NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
LE “FREQUENTLY
ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.10
Nella
mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro,
spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a
svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di
ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella
mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di
Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi pervengono
non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a
domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso
diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked
Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia
newsletter.
Ovviamente,
per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i
lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto
il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.
************
Buongiorno Marco,
sono un RLS e devo porti un quesito.
A un lavoratore della mia azienda che
utilizza avvitatori e smerigliatrici il medico competente, dopo la visita
medica, ha prescritto “non esporre a vibrazioni mano braccio con valore A(8) maggiore di 2,5 m/s2”.
Che cosa significa e come fa il lavoratore in pratica a rispettare la
prescrizione?
Ciao,
il
valore A(8) è il valore, mediato sulle 8 ore di lavoro giornaliero, delle
vibrazioni trasmesse da attrezzature di lavoro al sistema mano braccio.
E’
in pratica la “dose” di vibrazioni per le mani e le braccia assorbite dal
lavoratore nel corso di una giornata standard.
Trattandosi
di accelerazioni tale valore è espresso in m/s2.
Ai
sensi dell’articolo 201 del D.Lgs.81/08 per tale valore sono definiti i
seguenti limiti:
-
valore
di azione (sopra il quale il datore di lavoro deve programmare e attuare misure
di prevenzione e protezione) = 2,5 m/s2;
-
valore
limite di esposizione (che non può mai essere superato) = 5,0 m/s2.
La
prescrizione del medico, derivante probabilmente da una patologia all’apparato
muscolo scheletrico degli arti superiori del lavoratore, significa che il
lavoratore non può utilizzare attrezzature fonti di vibrazioni la cui media
giornaliera sia superiore a 2,5 m/s2 (cioè il valore di azione).
In
pratica il lavoratore non può utilizzare attrezzature fonti di vibrazioni, la
cui media giornaliera superi quel limite.
E’
compito del datore di lavoro, sentito il RSPP, specificare quali siano tali
attrezzature, a seguito della valutazione del rischio da vibrazioni da eseguire
ai sensi dell’articolo 202 del D.Lgs.81/08.
A
disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco
************
Ciao,
ho letto alcuni dei tuoi articoli su internet e vorrei
chiederti delle informazioni in merito al mio caso.
Lunedì rientrerò al lavoro dopo 5 mesi di malattia.
Vengo avvisato dall’azienda che dopo 60 giorni di
malattia è necessario fare la visita con il medico del lavoro e di portare la
documentazione necessaria.
Dopo aver letto i tuoi articoli mi accorgo che prima
di rientrare al lavoro devo effettuare visita dal medico, cosa di cui non vengo
informata.
L’orario di lavoro va dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle
17.30. la visita è alle 17.15.
Richiedo informazioni e mi dicono che infatti non mi
devo presentare lunedì al lavoro, ma martedì dopo la visita.
Tralasciando questa mancanza di informazione (abito
tra l’altro a 25 km
di distanza dal lavoro e avrei fatto 100 km inutilmente anziché 50), ho
richiesto verbalmente 5 settimane fa il part time per motivi di salute e 14
giorni fa in forma scritta, richiesta alla quale non hanno ancora dato
risposta. Questo faciliterebbe e avrebbe facilitato di molto il mio rientro.
Ho infatti una malattia rara con sintomi ciclici e non
prevedibili. Sto seguendo ancora delle cure che includono, oltre a medicamenti, una
dieta abbastanza ristretta, attività fisica specifica, riposo e meno
stress possibile tutto questo per accelerare il processo di guarigione.
La cura dovrà procedere per ancora 6/8 mesi e poi si
vedrà.
La mia domanda è come devo comportarmi per ottenere il
part time che credo sia un modo per non dover affrontare un carico di lavoro
eccessivo e rovinare tutto il lavoro fin qui fatto e per andare incontro all’azienda
che sembra rimandare questa decisione sul part time?
Come devo comportarmi con il medico del lavoro?
Scusa il lungo testo...e in ogni caso ti ringrazio
dell’attenzione.
Cordiali saluti
Ciao,
innanzitutto
premetto che le visite mediche che la tua azienda dispone nei tuoi confronti
devono essere del tutto gratuite e senza nessun onere economico per te, secondo
quanto disposto dall’articolo articolo 15, comma 2 del Decreto Legislativo
n.81 del 2008 (Testo Unico sulla sicurezza):
“Le misure relative alla sicurezza, all’igiene
ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri
finanziari per i lavoratori”.
Per
quanto riguarda la possibilità che il medico competente disponga la necessità
che tu svolga il lavoro part time, è una facoltà che il Decreto lascia appunto
al medico competente, che a seguito di visita medica (nel tuo caso dovuta per
assenza dal lavoro superiore ai 60 giorni) deve definire la tua idoneità o meno
alla mansione specifica, secondo l’articolo 41, comma 6 del Decreto:
“Il medico
competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche di cui al comma 2,
esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:
a)
idoneità;
b)
idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
c)
inidoneità temporanea;
d)
inidoneità permanente”.
Inoltre secondo il comma 6-bis del medesimo articolo:
“Nei casi di cui alle lettere a), b), c) e d)
del comma 6 il medico competente esprime il proprio giudizio per iscritto dando
copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro”.
A seguito del giudizio del medico competente l’azienda
è tenuta, se possibile, ad adottare le prescrizioni indicate dal medico nell’eventuale
giudizio di inidoneità parziale o totale, secondo l’articolo 42 del Decreto:
“Il datore di lavoro, anche in considerazione
di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi
di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente
e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il
lavoratore, ove possibile, a
mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il
trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.
Pertanto se il medico competente ritiene che a
seguito della tua storia clinica, tu non sia più idonea a un turno di 8 ore,
può segnalare la tua inidoneità parziale alla mansione svolta con la
prescrizione del lavoro part time.
Attenta però che l’azienda non deve
necessariamente passarti al part time a seguito del giudizio di non idoneità
del medico, in quanto il citato articolo 42 contiene l’inciso “ove possibile”.
Pertanto, almeno in teoria, se l’azienda non ha
la possibilità di trasferirti al lavoro part time, per ottemperare a quanto
definito dal medico (che è un parere del tutto vincolante) potrebbe anche
licenziarti per giusta causa oggettiva, non essendo tu più idonea al lavoro
sulle 8 ore.
Pertanto ti consiglio, prima di parlare con il
medico, di valutare se la tua azienda ha la possibilità di passarti al part
time. Dopo di che potrai parlare con il medico, manifestando la tua difficoltà
al lavoro full time, presentando adeguata documentazione della tua storia
clinica, e chiedendo che ti prescriva il lavoro part time. Anche in questo caso
però non è detto che il medico acconsenta, se secondo suo giudizio
professionale lui ritiene che tu possa continuare a svolgere lavoro full time.
Tieni infine conto, che puoi fare ricorso alla
ASL (tu, ma anche l’azienda) contro il giudizio del medico, ai sensi dell’articolo
41, comma 9 del Decreto:
“Avverso i giudizi del medico competente, ivi compresi quelli formulati in fase preassuntiva, è ammesso ricorso, entro
trenta giorni dalla data di comunicazione del giudizio medesimo, all’organo di
vigilanza territorialmente competente che dispone, dopo eventuali ulteriori
accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso”.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco
************
Ciao Marco,
lavoro in
una ditta di consegna documentazione, sia in moto che in auto.
Secondo te
con le condizioni atmosferiche attuali come ci dobbiamo comportare?
Dobbiamo
attendere le disposizioni del Comune su un eventuale blocco del traffico oppure
è la mia azienda che deve intervenire in qualche modo?
Grazie.
Ciao,
se ti
riferisci allo smog, tale tipo di esposizione a rischio per la salute dovrebbe
essere valutata nel documento di valutazione dei rischi (valutazione del
rischio chimico) e di conseguenza dovrebbero essere definite delle misure di
protezione individuale (mascherine adeguate), visto che le misure di
prevenzione e di protezione collettiva sono tecnicamente impossibili.
La tua
azienda fa qualcosa in tal senso? Fai controllare dal tuo RLS cosa è scritto
nel DVR e quali misure per la salute adotta la tua azienda.
Oltre alle
mascherine andrebbe anche eseguita la sorveglianza sanitaria almeno a livello
preventivo per valutare che chi lavora all’aperto sia idoneo (ad esempio
assenza di asma o malattie broncopolmonari) e, per me almeno, anche a livello periodico
per valutare che non insorgano malattie all’apparato respiratorio.
Quindi fai
chiedere al tuo RLS anche il protocollo di sorveglianza sanitaria.
Marco
************
Ciao Marco,
sono RLS di
un’azienda metalmeccanica.
Ieri c è
stato un incendio nella cabina prova motori. Io non c’ero.
Sono andato
dal mio capo a sentire cos’era successo e se gli RLS erano stati avvisati.
No, lui ha
chiamato i capi e hanno sistemato la situazione.
Ti volevo
chiedere se per legge i preposti o i dirigenti devono contattare gli RLS in
caso di incidenti anche senza feriti.
Ciao.
Effettivamente
il D.Lgs.81/08 non prevede in maniera esplicita una tale eventualità (consultazione
del RLS relativamente a un incidente).
Lo spirito
del Decreto è però quello che i RLS siano puntualmente informati su cosa
succede in azienda relativamente a salute e sicurezza e quindi l’obbligo di
dare ai RLS tale tipo di informazione è sancito in maniera implicita.
Ciò si
evince dalle misure generali di tutela come descritte all’articolo 15 del
Decreto (che però non è sanzionabile) che prevede “la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per
la sicurezza”.
Nel caso
specifico vale comunque pienamente quanto disposto dall’articolo 50, comma 1
lettera e) secondo il quale il RLS “riceve
le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei
rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle
sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla
organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie
professionali”.
Tale
attribuzione dei RLS costituisce in questo caso obbligo sanzionabile per il
datore di lavoro e i dirigenti secondo quanto stabilito dall’articolo 18, comma
1, lettera s), per il quale essi devono “consultare
il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo
50”.
E’ chiaro
che in questo caso le “misure di
prevenzione relative” non sono state evidentemente adeguate e di questa
informazione i RLS avrebbero dovuto, secondo quanto sopra, essere informati,
come avrebbero dovuto essere informati su quali ulteriori misure di prevenzione
e protezione l’azienda intende adottare per evitare un simile incidente nel
futuro.
Io scriverei
una lettera all’azienda in cui si stigmatizza la mancata informazione dei RLS
(inviandola anche per conoscenza alla ASL) e in cui si chiede che in caso di
futuri incidenti, infortuni, quasi infortuni, i RLS vengano adeguatamente e
tempestivamente informati.
A seguire la
bozza della lettera.
Marco
Al
datore di lavoro di [nome azienda]
per
conoscenza
al
Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione di [nome azienda]
al
Dipartimento Salute e Sicurezza ASL
La
presente per segnalare il grave comportamento tenuto dall’azienda in occasione
dell’incendio che si è sviluppato il [data] nella cabina prove motori, che solo
per fortuna non ha causato danni alle persone, ma solo alle cose [scriverlo
solo se è vero, facendo se possibile una descrizione dettagliata dell’incidente].
Infatti
di tale grave incidente i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (ex articolo
47 del D.Lgs.81/08, “Decreto”) sono stati tenuti all’oscuro da parte dei
responsabili dell’azienda, venendone a conoscenza solo in via informale da
parte dei lavoratori [specificare come].
Riteniamo
che la mancata segnalazione ai RLS di quanto accaduto sia assolutamente
contrario alla “ratio” del Decreto, relativamente al rapporto tra azienda e
RLS.
Tale
“ratio” prevede che
i RLS siano puntualmente informati su cosa succede in azienda relativamente a
salute e sicurezza e quindi l’obbligo di dare ai RLS tale tipo di informazione
è sancito dal Decreto in maniera esplicita e implicita.
Ciò si
evince dalle misure generali di tutela come descritte all’articolo 15, comma 1,
lettera s) del Decreto che prevedono “la
partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la
sicurezza”.
Nel caso
specifico vale poi quanto disposto dall’articolo 50, comma 1 lettera e) secondo
il quale il RLS “riceve le informazioni e
la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di
prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati
pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti
di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.
Tale
attribuzione dei RLS costituisce in questo caso obbligo sanzionabile per il
datore di lavoro e i dirigenti secondo quanto stabilito dall’articolo 18, comma
1, lettera s), per il quale essi devono “consultare
il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo
50”.
E’ chiaro
che in questo caso le “misure di
prevenzione relative” non sono state evidentemente adeguate e di questa
informazione i RLS avrebbero dovuto, secondo quanto sopra, essere informati,
come avrebbero dovuto essere informati su quali ulteriori misure di prevenzione
e protezione l’azienda intende adottare per evitare un simile incidente nel
futuro.
Nello
spirito sopra richiamato, i RLS richiedono con la presente all’azienda di
essere nel futuro prontamente informati su incidenti, infortuni, quasi
infortuni, “near miss” in modo da poter valutare se le misure di prevenzione e
protezione adottate dalla azienda stessa, anche relativamente alla gestione
delle emergenze, siano o meno adeguate ai rischi presenti sui luoghi di lavoro.
Rimaniamo in
attesa di riscontro alla presente.
I RLS
firme
************
NOTA
Nel
testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i
seguenti acronimi e termini:
ASL
= Azienda Sanitaria Locale
CCNL
= Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DPI
= Dispositivi di Protezione Individuali
DVR
= Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI
= Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori
in appalto
RSPP
= Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS
= Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08
o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e
integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)
L’OMICIDIO COLPOSO
DEL DIPENDENTE E’ A CARICO DEI DIRIGENTI E DELLA SOCIETA’
Da
Studio Cataldi
1
marzo 2016
di
Fulvio Graziotto
In
mancanza di adozione di modelli organizzativi, per l’infortunio mortale paga
anche la società.
E’
questo in sintesi quanto affermato dalla Cassazione, nella recente Sentenza n.
2544/2016.
Il
Tribunale condannava l’Amministratore Unico e il Direttore Tecnico di una Società
a Responsabilità Limitata, attiva nel settore edile, colpevoli del reato di
omicidio colposo di un addetto (il lavoratore era morto in conseguenza delle
lesioni riportate nel cantiere mentre era alla guida di un’autogru con il freno
di stazionamento non funzionante).
Il
Tribunale dichiarava altresì la società, in persona del Legale Rappresentante,
responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’articolo 5, lettere a) e
b) del D.Lgs. 231/01, concessa la riduzione della sanzione ex articolo 12,
comma 2, lettera a) dello stesso Decreto, comminando la sanzione amministrativa
pecuniaria di 80.000 euro.
Avverso
la suddetta sentenza proponevano impugnazione entrambi gli imputati, nonché la
società, chiedendo in via principale l’assoluzione degli imputati dalle
contestazioni a essi mosse.
La Corte di appello di
Milano confermava la sentenza impugnata.
Proponevano
quindi ricorso per Cassazione entrambi gli imputati persone fisiche, nonché la
società. La società sosteneva che la condotta del Legale Rappresentante non era
finalizzata o utile a un vantaggio dell’ente sociale, con la conseguente non
configurabilità della responsabilità in capo alla società pur in mancanza di
adozione dei modelli organizzativi previsti dal richiamato Decreto Legislativo.
Nell’esaminare
il ricorso, la Cassazione,
con la Sentenza
in commento, ricorda che il requisito dell’interesse dell’ente (sancito dall’articolo
5 del D.Lgs. 231/01) sussiste anche in conseguenza di scelte dettate dall’obiettivo
di risparmiare sui costi: con la mancata adozione della disciplina
antinfortunistica, l’autore del reato ha consapevolmente violato le
disposizioni sulla sicurezza per realizzare un interesse della società. Il
vantaggio conseguito dalla società, invece, è rappresentato dal contenimento
della spesa e una massimizzazione del profitto.
La Cassazione ha affermato che
nei reati colposi d’evento, “il finalismo della condotta prevista dall’articolo
5 del D.Lgs. 231/01 è compatibile con la non volontarietà dell’evento lesivo,
sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata
determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata
finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo”.
Sulla
base di quanto precisato dalla Corte di legittimità, la responsabilità della
società avrebbe potuto essere esclusa solo dando dimostrazione di aver adottato
i modelli organizzativi e la vigilanza sulla loro applicazione da parte di un
organismo autonomo.
Richiamiamo
le norme stabilite dal D.Lgs. 231/01.
Articolo
5 - Responsabilità dell’ente
“1.
L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a)
da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di
direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia
finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la
gestione e il controllo dello stesso;
b)
da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di
cui alla lettera a).
2.
L’ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito
nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”.
Articolo
12 - Casi di riduzione della sanzione pecuniaria
“1.
La sanzione pecuniaria è ridotta della metà e non può comunque essere superiore
a lire duecento milioni se:
a)
l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di
terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio
minimo;
b)
il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità;
2.
La sanzione è ridotta da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di
apertura del dibattimento di primo grado:
a)
l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze
dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in
tal senso;
b)
è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire
reati della specie di quello verificatosi.
3.
Nel caso in cui concorrono entrambe le condizioni previste dalle lettere del
precedente comma, la sanzione è ridotta dalla metà ai due terzi.
4. In ogni caso, la
sanzione pecuniaria non può essere inferiore a lire venti milioni”.
La Sentenza n. 2544 della
Corte di Cassazione Sezione Penale del 21 gennaio 2016 è consultabile
all’indirizzo:
RAPINA SUL POSTO DI
LAVORO: DEI DANNI AL LAVORATORE NE RISPONDE IL DATORE QUALORA MANCHINO ADEGUATI
SISTEMI DI SICUREZZA
Da
Studio Cataldi
1
marzo 2016
di
Paolo Accoti
Il
datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile “è tenuto ad
adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità
del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità
fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
In
altri termini, a carico del datore di lavoro, esiste un obbligo contrattuale
teso a tutelare la salute e la sicurezza dei propri dipendenti suoi luoghi di
lavoro, pertanto, qualora egli ometta di adottare tutte le cautele e le misure
necessarie a salvaguardare l’integrità, fisica e morale, del dipendente,
risponde dei danni da questi eventualmente subiti.
Sulla
scorta di ciò un datore di lavoro, a seguito di una rapina subita presso una
propria dipendenza, è stato condannato a risarcire il danno subito dal dipendente,
a seguito della “prolungata soggezione a minaccia a mano armata”, in assenza
delle necessarie misure atte a garantire la sicurezza sul luogo di lavoro.
A
cagione dei pesanti carichi di lavoro e delle ripetute rapine (quattro in circa
un anno) un dipendente evocava in giudizio il proprio datore di lavoro, al fine
di vedersi risarcito il danno alla salute, conseguenza di un infarto acuto del
miocardio, nonché quello morale, in virtù della tensione accumulata durante le
riferite rapine, nel corso delle quali aveva dovuto soggiacere alle minacce
portate dai rapinatori, armi in pugno.
La
domanda in primo grado veniva rigettata, tuttavia, a seguito dell’interposto
gravame da parte del lavoratore, la
Corte d’Appello di Firenze, condannava il datore di lavoro al
risarcimento del danno morale, subito dal lavoratore, in considerazione della
“prolungata soggezione a minaccia a mano armata, in assenza delle misure
protettive a carico datoriale ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile”,
una volta accertato che la ditta datrice, aveva “omesso di adottare le adeguate
protezioni poste a tutela del proprio dipendente”.
Veniva,
al contrario, respinta la domanda relativa al risarcimento de danno biologico,
in virtù del fatto che, la disposta consulenza tecnica, aveva escluso il nesso
di causalità tra le rapine subite e l’infarto del miocardico patito dal
lavoratore, a seguito degli episodi ipertensivi occorsigli.
La Corte di Cassazione
Sezione Lavoro, successivamente adita dal datore di lavoro, con la Sentenza n. 3306 del 19
febbraio 2016, respingeva il ricorso, confermando pertanto integralmente la
decisione assunta in secondo grado.
Il
ricorrente lamentava, tra l’altro, la violazione e falsa applicazione degli
articoli 2059 e 2087 del Codice Civile, nonché il difetto di motivazione, sulla
scorta del fatto che le misure di sicurezza concretamente predisposte,
risultavano assolutamente conformi agli standard di sicurezza e alla tipologia
di piccolo ufficio periferico, la cui ubicazione e il volume d’affari lo
rendevano non soggetto ad apprezzabili rischi.
Si
lagnava, inoltre, della mancanza di prova in ordine al supposto danno morale,
mancando il nesso causale tra il presunto inadempimento del datore di lavoro e
le lesioni all’integrità psichica asseritamente subite dal lavoratore.
La Corte di Cassazione, in
coerenza con i propri precedenti, ha ritenuto che il lavoratore che agisca in
giudizio per il risarcimento dei danni da infortunio sul lavoro, abbia l’onere
di provare il fatto generatore del danno e il nesso causale esistente tra
l’anzidetto danno e l’inadempimento del datore di lavoro, ma non anche
l’eventuale colpa datoriale.
E
invero, in simili fattispecie, la colpa del datore di lavoro si presume in
ragione del disposto di cui all’articolo 1218 del Codice Civile, per il quale
“il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al
risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato
determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
Pertanto,
per superare la presunzione di colpa, spetta al datore di lavoro dimostrare di
aver adottato tutte quelle misure e cautele atte a evitare il danno, in virtù
dell’attività in concreto espletata e ai rischi alla stessa connessi, potendo
risultare insufficiente il generico rispetto delle misure universali di
protezione individuale disposte per legge (in tal senso si vedano le Sentenze
della Corte di Cassazione n. 8855 del 11/04/13 e n. 16003 del 19/07/07).
E
invero, le tecniche di sicurezza, devono essere parametrate all’ambiente in cui
viene effettivamente esercitata l’attività di impresa, anche in ragione della
tipologia della stessa e alle possibili aggressioni conseguenti all’attività
criminosa cui potrebbe essere soggetta una determinata attività
imprenditoriale.
In
altri termini, nelle attività strettamente connesse all’utilizzo di denaro,
esercitate in zone dove i fenomeni criminali risultano particolarmente sentiti,
non risulta idoneo e sufficiente, per andare esenti da responsabilità, apprestare
sistemi di sicurezza generici, quand’anche conformi al dettato normativo.
Ricorda
a tal proposito, la Corte
di Cassazione, i propri precedenti specifici in materia di rapina sul luogo di
lavoro, per cui il disposto dell’articolo 2087 del Codice Civile deve essere
interpretato nel senso della necessità di fornire ai propri dipendenti:
“adeguati mezzi di tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori nei
confronti dell’attività criminosa di terzi, nei casi in cui la prevedibilità
del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia
di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di
somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato
arco temporale” (in tal senso si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione
n. 23793 del 20/11/15 e n. 7405 del 13/04/15).
Pertanto,
il datore di lavoro per non incorrere in responsabilità contrattuali, deve
provare di aver adottato tutte quelle misure protettive idonee, in considerazione
della effettiva situazione di pericolo, a salvaguardare l’incolumità del
personale dipendente, specie quando è stato già in passato vittima di simili
episodi criminosi.
Per
quanto concerne, infine, la paventata carenza di prova in ordine al danno subito,
questo risulta comprovato nonché allegato “dalla sofferenza emotiva,
indubbiamente intensa, conseguita dal dipendente dalle due rapine subite sul
posto di lavoro. Tale danno trova positivo riscontro anche nell’episodio
ipertensivo insorto il giorno successivo alla seconda rapina e per cui il
lavoratore fu ricoverato cinque giorni in ospedale ed è stato correttamente
liquidato in via equitativa, in relazione alle modalità della vicenda” (si veda
a tale proposito la Sentenza
della Corte di Cassazione n. 16041 del 26/06/13).
La Sentenza n. 3306 del 19
febbraio 2016 della Corte di Cassazione Sezione Lavoro è consultabile
all’indirizzo:
FATTORI DI RISCHIO:
CONFLITTI CASA-LAVORO, ORARI E RITMI LAVORATIVI
Da:
PuntoSicuro
22
febbraio 2016
di
Tiziano Menduto
Le
conseguenze psicofisiche di fattori di rischio come l’insicurezza lavorativa,
gli orari di lavoro troppo lunghi, il lavoro a turni, gli elevati ritmi lavorativi
e le difficoltà nella conciliazione casa-lavoro.
“Nonostante
lo stress lavoro-correlato sia considerato uno dei più rilevanti problemi per
la salute occupazionale dalle principali agenzie nazionali e internazionali di
igiene e sicurezza sul lavoro, solo una minima parte dei disturbi psichici
causati dal lavoro vengono denunciati e riconosciuti come malattie
professionali in Italia”.
A
sottolineare questa carenza nella denuncia e riconoscimento dei disturbi
psichici lavoro correlati e, più in generale, a presentare alcuni fattori di
rischio lavorativi sottovalutati, è un intervento di Angelo d’Errico (Servizio
Sovrazonale di Epidemiologia, ASL TO3) al seminario “Le patologie professionali
e miglioramento delle notizie sullo stato di salute dei lavoratori: l’occasione
dei Piani regionali di prevenzione 2015-2018” che si è tenuto il 18 settembre 2015 a Milano.
Nell’intervento
“Fattori di rischio occupazionali emergenti e salute”, Angelo d’Errico si
sofferma su vari fattori di rischio come l’insicurezza lavorativa, gli orari di
lavoro, gli elevati ritmi lavorativi e le difficoltà nella conciliazione
casa-lavoro riportando utili indicazioni sull’associazione con problemi e
patologie psicofisiche.
Ci
soffermiamo in particolare sulle problematiche connesse agli orari di lavoro,
intesi come:
-
long
working hours: definite come più di 48 ore a settimana;
-
night
shift work: con riferimento al lavoro a turni, con orario notturno.
Il
relatore ricorda che entrambi sono stati associati ad aumentata probabilità di:
-
problemi
di salute: malattie cardiovascolari e mentali, disturbi del sonno, diabete,
disturbi gastrointestinali e muscolo-scheletrici, infortuni, disabilità;
-
alterazioni
comportamentali: fumo, alcool, inattività fisica, dieta malsana.
Inoltre
per il lavoro a turni sono stati riportati eccessi di tumori della mammella e
della prostata (Classe 2A, IARC, 2007).
Tuttavia
molti di questi studi soffrono di una inadeguata definizione dell’esposizione.
Poiché queste caratteristiche del lavoro sono spesso correlate all’esposizione
a fattori di rischio di tipo fisico (lavoro fisico intenso) e psicosociale
(high demand, low control, high strain, effort-reward imbalance, social
support) è controverso se gli effetti osservati non siano dovuti al confondimento
da parte di altre esposizioni lavorative. Inoltre non è chiaro se le
alterazioni comportamentali indotte siano mediatori dell’effetto del lavoro a
orario prolungato o a turni sulla salute.
Uno
schema riportato nell’intervento ricorda che il “long working hours” si collega
a una ridotta disponibilità di tempo o ridotta capacità di utilizzare
effettivamente il tempo per dormire, riposarsi o svolgere attività familiari o
di svago e a una più lunga esposizione o aumentata vulnerabilità a: elevata
pressione lavorativa e fattori di rischio occupazionali.
E
tutto questo può avere impatto sul lavoratore (malattie, infortuni, qualità
della vita, ecc.), sulla famiglia (cura dei familiari, qualità delle relazioni,
reddito familiare, ecc.), sul datore di lavoro (produttività, qualità, costi di
malattie e infortuni, ecc.), sulla comunità (costi di malattie e infortuni,
ecc.).
Sono
poi riportati diversi dati sull’esposizione a lunghi orari di lavoro
(particolarmente evidente nel comparto agricolo, ma anche nel commercio e nei
trasporti) e ricordato che ci sono risultati controversi per la correlazione
con i problemi di salute mentale.
Riguardo
invece al lavoro a turni si fa riferimento a:
-
associazione
abbastanza consistente con la malattia ischemica coronarica sulla base degli studi
di incidenza, ma non di mortalità;
-
associazioni
consistenti con stress occupazionale (basso job control, alta effort-reward imbalance),
conflitti casa-lavoro e deficit di recupero;
-
associazioni
abbastanza consistenti con ridotta durata o qualità del sonno, fumo, body mass
index, peso corporeo, ma non per alcool e attività fisica;
-
associazioni
consistenti con diversi end-point intermedi o fattori di rischio biologici
(aterosclerosi, colesterolemia, alterazioni linfocitarie, alterazioni della
frequenza cardiaca e della sua variabilità, incrementi di cortisolo e
noradrenalina, diabete, sindrome metabolica).
Ricordiamo
che il relatore si sofferma ampiamente sulla eventuale correlazione tra “shift
work” e cancro della mammella e riporta anche alcune indicazioni relative ad
altre forme tumorali e a problemi di salute mentale.
Veniamo
invece al tema delle elevate richieste di lavoro (high demand):
-
dimensione
che cattura esposizione ad alti ritmi di lavoro e a carico di lavoro eccessivo
sia fisico che mentale (forte correlazione con livello di esposizione a fattori
ergonomici);
-
dimensione
frequentemente esaminata insieme a quella del job control o del job reward
nell’ambito dei modelli demand-control (Karasek, 1985) e effort-reward
imbalance (Siegrist, 1996);
-
difficile
quindi isolare in letteratura il suo effetto sulla salute, al netto di quello
delle co-esposizioni psicosociali dei due modelli;
-
riportate
associazioni soprattutto con: disturbi mentali (Stansfeld & Candy, 2006;
Bonde, 2008); malattie cardiovascolari (Eller et al., 2009); disturbi
muscolo-scheletrici (Da Costa & Vieira, 2010).
L’intervento
riporta poi altre indicazioni sull’associazione tra stress sul lavoro, disturbi
psicologici comuni e depressione.
Riguardo
infine ai conflitti casa-lavoro si ricorda che la dimensione del conflitto
casa-lavoro si riferisce a una condizione in cui gli ambiti del lavoro e della
famiglia interferiscono così tanto che uno esercita un effetto negativo
sull’altro.
E
secondo il NIOSH, “il conflitto casa-lavoro è uno dei 10 fattori stressogeni
lavorativi più importanti” (Kelloway , 1999).
Si
indica poi che la teoria prevalente su cui si basano gli effetti sulla salute
associati è la “role strain hypothesis”, che afferma che il conflitto
casa-lavoro è una forma di conflitto tra ruoli nel quale la pressione derivante
dal ruolo lavorativo e quello familiare sono per qualche aspetto mutualmente
incompatibili (Greenhaus e Beutell, 1985).
Si
segnala poi che numerosi studi hanno dimostrato un’associazione tra work-family
conflict e disturbi mentali (ansia, depressione, burnout).
Concludiamo
segnalando che alcuni studi europei, con riferimento al doppio carico di
lavoro, hanno mostrato che le donne che combinano lavoro retribuito e cura dei
figli riportano più sintomi fisici e psicologici di donne occupate senza figli
(Krantz, 2001, 2005; Vaananen, 2004).
Tuttavia,
la maggior parte degli studi longitudinali sul “doppio carico” non hanno
trovato effetti sulla salute generale o sulla mortalità delle donne con questi
ruoli multipli (Waldron, 1998).
Al
contrario, i pochi studi che hanno indagato l’effetto del doppio carico sulla
salute cardiovascolare hanno osservato un aumento del rischio tra le donne
occupate con figli (Haynes e Feinleib, 1980; Lee, 2003; Zimmerman e Hartley, 1982;
James, 1989; Brisson, 1999).
Il
documento “Fattori di rischio occupazionali emergenti e salute” a cura di
Angelo d’Errico è scaricabile all’indirizzo:
LA DIRETTIVA
MACCHINE E IL PRINCIPIO DI INTEGRAZIONE DELLA SICUREZZA
Da:
PuntoSicuro
24
febbraio 2016
Le
caratteristiche e i principi della Direttiva Macchine 2006/42/CE.
L’evoluzione
della normativa, il campo di applicazione, gli aspetti rilevanti, i requisiti
essenziali di sicurezza e gli obblighi del fabbricante di una macchina.
In
relazione ai molti incidenti sul lavoro che avvengono in Italia nell’uso di
attrezzature di lavoro, è utile che il nostro giornale torni in modo ricorrente
a parlare di sicurezza delle macchine e della normativa correlata, con
particolare riferimento alla Direttiva macchine 2006/42/CE.
Infatti
questi infortuni possono essere ridotti integrando la sicurezza nelle fasi di
progettazione e di costruzione ed effettuando una corretta installazione e
manutenzione.
In
questo senso il principio di integrazione della sicurezza prevede nell’ordine:
-
eliminazione
dei rischi in fase progettuale;
-
riduzione
dei rischi in fase progettuale;
-
adozione
di protezioni o dispositivi di sicurezza;
-
evidenziazione,
nelle istruzioni, dei rischi residui non eliminabili.
Ed
è basandosi su queste considerazioni che sono state emanate nel tempo una serie
di Direttive comunitarie relative alle macchine che interessarono la
produzione, la commercializzazione delle macchine e la responsabilità dei vari
soggetti coinvolti nelle attività lavorative ai fini della prevenzione
infortuni.
A
parlare in questi termini della normativa europea sulla sicurezza delle
macchine è uno dei documenti pubblicati dal Dipartimento Ingegneria Civile
Edile Ambientale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, a cura di
Fabrizio Leccisi in materia di “Organizzazione del cantiere”.
Il
documento “La
Direttiva Macchine (2006/42/CE)” ricorda che la Direttiva Macchine
rappresenta dal punto di vista tecnico un insieme di regole per la produzione
delle macchine e dal punto di vista amministrativo un insieme di adempimenti
burocratici da soddisfare al momento della loro commercializzazione,
prescrivendo che una macchina, per essere immessa sul mercato della UE, debba:
-
risultare
accettabilmente sicura (rispetto dei Requisiti Essenziali di Sicurezza (RES),
con analisi rischi e conseguente applicazione di norme tecniche);
-
essere
costruita sulla base di un progetto tecnico disponibile in caso di
contestazione (fascicolo tecnico);
-
essere
riconoscibile (targa del costruttore e marcatura CE);
-
essere
accompagnata da un libretto (manuale di istruzioni per l’uso e la
manutenzione);
-
essere
garantita da una assunzione di responsabilità da parte del fabbricante
(dichiarazione di conformità).
E
in relazione ai forti cambiamenti sia nell’ambito tecnologico che commerciale e
al significativo aumento del numero di macchinari immessi sul mercato della UE
provenienti da paesi extracomunitari, il Parlamento europeo ha emanato il 17
maggio 2006 la Direttiva
2006/42/CE (in sostituzione della precedente Direttiva 98/37/CE) includendo
nell’ambito di applicazione attrezzature che ricadevano nell’ambito di altre
Direttive di prodotto o che erano escluse dall’ambito di tutte le Direttive di
prodotto, chiarendo le esclusioni di alcune macchine dall’ambito di applicazione
della Direttiva ed inserendo RES relativi a nuove categorie di macchine e alla
evoluzione tecnologica, rivedendo l’elenco delle macchine nell’Allegato IV
(macchine con rischi specifici ed elevati), dettando nuovi criteri minimi,
adeguandoli a quelli riportati nelle altre Direttive, per la notifica degli
organismi e determinando le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle
norme nazionali di attuazione della Direttiva.
Dunque
la Direttiva
Macchine è, in sostanza, un insieme di regole definite dalla
CE, rivolto ai costruttori di macchine, che stabiliscono i RES relativi alla
progettazione e alla costruzione delle macchine con il fine di migliorare la
sicurezza dei prodotti immessi sul mercato europeo.
La Direttiva che avrebbe dovuto
essere recepita entro il 29 giugno 2008 e applicata dal 29 dicembre 2009, in Italia è stata
invece recepita con il D.Lgs. 17/10 entrato in vigore il 6 marzo 2010.
Il
documento ricorda brevemente il campo di applicazione della nuova Direttiva
Macchine che è stato riscritto per chiarire una serie di punti oggetto di
interpretazioni disomogenee.
Il
campo di applicazione comprende: macchine; attrezzature intercambiabili;
componenti di sicurezza; accessori di sollevamento; catene, funi e cinghie;
dispositivi amovibili di trasmissione meccanica; quasi-macchine. Esso è stato
esteso a: ascensori da cantiere; apparecchi portatili a carica esplosiva
(pistole sparachiodi, pistole per macellazione o per marchiare) fino al 2011;
apparecchi di sollevamento per persone con velocità di spostamento non
superiore a 0,15 m/s.
Dopo
essersi soffermato sulla definizione di macchina e quasi macchina, il documento
ricorda che nella parte introduttiva delle Direttive di prodotto sono posti i
“considerando” che ne racchiudono la filosofia. I “considerando” non hanno
forza legale e di solito non figurano nei recepimenti nazionali, tuttavia
costituiscono un supporto per comprendere la Direttiva. La Corte
di giustizia europea potrebbe tenere in considerazione i considerando per
accertare le intenzioni dei legislatori.
Inoltre
la Direttiva
aggiunge due nuovi elementi chiave:
-
istituzione
di un quadro giuridico entro il quale la sorveglianza del mercato possa
svolgersi in modo armonioso;
-
attenzione
verso il consumatore.
La Direttiva differenzia poi le
macchine in due grandi macro gruppi:
-
macchine
che devono essere certificate da Enti Terzi (macchine comprese nell’Allegato
IV);
-
macchine
che possono essere autocertificate dal fabbricante.
In
particolare per le macchine comprese nell’Allegato IV la conformità ai RES è
stabilita nel corso di procedure di valutazione eseguite da appositi Enti
(Organismi Notificati).
Per
tutte le altre è sufficiente redigere e conservare il Fascicolo Tecnico della
Costruzione per le macchine e la Documentazione Tecnica
pertinente per le quasi-macchine in accordo con quanto riportato nell’Allegato
V della Direttiva. Tutte le macchine immesse sul mercato o modificate dopo
l’entrata in vigore della Direttiva, devono riportare la marcatura CE ed essere
accompagnate da appropriata documentazione. I prodotti non rispondenti ai RES
della Direttiva non possono accedere al mercato europeo.
Il
documento riporta poi le esclusioni dal campo di applicazione della Direttiva
Macchine, e ricorda che, per ognuna delle possibili situazioni pericolose
connesse al funzionamento di una macchina, la Direttiva fissa i
principi da rispettare, cioè i RES, contenuti nell’Allegato I, che il
fabbricante deve rispettare. Gli obblighi previsti dai RES si applicano se
sussiste il rischio corrispondente.
In
particolare l’Allegato I è suddiviso in 6 capitoli:
-
I
- RES generali per tutte le macchine;
-
II
- RES per talune categorie di macchine agroalimentari, portatili e per la
lavorazione del legno e materie assimilate;
-
III
- RES per ovviare a rischi particolari dovuti alla mobilità delle macchine;
-
IV
- RES per prevenire i rischi particolari dovuti ad una operazione di
sollevamento;
-
V
- RES destinati ad essere utilizzati esclusivamente nei lavori sotterranei;
-
VI
- RES per evitare i rischi particolari connessi al sollevamento ed allo
spostamento delle persone.
Secondo
la Direttiva,
il fabbricante di una macchina ha l’obbligo di:
-
espletare
le procedure di valutazione della conformità ai sensi dell’articolo 12;
-
accertare
che la macchina soddisfi i RES dell’Allegato I;
-
costituire
il Fascicolo Tecnico e fare in modo che sia disponibile, come da Allegato VIIA;
-
fornire
il Manuale d’Uso e Manutenzione;
-
redigere
la Dichiarazione
di Conformità ai sensi dell’Allegato II;
-
apporre
la Marcatura CE
ai sensi dell’articolo 16.
In
questo senso l’applicazione del marchio CE è l’ultima azione di una corretta
produzione e dimostra che la macchina, sulla quale è apposto, è stata costruita
nel rispetto di tutte le norme vigenti nell’ambito di utilizzo.
Concludiamo
questa breve presentazione del documento (che affronta nel dettaglio anche il
tema della marcatura CE, della dichiarazione di conformità e delle sanzioni
previste dal D.Lgs. 17/10) ricordando che anche un soggetto che fabbrica una
macchina per uso personale è considerato un fabbricante e deve assolvere a
tutti gli obblighi di cui all’articolo 5 del D.Lgs. 17/10.
In
questo caso, si segnala che anche se la macchina non viene immessa sul mercato,
in quanto non è fornita dal fabbricante a un altro soggetto ma è utilizzata dal
fabbricante stesso, tale macchina dovrà essere conforme alla Direttiva Macchine
prima della messa in servizio. E questo vale analogamente per un utilizzatore
che fabbrica un insieme di macchine per uso personale.
Il
documento del Dipartimento Ingegneria Civile Edile Ambientale dell’Università
degli Studi di Napoli Federico II “La Direttiva Macchine
(2006/42/CE)” a cura di Fabrizio Leccasi è scaricabile all’indirizzo:
IL PREPOSTO NELLE
SENTENZE DELLA CASSAZIONE DEGLI ULTIMI MESI
Da:
PuntoSicuro
25
febbraio 2016
di
Anna Guardavilla
Gli
obblighi informativi verso i lavoratori e di segnalazione verso i superiori, la
tolleranza delle prassi pericolose quotidiane, la presenza sul luogo di lavoro,
il coordinamento negli appalti, il perimetro delle sue responsabilità.
Il
ruolo, gli obblighi e le responsabilità del preposto sono stati oggetto di
numerose Sentenze emanate dalla Corte di Cassazione Penale negli ultimi due
mesi, le quali hanno per lo più applicato l’articolo 19 del D.Lgs. 81/08 essendosi
pronunciate sulle responsabilità connesse ad infortuni verificatisi dopo il
2008.
L’OBBLIGO
DEL PREPOSTO DI INFORMARE I LAVORATORI ESPOSTI AL RISCHIO DI UN PERICOLO GRAVE
E IMMEDIATO E DI SEGNALARE AL DATORE DI LAVORO LE SITUAZIONI DI PERICOLO
La
Cassazione Penale con Sentenza n. 3626 del 27 gennaio 2016 ha confermato la
condanna di un RSPP e di un preposto per il reato di lesioni personali colpose
in danno di un lavoratore dipendente di una ditta produttrice di ceramiche.
L’infortunio
era avvenuto durante un’operazione di smontaggio, pulitura e rimontaggio di un
atomizzatore: in particolare il lavoratore, “dopo avere rimosso il materiale
che occludeva la parte inferiore dell’apparecchiatura attraverso lo smontaggio
del cono inferiore dello stesso, veniva attinto alla gamba sinistra dal detto
cono, del peso di circa 50
chilogrammi, caduto sotto la spinta di un blocco di
materiale atomizzato distaccatosi dalle pareti dell’atomizzatore”.
Riguardo
ai due imputati, “al C.B. il reato é contestato nella sua qualità di preposto
al reparto macinazione dello stabilimento, per aver sottostimato i rischi di
caduta di materiale dall’interno dell’apparecchiatura e per avere omesso di
dare al lavoratore informazioni sulle regole di prevenzione e protezione da
osservare, in violazione dell’articolo 19, comma 1, del D.Lgs. 81/08; al C.D.
il reato é contestato nella sua qualità di responsabile del servizio sicurezza
sul lavoro dello stabilimento, per non avere individuato, nella valutazione dei
rischi presso il reparto, specifiche e dettagliate misure di sicurezza da
adottare durante le operazioni di pulizia e manutenzione dell’atomizzatore, in
violazione dell’articolo 28, comma 2 lettera d), del D.Lgs. 81/08”.
Per
quanto concerne la posizione del preposto, la sentenza specifica che “é
corretta e adeguata la motivazione della sussistenza, in capo al C.B., del
profilo della colpa, non avendo egli (mentre era impegnato accanto al
lavoratore infortunatosi nell’esecuzione della manovra) effettuato il controllo
delle pareti interne con la dovuta diligenza, posto che l’evento poi
verificatosi testimonia che egli, ove mai avesse effettuato il detto controllo,
vi avrebbe provveduto in modo negligente e dunque non rispondente alle regole
cautelari, come tale caratterizzato quanto meno da colpa generica. E’ perciò
corretto il ragionamento seguito dalla Corte territoriale laddove essa afferma
che, qualora il controllo fosse stato eseguito in modo diligente, il C.B. avrebbe
visto la presenza del blocco di materiale e avrebbe potuto quindi evitare che
essa, cadendo, provocasse l’incidente”.
Sul
tema relativo agli obblighi informativi (nei confronti dei lavoratori) e di
segnalazione (nei confronti dei superiori) del preposto vi è un’altra
interessante sentenza, di qualche giorno successiva alla precedente.
Infatti
la Cassazione Penale con Sentenza n. 4340 del 2 febbraio 2016 ha giudicato le
responsabilità di un RSPP e di un preposto alla direzione esecutiva e
capocantiere, quest’ultimo “per non avere informato i lavoratori dello specifico
rischio da sprofondamento e seppellimento e sulle precauzioni da prendere e per
non avere segnalato al datore di lavoro o al dirigente la situazione di
pericolo presente nel cantiere, ai sensi dell’articolo 119 del D.Lgs. 81/08”.
Riguardo
alla posizione del capocantiere, secondo la Corte “deve respingersi la pur suggestiva tesi
che vorrebbe il preposto esonerato, in questo caso, dagli obblighi di garanzia,
non trattandosi di situazione di rischio accidentalmente sopravvenuta, da
segnalare alla dirigenza e al datore di lavoro. Invero, qui non si è in
presenza di un’inadeguatezza attinente al corredo strumentale d’azienda, già
preventivamente nota al datore di lavoro, ma di una modalità di lavorazione,
manifestamente in dispregio delle norme cautelari minime, che si rinnovava
quotidianamente con la scelta di non proteggere le pareti degli scavi, via via
aperti. Non si tratta, in definitiva, della decisione, presa una volta per
tutte dal datore di lavoro o dalla dirigenza di impiegare un certo macchinario,
ma del rinnovare ogni giorno una prassi lavorativa altamente rischiosa.
Situazione, questa, che avrebbe imposto di segnalare ogni giorno (ammesso che
la prassi lavorativa non dipenda dallo stesso preposto) la condizione di
pericolo elettivo”.
Dunque
“a prescindere dalla violazione del dovere di segnalazione (articolo 19, comma
1, lettera f) del D.Lgs. 81/08), risulta pienamente integrata la violazione del
precetto che impone di avvisare i lavoratori esposti (articolo 19, comma 1,
lettera d) del D.Lgs. 81/08)”.
Secondo
la Cassazione
il preposto non avrebbe dovuto avallare “condizioni [...] di altissimo rischio
che, in ogni caso, al momento del suo allontanamento dal cantiere avrebbero
dovuto consigliargli di ordinare l’integrale sospensione dei lavori.
Conclusivamente [...] il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a
quella del preposto, assume la qualità di garante dell’obbligo di assicurare la
sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce
istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla
l’esecuzione sicché egli risponde delle lesioni occorse ai dipendenti (vedi
Sentenza della Corte di Cassazione n. 9491 del 10 gennaio 2013)”.
IL
PREPOSTO E IL COORDINAMENTO NEGLI APPALTI
Nella
Sentenza della Cassazione Penale n. 1836 del 18 ottobre 16 è stata contestata a
un datore di lavoro e a un preposto la responsabilità per un infortunio nel
quale ha perso la vita un operaio investito dal carico di una gru che si era
ribaltata all’interno dell’area di cantiere in cui egli stava lavorando.
In
particolare erano stati ravvisati “profili di colpa generica (negligenza,
imprudenza ed imperizia) e specifica, in relazione all’articolo 7 del D.Lgs
.626/94 [ora articolo 26 del D.Lgs. 81/08], in quanto il datore di lavoro non
aveva promosso quell’azione di cooperazione e coordinamento per l’attuazione
delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti
sull’attività lavorativa in corso, al fine di garantire che l’autogrù operasse
in cantiere in condizioni di assoluta sicurezza, e il preposto perché non era
intervenuto con azioni correttive nel momento in cui si era reso conto
dell’assenza di tale coordinamento”.
La Cassazione ha annullato senza
rinvio la sentenza impugnata con cui il Tribunale dichiarava di non doversi
procedere e ha disposto la trasmissione degli atti al Tribunale per l’ulteriore
corso.
IL
PERIMETRO DELLA RESPONSABILITÀ DEL PREPOSTO IN RELAZIONE A QUELLA DEL DIRIGENTE:
DOVE FINISCE LA RESPONSABILITA’ DEL CAPOCANTIERE E INIZIA QUELLA DEL DIRETTORE
TECNICO
Con
Sentenza n. 2539 del 21 gennaio 2016 la Cassazione Penale ha rigettato il
ricorso del direttore tecnico di un’impresa edile riconosciuto responsabile per
l’infortunio che era occorso al capocantiere “a seguito del cedimento, per
eccessivo carico (costituito da una benna carica appoggiata per l’asportazione
dei detriti), del solaio”.
Secondo
la Corte
l’imputato (direttore tecnico, dirigente ai fini della sicurezza) “avrebbe
dovuto in questa sua veste vigilare le attività quotidianamente svolte e
pretendere che gli operai lavorassero ancorati a funi di sicurezza”.
Il
ricorrente (direttore tecnico) si difende affermando che “rivestendo
l’infortunato la posizione di capo cantiere era tenuto a rispettare le misure
di prevenzione predisposte dal datore di lavoro e dai responsabili aziendali,
non avendo egli spazi di autonomia per disattenderle, sicché la sua condotta
omissiva, del tutto imprevedibile nonostante la vigilanza [del direttore
tecnico] aveva reso l’infortunio tutto dipendente dalle sue scelte”.
Ma
secondo la Cassazione
“tale tesi difensiva, già disattesa dai giudici di merito, è priva di pregio”.
Infatti, ricorda la Sentenza, “in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi
siano più titolari della posizione di garanzia, ciascun garante risulta per
intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, fino a che non si
esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola
posizione di garanzia: in particolare, il direttore tecnico e il capo cantiere,
figure inquadrabili rispettivamente in quella del dirigente e del preposto,
sono titolari di autonome posizioni di garanzia, seppure a distinti livelli di
responsabilità, dell’obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia
di sicurezza sul lavoro”.
Pertanto
“ne consegue che la nomina di un capo cantiere non implica di per sé il
trasferimento a quest’ultimo della sfera di responsabilità propria del ruolo
dirigenziale del direttore tecnico (vedi Sentenze della Corte di Cassazione n.
46849 del 19 dicembre 2011 e n.8593 del 27 febbraio 2008)”.
E
“dunque, se è vero che il capo cantiere è destinatario diretto dell’obbligo di
verificare che le concrete modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative
all’interno del cantiere rispettino le normative antinfortunistiche, deve
rilevarsi che nel caso di specie il capocantiere ha affermato di aver deciso
autonomamente che quel solaio poteva sopportare il carico della benna piena
senza bisogno di particolare accorgimenti di sicurezza, compiendo così una valutazione
che si è rivelata errata, e in ciò, ad avviso della Corte di merito si incentra
la responsabilità del direttore tecnico, che quale direttore tecnico di
cantiere aveva il preciso obbligo di verificare il minuto rispetto delle norme
di sicurezza e di far osservare quanto previsto dal Piano Operativo di Sicurezza
e dal piano delle demolizioni, e non rimettere agli stessi dipendenti la
salvaguardia della loro incolumità”.
In
conclusione “l’imputato avrebbe dovuto vigilare e tenere sotto controllo le attività
quotidianamente svolte nel cantiere, evitando di consentire ai dipendenti di
operare scelte spettanti alla dirigenza e di assumere iniziative operative
proprie, e nella specie avrebbe dovuto pretendere e accertarsi che gli operai
lavorassero ancorati alle funi di sicurezza come previsto dal ripetuto piano
delle demolizioni e non rimanere assente dal cantiere, sebbene informato del
lavoro da svolgere, senza aver imposto le osservanze di salvaguardia”.
L’ASSIDUITA’
DELLA PRESENZA DEL PREPOSTO SUI LUOGHI DI LAVORO
La
Cassazione Penale con Sentenza n. 49361 del 15 dicembre 2015 ha confermato
l’assoluzione del capo squadra di una ditta di Costruzioni nonché preposto alla
sicurezza in cantiere “nell’esecuzione dei lavori edili commissionati dalla
Raffineria di G.”, al quale era stato contestato il reato di lesioni personali
ai danni di un lavoratore “per aver disposto l’esecuzione di lavorazioni
contrastanti con il permesso di lavoro rilasciato dal responsabile della ditta
committente, e per aver omesso di informare il lavoratore infortunato della
presenza di zolfo liquido all’interno di una vasca di contenimento in
prossimità del quale il lavoratore si era trovato a eseguire la propria
prestazione, così propiziandone la caduta all’interno della vasca e le conseguenti
gravi ustioni dallo stesso riportate”.
La Suprema Corte ha rigettato il
ricorso avanzato dal Procuratore Generale in virtù della “sostanziale
inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa” e di un altro
testimone nonché in virtù del fatto che risultava sufficientemente provata la
“abnormità della condotta di lavoro del prestatore infortunato”, elementi che
sono “valsi a escludere l’acquisizione di una certezza, aldilà di ogni
ragionevole dubbio, circa la colpevolezza dell’imputato”.
E’
interessante il punto della sentenza in cui la Cassazione sottolinea
“l’impossibilità di radicare in capo all’imputato un obbligo di presenza
costante e continua sui luoghi di lavoro [...], specie se riferiti a un
comportamento, quale quello verosimilmente tenuto dalla persona offesa, del
tutto estraneo alle quotidiani e abituali attività degli operai, avendo
peraltro l’imputato in ogni caso comprovato il dato di una presenza comunque
assidua sul cantiere, in coerenza a quanto confermato da altri testi escussi,
oltre alla stessa persona offesa”.
IL
PREPOSTO E LA TOLLERANZA DI PRASSI DI LAVORO PERICOLOSE IN ASSENZA DI PRESIDI
ANTINFORTUNISTICI
Con
Sentenza n. 4325 del 2 febbraio 2016 la Cassazione Penale ha confermato la
condanna (per lesioni colpose) di un datore di lavoro e di un preposto i quali
“nelle rispettive qualità hanno consentito che il lavoratore (e prima di lui
altri operai), svolgesse un’attività di evidente pericolosità, senza mettere a
sua disposizione l’unico mezzo di prevenzione sicuro, costituito dall’anello
unico. Condotta questa aggravata dalla circostanza che la vittima era un mero apprendista
al quale non era stata fornita una sufficiente formazione e informazione dei
rischi del lavoro che svolgeva”.
Il
datore di lavoro, in particolare, aveva “omesso di adottare tutti i
provvedimenti tecnici organizzativi e procedurali necessari, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’integrità
fisica dei lavoratori dell’impresa, omettendo di scegliere una imbracatura e i
relativi accessori di sollevamento appropriati alla natura, alla forma ed al
volume di una gabbia in ferro sagomato e barre in acciaio lunga 12 m e del peso
di 1.633 kg agganciata per mezzo di catene ad una gru a ponte”.
La Corte precisa che
“dell’incidente dovevano rispondere il datore di lavoro e il preposto, considerato
che il lavoratore non aveva avuto una sufficiente formazione e informazione,
nonché per il fatto che in azienda erano tollerate e non controllate prassi di
lavoro pericolose”.
E
conclude: riguardo al “preposto, egli era garante dell’obbligo di assicurare la
sicurezza del lavoro, sovraintendendo alle attività, impartendo istruzioni,
dirigendo gli operai, attuando quindi le direttive ricevute. In ragione della
sua “prossimità” al rischio aveva tutta la possibilità di evitare l’evento
controllando ed impedendo prassi di lavoro pericolose in assenza della presenza
di presidi che garantissero la sicurezza del lavoro”.
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