un 16,9%
che invece li ha presentati (16,4% sotto il 15% di inabilità permanente, 0,5%
oltre tale limite).
Invece, per quel che riguarda le malattie
professionali, il numero denunciato è talmente esiguo (37 in totale) da non
permettere valutazioni puntuali, anche per l’ampia distribuzione delle stesse
su patologie molto diverse.
Le patologie più rappresentate nelle denunce sono
quelle a carico del sistema osteo-articolare, dei muscoli e del tessuto
connettivo (16 casi in totale, quasi il 50% di tutti i casi), seguite dai
tumori (9 casi in totale, circa il 25% del totale delle malattie denunciate),
da quelle a carico del sistema nervoso e organi di senso (5 casi, di cui 3
ipoacusie) e dell’apparato respiratorio (4 casi).
Occorre sottolineare che il numero di casi
riconosciuti dall’INAIL è molto basso, solamente 4, per cui il dato globale
delle malattie riconosciute diventa davvero irrilevante.
Dopo l’analisi degli infortuni, vengono
sviluppate alcune possibili ipotesi di interventi di prevenzione che, se
attuati coerentemente, potrebbero ridurre il fenomeno.
Si tratta di una serie di misure tra loro strettamente
integrate, che possono essere ricondotte a tre filoni principali:
-
misure rivolte agli aspetti
tecnici/tecnologici;
-
misure relative al fattore
umano;
-
misure relative all’ambiente
in cui si opera.
E’ dall’applicazione combinata di tali misure che
può scaturire la riduzione della probabilità del verificarsi dell’evento
infortunistico e la limitazione, a fatti avvenuti, degli effetti dannosi; risulta
ragionevole individuare nel fattore umano il punto su cui concentrare le misure
di miglioramento, formative per gli aspetti relazionali e addestrative per
l’applicazione di particolari tecniche operative.
In particolare, le esperienze e le ricerche degli
anni precedenti condotte insieme con SIPL ci hanno confermato che
l’aggressività può manifestarsi in tutte le situazioni operative per gli operatori
della Polizia Locale, a partire dal ricevimento del pubblico presso le sedi.
Per quanto riguarda le misure preventive e
protettive applicabili all’ambiente delle sedi a cui accede il pubblico,
possono risultare utili accorgimenti come sale d’attesa confortevoli e luoghi
di colloqui con i cittadini controllabili dall’esterno, pur garantendo la
riservatezza delle conversazioni, fino a barriere di separazione tra
l’operatore e l’utente.
Su un piano più organizzativo, accessi e
parcheggi facili, appuntamenti comodi, attese brevi, segnaletica, avvisi e
istruzioni comprensibili anche per stranieri aiutano a non fomentare
l’aggressività.
Per quanto riguarda le attività all’esterno,
alcune misure organizzative, di solito applicate anche per altri scopi,
rivestono un evidente valore preventivo e protettivo e possono essere implementate,
come ad esempio:
-
non lavorare da soli,
prevedere un numero adeguato di operatori per situazioni particolari, disporre
di informazioni adeguate, di mezzi di comunicazione funzionanti e di un
supporto attivabile in caso di bisogno;
-
scegliere, per quanto
possibile, le condizioni più favorevoli per gli interventi: tempi, luoghi,
dislocazione, ecc.;
-
cooperare con altri soggetti
coinvolti nelle attività, concordare protocolli degli interventi definendo in
anticipo i rispettivi compiti e responsabilità, attivare momenti formativi
comuni (per esempio nel caso di TSO, ma anche di controlli o interventi
congiunti, come cantieri, eventi, partite di calcio).
Per quanto riguarda infine gli interventi
formativi e addestrativi rivolte agli operatori, finalizzati a migliorare la
capacità di relazione allo scopo di non sollecitare l’aggressività, ma anche
all’applicazione di specifiche tecniche operative per contenerla o all’uso di
particolari attrezzature di lavoro o presidi difensivi, si rimanda al complesso
delle attività formative organizzate da SIPL su:
-
prevenzione dei conflitti e
mediazione sociale;
-
tecniche operative.
Un’ultima notazione riguarda il tema dello stress
da lavoro correlato, molto sentito e “raccontato” dai lavoratori. Al contrario,
i dati delle malattie professionali denunciate (1) e riconosciute (0) non ci
forniscono segnali allarmanti.
D’altra parte soluzioni di prevenzione
collettiva, da attivarsi anche in assenza di tali segnali, non devono essere
necessariamente e specificamente indirizzate allo stress e possono riguardare:
-
misure tecniche/ergonomiche
(ad esempio potenziamento della dotazione, degli automatismi tecnologici,
progettazione ergonomica dell’ambiente e dei processi di lavoro, ecc.)
-
misure
organizzative/procedurali sull’attività lavorativa (ad esempio orario
sostenibile, alternanza di mansioni nei limiti di legge e contratti,
riprogrammazione attività, definizione di procedure di lavoro, informazione,
formazione e addestramento, ecc.)
-
misure di revisione della
politica aziendale (ad esempio azioni di miglioramento della comunicazione
interna, della gestione, delle relazioni, della consultazione, ecc.)
Le misure preventive e protettive rivolte agli
aspetti tecnici/tecnologici, ambientali e umani, non saranno del tutto efficaci
se non integrate da altri interventi che chiameremo “trasversali” o
“organizzativi”, non limitati agli argomenti approfonditi in precedenza: infortuni
stradali, in itinere o meno; cadute; aggressioni e colluttazioni.
Si tratta, ad esempio, delle seguenti azioni:
-
gestione del programma delle
misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli
di sicurezza;
-
gestione delle misure di
emergenza sia all’interno che all’esterno;
-
gestione della sorveglianza
sanitaria: definizione dei protocolli da parte del Medico Competente,
specifiche tutele per le lavoratrici madri, ecc.;
-
gestione delle attrezzature
di lavoro (auto, moto, macchine in generale e altre attrezzature):
disponibilità, manutenzione, equipaggiamento, ecc;
-
gestione dei Dispositivi di
Protezione Individuali (DPI): criteri di scelta e di utilizzo, acquisto,
distribuzione, ripristino in caso di usura, addestramento all’uso, controllo
sull’uso effettivo;
-
informazione, formazione e
addestramento;
-
gestione delle relazioni con
le figure previste dal D.Lgs. 81/08 come il Medico Competente e il
Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza: pareri, consultazioni e riunione annuale
di sicurezza ex articolo 35 del D.Lgs. 81/08;
-
gestione delle segnalazioni
di lavoratori e preposti.
SICUREZZA DELLE
MACCHINE: I DISPOSITIVI DI COMANDO
Da:
PuntoSicuro
11
marzo 2016
Un
progetto si sofferma sulla sicurezza delle macchine nell’industria
metalmeccanica. Focus sui dispositivi di comando: avviamento, azione mantenuta,
comando di arresto, arresto di emergenza e selettore modale di funzionamento.
Perché
le macchine siano sicure per gli operatori è importante, oltre all’eventuale
presenza di ripari, di dispositivi di sicurezza e al rispetto di idonee
distanze, che i vari sistemi di comando permettano di evitare l’eventuale
insorgere di situazioni pericolose.
Ci
soffermiamo sui dispositivi di comando con riferimento specifico alle macchine
utilizzate nel comparto metalmeccanico e al documento “ImpresaSicura
Metalmeccanica” correlato a Impresa Sicura, un progetto multimediale (elaborato
da Enti Bilaterali Marche, Enti Bilaterali Emilia Romagna, Regione Marche,
Regione Emilia-Romagna e INAIL) che è stato validato dalla Commissione
Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella
seduta del 27 novembre 2013.
Nel
documento si ricorda che i dispositivi di comando costituiscono l’elemento
attraverso il quale l’operatore attiva o disattiva le funzioni della macchina.
E
questi dispositivi sono normalmente costituiti da un organo meccanico che a
volte interviene direttamente su organi di trasmissione del moto della macchina
(ad esempio leva di innesto rotazione mandrino del tornio) e a volte agisce
invece sulla circuitazione elettrica/elettronica, pneumatica o idraulica (ad
esempio comando a due mani di pressa idraulica).
Il
documento riporta le caratteristiche generali dei dispositivi di comando che
devono essere:
-
chiaramente
visibili e con la chiara indicazione (ad esempio tramite marcatura, descrizione
completa, pittogramma) del tipo di azione che si va a comandare;
-
situati
fuori dalle zone pericolose;
-
protetti
contro il rischio di azionamento accidentale se ciò comporta un rischio (ad
esempio pulsante con guardia, pedale con protezione superiore e/o azionamento
complesso, leva con movimento articolato);
-
disposti
in modo tale che l’operatore addetto al comando sia in grado di verificare
l’assenza di persone dalle zone di rischio.
Sono
riportate poi altre caratteristiche dei dispositivi di comando:
-
disposti
in modo da garantire una manovra sicura, univoca e rapida;
-
installati
in modo tale che il movimento del dispositivo di comando sia coerente con
l’azione del comando;
-
posizionati
in modo che la loro manovra non causi rischi supplementari;
-
dotati
di grado di protezione IP, contro la penetrazione di polvere o acqua, idoneo e
compatibile con le condizioni ambientali;
-
sufficientemente
robusti; particolare attenzione deve essere dedicata ai dispositivi di arresto
di emergenza che possono essere soggetti a grossi sforzi.
Il
documento, con riferimento alla norma CEI EN 60204, si sofferma su vari aspetti
e comandi.
Riguardo
all’avviamento, ossia all’inizio di un ciclo o di una funzione di lavoro, si
indica che deve essere possibile soltanto se tutte le funzioni di sicurezza e
le misure di protezione sono presenti e funzionanti. Per avviamento si intende
anche la rimessa in marcia dopo un qualunque arresto. L’avviamento di una
macchina deve essere possibile soltanto agendo volontariamente su un
dispositivo di comando appositamente predisposto.
E
gli organi di comando (pulsanti, pedali, leve, ecc.) dei dispositivi di
avviamento devono essere protetti contro il rischio di azionamento accidentale
o involontario (ad esempio pulsante con guardia, pedale con protezione
superiore e/o azionamento complesso, leva con movimento articolato). Tale
requisito non è necessario quando l’avviamento non presenta alcun rischio per
le persone. Se la presenza di più dispositivi di comando dell’avviamento può
comportare un rischio reciproco per gli operatori addetti, si deve garantire
che uno solo di questi sia attivato mediante ad esempio dispositivi di
convalida, selettori, ecc. Gli organi di comando dei dispositivi di avviamento
devono essere individuabili anche attraverso apposita colorazione (codifica
cromatica).
Sempre
riguardo all’avviamento e con particolare riferimento all’avviamento di
macchine complesse, si segnala che dal posto di comando l’operatore deve essere
in grado di accertare l’assenza di persone dalle zone di rischio. Se ciò non
fosse possibile ogni messa in marcia deve essere preceduta da un segnale di
avvertimento sonoro e/o visivo e le persone esposte devono avere il tempo di
sottrarsi al pericolo o avere a portata di mano i mezzi, come un arresto di
emergenza, per impedire rapidamente l’avviamento della macchina.
Il
documento si sofferma anche sull’azione mantenuta.
Infatti
i dispositivi di comando ad azione mantenuta avviano e mantengono una
determinata funzione della macchina solo se azionati continuativamente
dall’operatore. Al loro rilascio la funzione comandata si arresta
automaticamente.
In
particolare per le macchine (per esempio macchine mobili o portatili) sulle
quali non è possibile ottenere una completa protezione delle parti pericolose,
il comando manuale di azionamento deve avvenire mediante dispositivi ad azione
mantenuta. I dispositivi di comando ad azione mantenuta trovano applicazione
anche sulle macchine ove per operazioni di messa a punto, manutenzione, cambio
lavorazione, ecc, è necessario rimuovere o disabilitare un riparo o un
dispositivo di sicurezza. In tal caso la sicurezza dell’operatore deve essere
ottenuta adottando oltre al comando ad azione mantenuta, altre misure di
sicurezza.
Nel
documento di ImpresaSicura sono riportate anche le indicazioni su cosa sia
necessario garantire quando il comando ad azione mantenuta è attivato in
seguito alla rimozione o disattivazione di funzioni di sicurezza o misure di
protezione.
Veniamo
al comando di arresto, il comando attraverso il quale si ottiene il fermo di
una macchina o di una parte di essa.
La
pubblicazione segnala che ogni macchina deve essere munita di almeno un
dispositivo di comando che consenta l’arresto generale in condizioni di
sicurezza. E in presenza di più postazioni di lavoro ognuna di queste deve
essere munita di un dispositivo di comando che, in relazione ai rischi presenti
sulla macchina, consenta di arrestare l’intera macchina o una parte di essa,
mantenendo le condizioni di sicurezza. Inoltre i dispositivi di arresto devono
essere collocati accanto a ogni dispositivo di avviamento. L’ordine di arresto
della macchina deve essere prioritario rispetto agli ordini di avviamento.
Dopo
aver elencato tre categorie per le funzioni di arresto e l’arresto per le
postazioni di comando mobili senza fili, il documento si sofferma sull’arresto
di emergenza.
L’arresto
di emergenza è un dispositivo di sicurezza che assicura, una volta azionato, il
fermo nel minor tempo possibile degli elementi pericolosi di una macchina. La
funzione di arresto d’emergenza è destinata a evitare o ridurre, al loro
sorgere, i pericoli per le persone (normale funzionamento, disfunzioni, guasti,
errori umani, ecc.), i danni alle macchine o alle lavorazioni in corso.
Ogni
macchina deve essere munita di uno o più dispositivi di arresto di emergenza. E
ogni dispositivo deve essere attivabile mediante una singola azione umana e
deve avere le seguenti caratteristiche:
-
il
dispositivo di arresto d’emergenza deve essere chiaramente individuabile, ben
visibile e rapidamente accessibile;
-
una
volta azionato, l’arresto di emergenza deve restare inserito;
-
deve
essere possibile disinserirlo solo mediante una manovra adeguata (riarmo);
-
il
riarmo dell’arresto di emergenza non deve avviare nuovamente la macchina, ma
solo consentirne il riavvio mediante l’apposito comando;
-
l’azionamento
del comando provoca l’arresto del processo pericoloso nel tempo più breve
possibile, senza creare rischi ulteriori.
Riguardo
al suo utilizzo si sottolinea poi che il dispositivo di arresto d’emergenza non
può essere utilizzato in alternativa a una protezione (riparo o dispositivo di
sicurezza), ma può essere utilizzato solo come misura supplementare. Quando un
dispositivo di comando d’arresto d’emergenza può essere facilmente disconnesso
(ad esempio pulsantiera portatile collegata mediante presa a spina) o quando
una parte di macchina può essere isolata dalle restanti, occorre prendere
provvedimenti per evitare la possibilità di confondere i dispositivi di comando
d’arresto d’emergenza attivi da quelli inattivi.
Si
ricorda che il comando di arresto d’emergenza deve essere mantenuto efficiente
e perfettamente funzionante tramite apposita e programmata manutenzione. E la
verifica del corretto funzionamento deve essere effettuata all’inizio di ogni
turno di lavoro e sempre dopo interventi di manutenzione, regolazione, pulizia,
ecc., che coinvolgono la macchina, prima di riprendere il normale ciclo di
produzione.
Riguardo
alla funzione di arresto d’emergenza riprendiamo brevemente le caratteristiche
generali del dispositivo:
-
il
dispositivo di arresto d’emergenza deve essere in grado di sopportare forti
sollecitazioni causate dal suo azionamento in caso di emergenza;
-
deve
essere disponibile e operante in qualsiasi momento indipendentemente dal modo
operativo (ciclo manuale, ciclo automatico, comando diretto, ecc);
-
deve
avere la priorità sugli altri comandi;
-
non
deve generare pericoli aggiuntivi;
-
può
eventualmente avviare, o permettere di avviare, alcuni movimenti di
salvaguardia;
-
l’inversione
o la limitazione del moto, la deviazione, la schermatura, la frenatura, il sezionamento,
ecc. possono far parte della funzione di arresto d’emergenza (movimenti di salvaguardia);
-
non
deve compromettere l’efficacia dei dispositivi di sicurezza o di dispositivi
con funzioni condizionanti la sicurezza (dispositivi di frenatura, dispositivi
magnetici di trattenuta, ecc.);
-
il
dispositivo di comando e il relativo attuatore devono operare secondo il
principio dell’azione meccanica positiva;
-
dopo
il suo azionamento, il dispositivo di arresto d’emergenza deve operare in modo
tale che il pericolo sia evitato o ridotto all’origine automaticamente nel
miglior modo possibile (scelta del grado di decelerazione, scelta della
categoria di arresto ecc.);
-
l’azione
sull’attuatore che provoca l’intervento del comando di arresto d’emergenza deve
determinare anche il bloccaggio dell’attuatore stesso in modo che, quando
termina l’azione sull’attuatore, il comando di arresto d’emergenza rimanga
trattenuto finché non sia intenzionalmente ripristinato (sbloccaggio
dell’attuatore);
-
non
deve essere possibile avviare il moto pericoloso fino a che tutti gli attuatori
di comando azionati non sono stati ripristinati manualmente, singolarmente ed
intenzionalmente.
Ricordando
che il documento si sofferma anche sul posizionamento, forma e colore degli
attuatori (pulsanti, pedali, barre, funi, ...) e sulle caratteristiche di
funzionamento dei dispositivi di arresto d’emergenza, concludiamo questa
presentazione dei dispositivi di comando soffermandoci sul selettore modale di
funzionamento.
Infatti
ogni macchina può avere uno o più modi di funzionamento (manuale, automatico,
azionamento con pedale, azionamento con comando a due mani, ecc.) determinati
dalle caratteristiche della macchina stessa o semplicemente dalle sue
applicazioni. Quando la selezione del modo di funzionamento modifica le
condizioni di sicurezza della macchina, tale selezione deve avvenire mediante
un selettore modale.
In
particolare il selettore modale può essere azionato mediante una chiave oppure
tramite un codice d’accesso. Tuttavia si ricorda che la chiave o il codice di
accesso per l’attivazione del selettore modale devono essere disponibili solo
per il personale addestrato e autorizzato a modificare i modi di funzionamento
della macchina. E durante il normale uso produttivo le chiavi non devono
restare inserite nel selettore, bensì conservate dai preposti individuati.
L’accesso
via internet al sito “Impresa Sicura” è gratuito e avviene tramite una
registrazione all’indirizzo:
L’OBBLIGO DI VIGILANZA DEL DATORE DI LAVORO O A MEZZO
DEL PREPOSTO
Da:
PuntoSicuro
14
marzo 2016
di
Gerardo Porreca
Secondo
una recente Sentenza della Corte di Cassazione, al di là di una eventuale e
imprevedibile negligenza o imprudenza dei lavoratori nello svolgimento della
loro mansione, il datore di lavoro deve controllare personalmente o a mezzo dei
preposti che le lavorazioni avvengano in sicurezza.
Una
Sentenza questa nella quale la Suprema Corte richiama gli obblighi di vigilanza
e di controllo da parte del datore di lavoro e del preposto sul comportamento
che il lavoratore tiene nello svolgimento della propria attività nonché
l’obbligo da parte dello stesso datore di lavoro di disporre e pretendere che i
lavoratori rispettino le disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro.
Nella
stessa Sentenza viene ribadito, altresì, il principio ormai consolidato della
giurisprudenza in materia di salute e sicurezza sul lavoro in base al quale il
sistema prevenzionistico mira a tutelare il lavoratore anche in ordine a
incidenti che possono derivare da una sua negligenza, imprudenza e imperizia
per cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è
esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore stesso
sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle
mansioni affidategli e quindi al di fuori di ogni prevedibilità o quando il suo
comportamento, pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia
consistito in qualcosa di radicalmente e ontologicamente lontano dalle ipotizzabili
e quindi prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del suo
lavoro.
La
Corte d’Appello ha confermato la Sentenza con la quale il Tribunale ha
condannato l’amministratore unico e responsabile tecnico di una ditta esercente
l’attività di installazione, ampliamento, trasformazione e manutenzione di
impianti di produzione, trasporto, distribuzione ed utilizzazione dell’energia
elettrica, alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’articolo
590, commi 1 e 3 del Codice Penale per aver, in qualità di datore di lavoro,
cagionato a un lavoratore dipendente della ditta stessa lesioni personali gravi
consistenti nell’ematoma epidurale traumatico, dalle quali è derivata una
malattia della durata di sessantaquattro giorni, per colpa consistita in
negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza delle norme per la prevenzione
degli infortuni sul lavoro. In particolare per avere omesso, in relazione
all’attività di stesura dei cavi elettrici all’interno di una canalina
metallica eseguita presso un cantiere e in violazione dell’articolo 35, comma
4, del D.Lgs. 626/94 e dell’articolo 52, comma 7, del D.P.R. 164/56, di
prendere le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro fossero
utilizzate correttamente.
La
colpa addebitatagli è consistita, nello specifico, nel non avere disposto e
preteso che nessun operatore stazionasse sul piano in quota del trabattello, di
fatto impiegato per portarsi in quota durante le operazioni di stesura di cavi
elettrici suddette, durante gli spostamenti di tale attrezzatura da una
postazione a un’altra, stante il rischio di ribaltamento connesso a tale operazione.
Il
giorno dell’infortunio, in particolare, era successo che mentre il lavoratore
infortunato era rimasto posizionato sul piano in quota del ponteggio su ruote
un suo collega aveva spostata l’attrezzatura stessa verso una nuova posizione
di lavoro, spingendola manualmente, allorquando improvvisamente, a causa di uno
spacco nel pavimento, il trabattello si è ribaltato determinando la caduta a
terra del lavoratore su di esso posizionato che ha riportate così le sopradescritte
conseguenze lesive.
Avverso
la predetta decisione della Corte di Appello l’imputato ha ricorso per
Cassazione personalmente deducendo una inosservanza e una erronea applicazione
della legge penale e vizio di motivazione. Il ricorrente ha messo in evidenza
da una parte che il lavoratore era stato preventivamente e perfettamente
formato e istruito e dall’altra che il suo comportamento imprudente sarebbe
stato tale da interrompere il nesso di causalità.
Il
ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione. Con riferimento
alla motivazione legata alla formazione del lavoratore la Corte suprema ha
fatto rilevare che l’omissione formativa non era oggetto di contestazione,
essendo stato invece addebitato al datore di lavoro di aver autorizzato
l’esecuzione di operazioni lavorative in altezza, senza premurarsi di controllare
personalmente o a mezzo del preposto che le stesse avvenissero in sicurezza.
Quanto
al comportamento imprudente del lavoratore che, secondo l’imputato, avrebbe
dovuto scendere dal trabattello e spostarlo per poi risalirvi in tutta
sicurezza, la Sezione IV ha messo in evidenza che la Corte Territoriale aveva
ritenuto che l’imputato, in quanto titolare dell’obbligo di protezione
dell’incolumità e della vita dei propri dipendenti, avrebbe dovuto comunque
inibire quel comportamento e ha ritenuto che la condotta del lavoratore non
potesse essere considerata estranea alle mansioni alle quali era stato adibito.
La
Corte Suprema ha messo in evidenza quindi che la Sentenza impugnata ha fatto
buon governo del principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di
Legittimità in base al quale “il sistema prevenzionistico mira a tutelare il
lavoratore anche in ordine a incidenti che possano derivare da sua negligenza,
imprudenza e imperizia, per cui il datore di lavoro, destinatario delle norme
antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento
imprudente del lavoratore sia stato posto in essere da quest’ultimo del tutto
autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli (e, pertanto,
al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro) o rientri nelle
mansioni che gli sono proprie, ma sia consistito in qualcosa di radicalmente,
ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti
scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro”.
La
Sezione IV ha rimarcato, altresì, come non fosse emersa alcuna estraneità del
comportamento del lavoratore rispetto alle mansioni che di fatto gli erano
state affidate. Di qui il rigetto del ricorso e la condanna dell’imputato al
pagamento delle spese processuali.
La
Sentenza n. 47742 del 2 dicembre 2015 della Corte di Cassazione Penale è
consultabile all’indirizzo:
COSA RISCHIANO LE
AZIENDE SE LA FORMAZIONE EROGATA NON E’ IDONEA?
Da:
PuntoSicuro
15
marzo 2016
di
Tiziano Menduto
Nelle
aule di tribunale si valuta la presenza, la qualità e l’efficacia della
formazione alla sicurezza erogata? Cosa rischiano le aziende che si affidano a
percorsi formativi inidonei o non conformi alla legge? Ne parliamo con
l’avvocato Rolando Dubini.
Continua
l’inchiesta che PuntoSicuro sta conducendo da qualche mese sulla formazione
alla sicurezza in Italia approfondendo con diversi articoli, interviste e
contributi, criticità e carenze. Una formazione che è piena di chiaroscuri, di
buoni strumenti formativi, ma anche di percorsi inefficaci e, a volte, non
conformi alla legge.
Una
situazione in cui la Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione
(CIIP), come ha sottolineato in un documento presentato a dicembre, rileva
“ampie zone di elusione e/o evasione degli obblighi normativi relativi alla
formazione con il frequente ricorso a soluzioni di mera apparenza, il rilascio
di attestati formativi di comodo e/o al seguito di procedure meramente
burocratiche e prive di contenuti reali, con docenze affidate a formatori non
qualificati e la vendita di corsi in formazione a distanza privi dei requisiti
di legge, spesso anche di contenuti pertinenti”.
A
tale riguardo abbiamo intervistato uno degli avvocati che in questi anni si
sono più occupati di diritto penale del lavoro e dei temi relativi alla
responsabilità amministrativa (D.Lgs. 231/01), Rolando Dubini. Un avvocato che
i nostri lettori conoscono molto bene non solo per le sue pubblicazioni, ma
anche per i suoi numerosi articoli su PuntoSicuro.
PUNTO
SICURO
Nei
processi conseguenti ad eventi infortunistici nei luoghi di lavoro si affronta
in aula il tema della formazione? Ad esempio ci si chiede sempre se un
comportamento insicuro da parte di un lavoratore non dipenda in realtà da una
carenza della formazione?
ROLANDO
DUBINI
Si,
è una domanda fondamentale che viene posta in sede di indagine preliminare
dagli ufficiali di polizia giudiziaria della ASL competente; e che nel dibattimento
penale è oggetto di ampia trattazione da parte dell’accusa quando carente, da
parte della difesa quando adeguata e sufficiente ai sensi dell’articolo 37,
comma 1 del D.Lgs. 81/08.
Quel
che pesa davvero è la formazione specifica correlata alla mansione e
soprattutto alla lavorazione oggetto dell’infortunio.
In
particolare gli elementi rilevanti sono la qualificazione professionale e
l’esperienza lavorativa dell’infortunato, la chiarezza e leggibilità delle
procedure (a questo proposito consiglio di munirle di fotografie che indicano
le modalità corrette e le modalità scorrette vietate), il fatto che siano
oggetto di formazione specifica (con verifica dell’apprendimento) e che venga
fatta vigilanza sul loro rispetto, e vengano adottate misure disciplinari nei
confronti di chi contravviene alle norme aziendali di sicurezza.
Va
inoltre documentata la presenza dell’interessato ai corsi di formazione.
Attenzione: se manca la firma sul registro la formazione non esiste, ed è
meglio adottare modalità di identificazione del partecipante. Ad esempio
attraverso l’acquisizione di copia del documento d’identità.
P.S.
Possiamo
dunque dire che nelle aule di tribunale si valuta non solo la presenza/assenza
di un percorso formativo, ma anche la qualità o l’efficacia della formazione
erogata?
R.D.
La
qualità ed efficacia della formazione sono decisive, la difesa cerca di
dimostrare che la formazione era idonea a evitare l’infortunio, ma per far ciò
è necessario che l’azienda abbia effettivamente provveduto in tal senso.
L’ideale
è quando lo stesso infortunato e/o i suoi colleghi testimoni dichiarino di aver
ricevuto la formazione e di conoscere le modalità corrette di lavorazione, che
indicano nella loro deposizione.
P.S.
Quali
sono a suo parere le Sentenze più esemplari in materia di formazione?
R.D.
Fondamentale
resta quella che afferma che la verifica dell’apprendimento è obbligatoria
anche per i lavoratori, e non solo per dirigenti e preposti: la Sentenza della
Cassazione Penale Sezione III, n. 4063 del 28 gennaio 2008, consultabile
all’indirizzo:
La
fattispecie riguardava un datore di lavoro rinviato a giudizio e condannato dal
Giudice del Tribunale di Brescia per i reati di cui all’articolo 4, comma 2,
del D.Lgs. 626/94 [ora articolo 28 del D.Lgs. 81/08] per avere omesso, quale
titolare di un laboratorio di confezioni, di effettuare una idonea valutazione
dei rischi reali e specifici presenti nell’ambiente di lavoro e legati alle
particolari situazioni lavorative, per aver omesso di adottare una
collaborazione fattiva con il medico competente e il Responsabile dei
Lavoratori per la Sicurezza per la redazione del documento di valutazione dei
rischi, per la mancanza di misure di prevenzione da adottare e di un programma
per realizzare le stesse, e, testualmente, per aver violato l’obbligo di cui
all’articolo 22, comma 1, dello stesso D.Lgs. 626/94 [ora articolo 37 del
D.Lgs. 81/08] per non avere progettato e attuato una adeguata attività
formativa per tutti i lavoratori, contenente gli obiettivi specifici, la
definizione di moduli didattici e gli strumenti per la verifica di apprendimento.
Richiamando
la propria giurisprudenza, la Suprema Corte ha costantemente affermato che “In
tema di prevenzione di infortuni, il datore di lavoro deve controllare che
siano osservate le disposizioni di legge e quelle (procedure e istruzioni
operative, oggetto di formazione adeguata e sufficiente), eventualmente in
aggiunta, impartite [al lavoratore]; ne consegue che, nell’esercizio
dell’attività lavorativa, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del
datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del
lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa
prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesione colposa aggravato
dalla violazione delle norme antinfortunistiche. È infatti il datore di lavoro
che, quale responsabile della sicurezza del lavoro, deve operare un controllo
continuo e pressante per imporre che i lavoratori rispettino la normativa e
sfuggano alla tentazione, sempre presente, di sottrarvisi anche instaurando
prassi di lavoro non corrette”.
Secondo
la Cassazione, “tali conclusioni si evincono non solo dallo stesso, richiamato
dal ricorrente, articolo 4 del D.Lgs. 626/94 [ora articolo 18 del D.Lgs.
81/08], che non pone a carico del datore di lavoro il solo obbligo di allestire
le misure di sicurezza, ma anche una serie di controlli diretti o per
interposta persona, atti a garantirne l’applicazione, ma soprattutto dalla
norma generale di cui all’articolo 2087 Codice Civile, la quale dispone che
l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che,
secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie
a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”
[Corte di Cassazione Sezione IV, Sentenza n. 39888 del 23 ottobre 2008,]. Si
tratta dell’obbligo della massima sicurezza tecnica, organizzativa e
procedurale concretamente attuabile.
In
base alla mia esperienza, le aziende che hanno adottato sistemi certificati di
gestione della sicurezza sul lavoro (ad esempio le British Standard 18001/2007)
sono spesso quelle meglio attrezzate a erogare, anche attraverso enti esterni,
e ove consentito con modalità on-line efficaci, formazione adeguata e
sufficiente e a controllare affinché detta educazione alla sicurezza non resti
inapplicata.
P.S.
E
più in generale qual è oggi l’orientamento giurisprudenziale riguardo al valore
causale della formazione in un evento incidentale?
R.D.
Ad
esempio la Sentenza del 2008 che ho in precedenza richiamato chiarisce che
l’errata e o insufficiente e incompleta valutazione dei rischi produce una
errata percezione del rischio, e in caso di formazione trasferisce informazioni
errate e non educa adeguatamente alla sicurezza l’operatore.
E
in ogni caso si ribadisce che occorre la verifica dell’apprendimento, la cui
miglior dimostrazione è data in dibattimento quando i testimoni, e/o
l’interessato, come abbiamo già detto, dichiarano di conoscere le modalità
corrette di lavoro, oppure hanno sottoscritto per accettazione l’istruzione
operativa pertinente.
P.S.
Veniamo
ad alcuni aspetti pratici. Quali sono gli elementi che la polizia giudiziaria
valuta per comprendere la qualità della formazione erogata in azienda? Sono
valutati solo gli aspetti documentali?
R.D.
In
realtà viene valutato tutto. Ad esempio si valuta:
-
la
qualificazione professionale dell’infortunato;
-
l’esperienza
lavorativa;
-
l’avvenuta
formazione dell’infortunato, e dei colleghi che svolgono la stessa mansione;
-
la
qualità della formazione, il contenuto;
-
i
registri di presenza;
-
la
verifica dell’apprendimento e in particolare i controlli post formazione
sull’applicazione delle regole prevenzionistiche trasmesse.
Chiaramente
la documentazione deve essere a posto, e di qualità, per consentire prima la prevenzione
e poi la difesa.
P.S.
Concludiamo
questa breve intervista indicando quali sono oggi, a suo parere, le principali
deviazioni dell’offerta formativa in Italia.
R.D.
Esistono
significative zone oscure, venditori di certificati, venditori di formazione di
bassa qualità, proposte di formazione on-line anche in casi non consentiti
dalla legge, fino a vere e proprie truffe formative.
Il
datore di lavoro dovrebbe richiedere una dichiarazione scritta dall’ente
formatore dove questo dichiari la conformità alle norme vigenti della
formazione erogata, e l’assunzione di responsabilità in caso di difformità.
Ed
è bene controllare anche le referenze...
P.S.
E
quali potrebbero essere delle soluzioni per evitare queste deviazioni?
R.D.
Ad
esempio una maggior chiarezza degli Accordi Stato-Regioni in materia, con
definizione dei modelli di modulistica consentita dalla legge, e l’eliminazione
di ogni forma di ambiguità e incertezza in materia: una cosa fattibile... Il
non volerla realizzare, come accaduto fino ad oggi, dimostra il disinteresse di
chi governa per questa delicata materia che attiene l’integrità psicofisica di
tutti coloro che frequentano i luoghi di lavoro.
Includerei,
ora come ora, anche l’obbligo di inviare alla ASL competente copia dell’offerta
formativa elaborata dagli enti, per conoscenza. Cosa che forse scoraggerebbe le
situazioni più truffaldine.
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