lunedì 7 marzo 2016

7 marzo - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! NEWSLETTER N. 246 DEL 04/03/16



NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.10
1
L’OMICIDIO COLPOSO DEL DIPENDENTE E’ A CARICO DEI DIRIGENTI E DELLA SOCIETA’
6
RAPINA SUL POSTO DI LAVORO: DEI DANNI AL LAVORATORE NE RISPONDE IL DATORE QUALORA MANCHINO ADEGUATI SISTEMI DI SICUREZZA
8
FATTORI DI RISCHIO: CONFLITTI CASA-LAVORO, ORARI E RITMI LAVORATIVI
10
LA DIRETTIVA MACCHINE E IL PRINCIPIO DI INTEGRAZIONE DELLA
SICUREZZA
12
IL PREPOSTO NELLE SENTENZE DELLA CASSAZIONE DEGLI ULTIMI MESI
15


LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.10

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.
Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

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Buongiorno Marco,
sono un RLS e devo porti un quesito.
A un lavoratore della mia azienda che utilizza avvitatori e smerigliatrici il medico competente, dopo la visita medica, ha prescritto “non esporre a vibrazioni mano braccio con valore A(8) maggiore di 2,5 m/s2”.
Che cosa significa e come fa il lavoratore in pratica a rispettare la prescrizione?

Ciao,
il valore A(8) è il valore, mediato sulle 8 ore di lavoro giornaliero, delle vibrazioni trasmesse da attrezzature di lavoro al sistema mano braccio.
E’ in pratica la “dose” di vibrazioni per le mani e le braccia assorbite dal lavoratore nel corso di una giornata standard.
Trattandosi di accelerazioni tale valore è espresso in m/s2.
Ai sensi dell’articolo 201 del D.Lgs.81/08 per tale valore sono definiti i seguenti limiti:
-         valore di azione (sopra il quale il datore di lavoro deve programmare e attuare misure di prevenzione e protezione) = 2,5 m/s2;
-         valore limite di esposizione (che non può mai essere superato) = 5,0 m/s2.       
La prescrizione del medico, derivante probabilmente da una patologia all’apparato muscolo scheletrico degli arti superiori del lavoratore, significa che il lavoratore non può utilizzare attrezzature fonti di vibrazioni la cui media giornaliera sia superiore a 2,5 m/s2 (cioè il valore di azione).
In pratica il lavoratore non può utilizzare attrezzature fonti di vibrazioni, la cui media giornaliera superi quel limite.
E’ compito del datore di lavoro, sentito il RSPP, specificare quali siano tali attrezzature, a seguito della valutazione del rischio da vibrazioni da eseguire ai sensi dell’articolo 202 del D.Lgs.81/08.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco

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Ciao,
ho letto alcuni dei tuoi articoli su internet e vorrei chiederti delle informazioni in merito al mio caso.
Lunedì rientrerò al lavoro dopo 5 mesi di malattia.
Vengo avvisato dall’azienda che dopo 60 giorni di malattia è necessario fare la visita con il medico del lavoro e di portare la documentazione necessaria.
Dopo aver letto i tuoi articoli mi accorgo che prima di rientrare al lavoro devo effettuare visita dal medico, cosa di cui non vengo informata.
L’orario di lavoro va dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 17.30. la visita è alle 17.15.
Richiedo informazioni e mi dicono che infatti non mi devo presentare lunedì al lavoro, ma martedì dopo la visita.
Tralasciando questa mancanza di informazione (abito tra l’altro a 25 km di distanza dal lavoro e avrei fatto 100 km inutilmente anziché 50), ho richiesto verbalmente 5 settimane fa il part time per motivi di salute e 14 giorni fa in forma scritta, richiesta alla quale non hanno ancora dato risposta. Questo faciliterebbe e avrebbe facilitato di molto il mio rientro.
Ho infatti una malattia rara con sintomi ciclici e non prevedibili. Sto seguendo ancora delle cure che includono, oltre a medicamenti, una dieta abbastanza ristretta, attività fisica specifica, riposo e meno stress possibile tutto questo per accelerare il processo di guarigione.
La cura dovrà procedere per ancora 6/8 mesi e poi si vedrà.
La mia domanda è come devo comportarmi per ottenere il part time che credo sia un modo per non dover affrontare un carico di lavoro eccessivo e rovinare tutto il lavoro fin qui fatto e per andare incontro all’azienda che sembra rimandare questa decisione sul part time?
Come devo comportarmi con il medico del lavoro?
Scusa il lungo testo...e in ogni caso ti ringrazio dell’attenzione.
Cordiali saluti

Ciao,
innanzitutto premetto che le visite mediche che la tua azienda dispone nei tuoi confronti devono essere del tutto gratuite e senza nessun onere economico per te, secondo quanto disposto dall’articolo articolo 15, comma 2 del Decreto Legislativo n.81 del 2008 (Testo Unico sulla sicurezza):
Le misure relative alla sicurezza, all’igiene ed alla salute durante il lavoro non devono in nessun caso comportare oneri finanziari per i lavoratori”.
Per quanto riguarda la possibilità che il medico competente disponga la necessità che tu svolga il lavoro part time, è una facoltà che il Decreto lascia appunto al medico competente, che a seguito di visita medica (nel tuo caso dovuta per assenza dal lavoro superiore ai 60 giorni) deve definire la tua idoneità o meno alla mansione specifica, secondo l’articolo 41, comma 6 del Decreto:
Il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche di cui al comma 2, esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:
a) idoneità;
b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
c) inidoneità temporanea;
d) inidoneità permanente”.
Inoltre secondo il comma 6-bis del medesimo articolo:
Nei casi di cui alle lettere a), b), c) e d) del comma 6 il medico competente esprime il proprio giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro”.
A seguito del giudizio del medico competente l’azienda è tenuta, se possibile, ad adottare le prescrizioni indicate dal medico nell’eventuale giudizio di inidoneità parziale o totale, secondo l’articolo 42 del Decreto:
Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.
Pertanto se il medico competente ritiene che a seguito della tua storia clinica, tu non sia più idonea a un turno di 8 ore, può segnalare la tua inidoneità parziale alla mansione svolta con la prescrizione del lavoro part time.
Attenta però che l’azienda non deve necessariamente passarti al part time a seguito del giudizio di non idoneità del medico, in quanto il citato articolo 42 contiene l’inciso “ove possibile”.
Pertanto, almeno in teoria, se l’azienda non ha la possibilità di trasferirti al lavoro part time, per ottemperare a quanto definito dal medico (che è un parere del tutto vincolante) potrebbe anche licenziarti per giusta causa oggettiva, non essendo tu più idonea al lavoro sulle 8 ore.
Pertanto ti consiglio, prima di parlare con il medico, di valutare se la tua azienda ha la possibilità di passarti al part time. Dopo di che potrai parlare con il medico, manifestando la tua difficoltà al lavoro full time, presentando adeguata documentazione della tua storia clinica, e chiedendo che ti prescriva il lavoro part time. Anche in questo caso però non è detto che il medico acconsenta, se secondo suo giudizio professionale lui ritiene che tu possa continuare a svolgere lavoro full time.
Tieni infine conto, che puoi fare ricorso alla ASL (tu, ma anche l’azienda) contro il giudizio del medico, ai sensi dell’articolo 41, comma 9 del Decreto:
Avverso i giudizi del medico competente, ivi compresi quelli formulati in fase preassuntiva, è ammesso ricorso, entro trenta giorni dalla data di comunicazione del giudizio medesimo, all’organo di vigilanza territorialmente competente che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso”.
A disposizione per ulteriori chiarimenti.
Marco

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Ciao Marco,
lavoro in una ditta di consegna documentazione, sia in moto che in auto.
Secondo te con le condizioni atmosferiche attuali come ci dobbiamo comportare?
Dobbiamo attendere le disposizioni del Comune su un eventuale blocco del traffico oppure è la mia azienda che deve intervenire in qualche modo?
Grazie.

Ciao,
se ti riferisci allo smog, tale tipo di esposizione a rischio per la salute dovrebbe essere valutata nel documento di valutazione dei rischi (valutazione del rischio chimico) e di conseguenza dovrebbero essere definite delle misure di protezione individuale (mascherine adeguate), visto che le misure di prevenzione e di protezione collettiva sono tecnicamente impossibili.
La tua azienda fa qualcosa in tal senso? Fai controllare dal tuo RLS cosa è scritto nel DVR e quali misure per la salute adotta la tua azienda.
Oltre alle mascherine andrebbe anche eseguita la sorveglianza sanitaria almeno a livello preventivo per valutare che chi lavora all’aperto sia idoneo (ad esempio assenza di asma o malattie broncopolmonari) e, per me almeno, anche a livello periodico per valutare che non insorgano malattie all’apparato respiratorio.
Quindi fai chiedere al tuo RLS anche il protocollo di sorveglianza sanitaria.
Marco

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Ciao Marco,
sono RLS di un’azienda metalmeccanica.
Ieri c è stato un incendio nella cabina prova motori. Io non c’ero.
Sono andato dal mio capo a sentire cos’era successo e se gli RLS erano stati avvisati.
No, lui ha chiamato i capi e hanno sistemato la situazione.
Ti volevo chiedere se per legge i preposti o i dirigenti devono contattare gli RLS in caso di incidenti anche senza feriti.

Ciao.
Effettivamente il D.Lgs.81/08 non prevede in maniera esplicita una tale eventualità (consultazione del RLS relativamente a un incidente).
Lo spirito del Decreto è però quello che i RLS siano puntualmente informati su cosa succede in azienda relativamente a salute e sicurezza e quindi l’obbligo di dare ai RLS tale tipo di informazione è sancito in maniera implicita.
Ciò si evince dalle misure generali di tutela come descritte all’articolo 15 del Decreto (che però non è sanzionabile) che prevede “la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza”.
Nel caso specifico vale comunque pienamente quanto disposto dall’articolo 50, comma 1 lettera e) secondo il quale il RLS “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.
Tale attribuzione dei RLS costituisce in questo caso obbligo sanzionabile per il datore di lavoro e i dirigenti secondo quanto stabilito dall’articolo 18, comma 1, lettera s), per il quale essi devono “consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo 50”.
E’ chiaro che in questo caso le “misure di prevenzione relative” non sono state evidentemente adeguate e di questa informazione i RLS avrebbero dovuto, secondo quanto sopra, essere informati, come avrebbero dovuto essere informati su quali ulteriori misure di prevenzione e protezione l’azienda intende adottare per evitare un simile incidente nel futuro.
Io scriverei una lettera all’azienda in cui si stigmatizza la mancata informazione dei RLS (inviandola anche per conoscenza alla ASL) e in cui si chiede che in caso di futuri incidenti, infortuni, quasi infortuni, i RLS vengano adeguatamente e tempestivamente informati.
A seguire la bozza della lettera.
Marco

Al datore di lavoro di [nome azienda]
per conoscenza
al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione di [nome azienda]
al Dipartimento Salute e Sicurezza ASL
La presente per segnalare il grave comportamento tenuto dall’azienda in occasione dell’incendio che si è sviluppato il [data] nella cabina prove motori, che solo per fortuna non ha causato danni alle persone, ma solo alle cose [scriverlo solo se è vero, facendo se possibile una descrizione dettagliata dell’incidente].
Infatti di tale grave incidente i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (ex articolo 47 del D.Lgs.81/08, “Decreto”) sono stati tenuti all’oscuro da parte dei responsabili dell’azienda, venendone a conoscenza solo in via informale da parte dei lavoratori [specificare come].
Riteniamo che la mancata segnalazione ai RLS di quanto accaduto sia assolutamente contrario alla “ratio” del Decreto, relativamente al rapporto tra azienda e RLS.
Tale “ratio” prevede che i RLS siano puntualmente informati su cosa succede in azienda relativamente a salute e sicurezza e quindi l’obbligo di dare ai RLS tale tipo di informazione è sancito dal Decreto in maniera esplicita e implicita.
Ciò si evince dalle misure generali di tutela come descritte all’articolo 15, comma 1, lettera s) del Decreto che prevedono “la partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza”.
Nel caso specifico vale poi quanto disposto dall’articolo 50, comma 1 lettera e) secondo il quale il RLS “riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli infortuni ed alle malattie professionali”.
Tale attribuzione dei RLS costituisce in questo caso obbligo sanzionabile per il datore di lavoro e i dirigenti secondo quanto stabilito dall’articolo 18, comma 1, lettera s), per il quale essi devono “consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo 50”.
E’ chiaro che in questo caso le “misure di prevenzione relative” non sono state evidentemente adeguate e di questa informazione i RLS avrebbero dovuto, secondo quanto sopra, essere informati, come avrebbero dovuto essere informati su quali ulteriori misure di prevenzione e protezione l’azienda intende adottare per evitare un simile incidente nel futuro.
Nello spirito sopra richiamato, i RLS richiedono con la presente all’azienda di essere nel futuro prontamente informati su incidenti, infortuni, quasi infortuni, “near miss” in modo da poter valutare se le misure di prevenzione e protezione adottate dalla azienda stessa, anche relativamente alla gestione delle emergenze, siano o meno adeguate ai rischi presenti sui luoghi di lavoro.
Rimaniamo in attesa di riscontro alla presente.
I RLS
firme

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NOTA
Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:
ASL = Azienda Sanitaria Locale
CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DPI = Dispositivi di Protezione Individuali
DVR = Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto
RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)



L’OMICIDIO COLPOSO DEL DIPENDENTE E’ A CARICO DEI DIRIGENTI E DELLA SOCIETA’

Da Studio Cataldi
1 marzo 2016
di Fulvio Graziotto

In mancanza di adozione di modelli organizzativi, per l’infortunio mortale paga anche la società.
E’ questo in sintesi quanto affermato dalla Cassazione, nella recente Sentenza n. 2544/2016.

Il Tribunale condannava l’Amministratore Unico e il Direttore Tecnico di una Società a Responsabilità Limitata, attiva nel settore edile, colpevoli del reato di omicidio colposo di un addetto (il lavoratore era morto in conseguenza delle lesioni riportate nel cantiere mentre era alla guida di un’autogru con il freno di stazionamento non funzionante).

Il Tribunale dichiarava altresì la società, in persona del Legale Rappresentante, responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’articolo 5, lettere a) e b) del D.Lgs. 231/01, concessa la riduzione della sanzione ex articolo 12, comma 2, lettera a) dello stesso Decreto, comminando la sanzione amministrativa pecuniaria di 80.000 euro.

Avverso la suddetta sentenza proponevano impugnazione entrambi gli imputati, nonché la società, chiedendo in via principale l’assoluzione degli imputati dalle contestazioni a essi mosse.
La Corte di appello di Milano confermava la sentenza impugnata.

Proponevano quindi ricorso per Cassazione entrambi gli imputati persone fisiche, nonché la società. La società sosteneva che la condotta del Legale Rappresentante non era finalizzata o utile a un vantaggio dell’ente sociale, con la conseguente non configurabilità della responsabilità in capo alla società pur in mancanza di adozione dei modelli organizzativi previsti dal richiamato Decreto Legislativo.

Nell’esaminare il ricorso, la Cassazione, con la Sentenza in commento, ricorda che il requisito dell’interesse dell’ente (sancito dall’articolo 5 del D.Lgs. 231/01) sussiste anche in conseguenza di scelte dettate dall’obiettivo di risparmiare sui costi: con la mancata adozione della disciplina antinfortunistica, l’autore del reato ha consapevolmente violato le disposizioni sulla sicurezza per realizzare un interesse della società. Il vantaggio conseguito dalla società, invece, è rappresentato dal contenimento della spesa e una massimizzazione del profitto.

La Cassazione ha affermato che nei reati colposi d’evento, “il finalismo della condotta prevista dall’articolo 5 del D.Lgs. 231/01 è compatibile con la non volontarietà dell’evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo”.

Sulla base di quanto precisato dalla Corte di legittimità, la responsabilità della società avrebbe potuto essere esclusa solo dando dimostrazione di aver adottato i modelli organizzativi e la vigilanza sulla loro applicazione da parte di un organismo autonomo.

Richiamiamo le norme stabilite dal D.Lgs. 231/01.

Articolo 5 - Responsabilità dell’ente
“1. L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
2. L’ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”.

Articolo 12 - Casi di riduzione della sanzione pecuniaria
“1. La sanzione pecuniaria è ridotta della metà e non può comunque essere superiore a lire duecento milioni se:
a) l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo;
b) il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità;
2. La sanzione è ridotta da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado:
a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;
b) è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
3. Nel caso in cui concorrono entrambe le condizioni previste dalle lettere del precedente comma, la sanzione è ridotta dalla metà ai due terzi.
4. In ogni caso, la sanzione pecuniaria non può essere inferiore a lire venti milioni”.

La Sentenza n. 2544 della Corte di Cassazione Sezione Penale del 21 gennaio 2016 è consultabile all’indirizzo:



RAPINA SUL POSTO DI LAVORO: DEI DANNI AL LAVORATORE NE RISPONDE IL DATORE QUALORA MANCHINO ADEGUATI SISTEMI DI SICUREZZA

Da Studio Cataldi
1 marzo 2016
di Paolo Accoti

Il datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile “è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

In altri termini, a carico del datore di lavoro, esiste un obbligo contrattuale teso a tutelare la salute e la sicurezza dei propri dipendenti suoi luoghi di lavoro, pertanto, qualora egli ometta di adottare tutte le cautele e le misure necessarie a salvaguardare l’integrità, fisica e morale, del dipendente, risponde dei danni da questi eventualmente subiti.

Sulla scorta di ciò un datore di lavoro, a seguito di una rapina subita presso una propria dipendenza, è stato condannato a risarcire il danno subito dal dipendente, a seguito della “prolungata soggezione a minaccia a mano armata”, in assenza delle necessarie misure atte a garantire la sicurezza sul luogo di lavoro.

A cagione dei pesanti carichi di lavoro e delle ripetute rapine (quattro in circa un anno) un dipendente evocava in giudizio il proprio datore di lavoro, al fine di vedersi risarcito il danno alla salute, conseguenza di un infarto acuto del miocardio, nonché quello morale, in virtù della tensione accumulata durante le riferite rapine, nel corso delle quali aveva dovuto soggiacere alle minacce portate dai rapinatori, armi in pugno.

La domanda in primo grado veniva rigettata, tuttavia, a seguito dell’interposto gravame da parte del lavoratore, la Corte d’Appello di Firenze, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno morale, subito dal lavoratore, in considerazione della “prolungata soggezione a minaccia a mano armata, in assenza delle misure protettive a carico datoriale ai sensi dell’articolo 2087 del Codice Civile”, una volta accertato che la ditta datrice, aveva “omesso di adottare le adeguate protezioni poste a tutela del proprio dipendente”.

Veniva, al contrario, respinta la domanda relativa al risarcimento de danno biologico, in virtù del fatto che, la disposta consulenza tecnica, aveva escluso il nesso di causalità tra le rapine subite e l’infarto del miocardico patito dal lavoratore, a seguito degli episodi ipertensivi occorsigli.

La Corte di Cassazione Sezione Lavoro, successivamente adita dal datore di lavoro, con la Sentenza n. 3306 del 19 febbraio 2016, respingeva il ricorso, confermando pertanto integralmente la decisione assunta in secondo grado.

Il ricorrente lamentava, tra l’altro, la violazione e falsa applicazione degli articoli 2059 e 2087 del Codice Civile, nonché il difetto di motivazione, sulla scorta del fatto che le misure di sicurezza concretamente predisposte, risultavano assolutamente conformi agli standard di sicurezza e alla tipologia di piccolo ufficio periferico, la cui ubicazione e il volume d’affari lo rendevano non soggetto ad apprezzabili rischi.
Si lagnava, inoltre, della mancanza di prova in ordine al supposto danno morale, mancando il nesso causale tra il presunto inadempimento del datore di lavoro e le lesioni all’integrità psichica asseritamente subite dal lavoratore.

La Corte di Cassazione, in coerenza con i propri precedenti, ha ritenuto che il lavoratore che agisca in giudizio per il risarcimento dei danni da infortunio sul lavoro, abbia l’onere di provare il fatto generatore del danno e il nesso causale esistente tra l’anzidetto danno e l’inadempimento del datore di lavoro, ma non anche l’eventuale colpa datoriale.

E invero, in simili fattispecie, la colpa del datore di lavoro si presume in ragione del disposto di cui all’articolo 1218 del Codice Civile, per il quale “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Pertanto, per superare la presunzione di colpa, spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte quelle misure e cautele atte a evitare il danno, in virtù dell’attività in concreto espletata e ai rischi alla stessa connessi, potendo risultare insufficiente il generico rispetto delle misure universali di protezione individuale disposte per legge (in tal senso si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 8855 del 11/04/13 e n. 16003 del 19/07/07).
E invero, le tecniche di sicurezza, devono essere parametrate all’ambiente in cui viene effettivamente esercitata l’attività di impresa, anche in ragione della tipologia della stessa e alle possibili aggressioni conseguenti all’attività criminosa cui potrebbe essere soggetta una determinata attività imprenditoriale.
In altri termini, nelle attività strettamente connesse all’utilizzo di denaro, esercitate in zone dove i fenomeni criminali risultano particolarmente sentiti, non risulta idoneo e sufficiente, per andare esenti da responsabilità, apprestare sistemi di sicurezza generici, quand’anche conformi al dettato normativo.

Ricorda a tal proposito, la Corte di Cassazione, i propri precedenti specifici in materia di rapina sul luogo di lavoro, per cui il disposto dell’articolo 2087 del Codice Civile deve essere interpretato nel senso della necessità di fornire ai propri dipendenti: “adeguati mezzi di tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi, nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale” (in tal senso si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 23793 del 20/11/15 e n. 7405 del 13/04/15).

Pertanto, il datore di lavoro per non incorrere in responsabilità contrattuali, deve provare di aver adottato tutte quelle misure protettive idonee, in considerazione della effettiva situazione di pericolo, a salvaguardare l’incolumità del personale dipendente, specie quando è stato già in passato vittima di simili episodi criminosi.

Per quanto concerne, infine, la paventata carenza di prova in ordine al danno subito, questo risulta comprovato nonché allegato “dalla sofferenza emotiva, indubbiamente intensa, conseguita dal dipendente dalle due rapine subite sul posto di lavoro. Tale danno trova positivo riscontro anche nell’episodio ipertensivo insorto il giorno successivo alla seconda rapina e per cui il lavoratore fu ricoverato cinque giorni in ospedale ed è stato correttamente liquidato in via equitativa, in relazione alle modalità della vicenda” (si veda a tale proposito la Sentenza della Corte di Cassazione n. 16041 del 26/06/13).

La Sentenza n. 3306 del 19 febbraio 2016 della Corte di Cassazione Sezione Lavoro è consultabile all’indirizzo:



FATTORI DI RISCHIO: CONFLITTI CASA-LAVORO, ORARI E RITMI LAVORATIVI

Da: PuntoSicuro
22 febbraio 2016
di Tiziano Menduto

Le conseguenze psicofisiche di fattori di rischio come l’insicurezza lavorativa, gli orari di lavoro troppo lunghi, il lavoro a turni, gli elevati ritmi lavorativi e le difficoltà nella conciliazione casa-lavoro.

“Nonostante lo stress lavoro-correlato sia considerato uno dei più rilevanti problemi per la salute occupazionale dalle principali agenzie nazionali e internazionali di igiene e sicurezza sul lavoro, solo una minima parte dei disturbi psichici causati dal lavoro vengono denunciati e riconosciuti come malattie professionali in Italia”.
A sottolineare questa carenza nella denuncia e riconoscimento dei disturbi psichici lavoro correlati e, più in generale, a presentare alcuni fattori di rischio lavorativi sottovalutati, è un intervento di Angelo d’Errico (Servizio Sovrazonale di Epidemiologia, ASL TO3) al seminario “Le patologie professionali e miglioramento delle notizie sullo stato di salute dei lavoratori: l’occasione dei Piani regionali di prevenzione 2015-2018” che si è tenuto il 18 settembre 2015 a Milano.

Nell’intervento “Fattori di rischio occupazionali emergenti e salute”, Angelo d’Errico si sofferma su vari fattori di rischio come l’insicurezza lavorativa, gli orari di lavoro, gli elevati ritmi lavorativi e le difficoltà nella conciliazione casa-lavoro riportando utili indicazioni sull’associazione con problemi e patologie psicofisiche.

Ci soffermiamo in particolare sulle problematiche connesse agli orari di lavoro, intesi come:
-         long working hours: definite come più di 48 ore a settimana;
-         night shift work: con riferimento al lavoro a turni, con orario notturno.
Il relatore ricorda che entrambi sono stati associati ad aumentata probabilità di:
-         problemi di salute: malattie cardiovascolari e mentali, disturbi del sonno, diabete, disturbi gastrointestinali e muscolo-scheletrici, infortuni, disabilità;
-         alterazioni comportamentali: fumo, alcool, inattività fisica, dieta malsana.
Inoltre per il lavoro a turni sono stati riportati eccessi di tumori della mammella e della prostata (Classe 2A, IARC, 2007).

Tuttavia molti di questi studi soffrono di una inadeguata definizione dell’esposizione. Poiché queste caratteristiche del lavoro sono spesso correlate all’esposizione a fattori di rischio di tipo fisico (lavoro fisico intenso) e psicosociale (high demand, low control, high strain, effort-reward imbalance, social support) è controverso se gli effetti osservati non siano dovuti al confondimento da parte di altre esposizioni lavorative. Inoltre non è chiaro se le alterazioni comportamentali indotte siano mediatori dell’effetto del lavoro a orario prolungato o a turni sulla salute.

Uno schema riportato nell’intervento ricorda che il “long working hours” si collega a una ridotta disponibilità di tempo o ridotta capacità di utilizzare effettivamente il tempo per dormire, riposarsi o svolgere attività familiari o di svago e a una più lunga esposizione o aumentata vulnerabilità a: elevata pressione lavorativa e fattori di rischio occupazionali.
E tutto questo può avere impatto sul lavoratore (malattie, infortuni, qualità della vita, ecc.), sulla famiglia (cura dei familiari, qualità delle relazioni, reddito familiare, ecc.), sul datore di lavoro (produttività, qualità, costi di malattie e infortuni, ecc.), sulla comunità (costi di malattie e infortuni, ecc.).
Sono poi riportati diversi dati sull’esposizione a lunghi orari di lavoro (particolarmente evidente nel comparto agricolo, ma anche nel commercio e nei trasporti) e ricordato che ci sono risultati controversi per la correlazione con i problemi di salute mentale.

Riguardo invece al lavoro a turni si fa riferimento a:
-         associazione abbastanza consistente con la malattia ischemica coronarica sulla base degli studi di incidenza, ma non di mortalità;
-         associazioni consistenti con stress occupazionale (basso job control, alta effort-reward imbalance), conflitti casa-lavoro e deficit di recupero;
-         associazioni abbastanza consistenti con ridotta durata o qualità del sonno, fumo, body mass index, peso corporeo, ma non per alcool e attività fisica;
-         associazioni consistenti con diversi end-point intermedi o fattori di rischio biologici (aterosclerosi, colesterolemia, alterazioni linfocitarie, alterazioni della frequenza cardiaca e della sua variabilità, incrementi di cortisolo e noradrenalina, diabete, sindrome metabolica).

Ricordiamo che il relatore si sofferma ampiamente sulla eventuale correlazione tra “shift work” e cancro della mammella e riporta anche alcune indicazioni relative ad altre forme tumorali e a problemi di salute mentale.

Veniamo invece al tema delle elevate richieste di lavoro (high demand):
-         dimensione che cattura esposizione ad alti ritmi di lavoro e a carico di lavoro eccessivo sia fisico che mentale (forte correlazione con livello di esposizione a fattori ergonomici);
-         dimensione frequentemente esaminata insieme a quella del job control o del job reward nell’ambito dei modelli demand-control (Karasek, 1985) e effort-reward imbalance (Siegrist, 1996);
-         difficile quindi isolare in letteratura il suo effetto sulla salute, al netto di quello delle co-esposizioni psicosociali dei due modelli;
-         riportate associazioni soprattutto con: disturbi mentali (Stansfeld & Candy, 2006; Bonde, 2008); malattie cardiovascolari (Eller et al., 2009); disturbi muscolo-scheletrici (Da Costa & Vieira, 2010).
L’intervento riporta poi altre indicazioni sull’associazione tra stress sul lavoro, disturbi psicologici comuni e depressione.

Riguardo infine ai conflitti casa-lavoro si ricorda che la dimensione del conflitto casa-lavoro si riferisce a una condizione in cui gli ambiti del lavoro e della famiglia interferiscono così tanto che uno esercita un effetto negativo sull’altro.
E secondo il NIOSH, “il conflitto casa-lavoro è uno dei 10 fattori stressogeni lavorativi più importanti” (Kelloway , 1999).
Si indica poi che la teoria prevalente su cui si basano gli effetti sulla salute associati è la “role strain hypothesis”, che afferma che il conflitto casa-lavoro è una forma di conflitto tra ruoli nel quale la pressione derivante dal ruolo lavorativo e quello familiare sono per qualche aspetto mutualmente incompatibili (Greenhaus e Beutell, 1985).
Si segnala poi che numerosi studi hanno dimostrato un’associazione tra work-family conflict e disturbi mentali (ansia, depressione, burnout).

Concludiamo segnalando che alcuni studi europei, con riferimento al doppio carico di lavoro, hanno mostrato che le donne che combinano lavoro retribuito e cura dei figli riportano più sintomi fisici e psicologici di donne occupate senza figli (Krantz, 2001, 2005; Vaananen, 2004).
Tuttavia, la maggior parte degli studi longitudinali sul “doppio carico” non hanno trovato effetti sulla salute generale o sulla mortalità delle donne con questi ruoli multipli (Waldron, 1998).
Al contrario, i pochi studi che hanno indagato l’effetto del doppio carico sulla salute cardiovascolare hanno osservato un aumento del rischio tra le donne occupate con figli (Haynes e Feinleib, 1980; Lee, 2003; Zimmerman e Hartley, 1982; James, 1989; Brisson, 1999).

Il documento “Fattori di rischio occupazionali emergenti e salute” a cura di Angelo d’Errico è scaricabile all’indirizzo:



LA DIRETTIVA MACCHINE E IL PRINCIPIO DI INTEGRAZIONE DELLA SICUREZZA

Da: PuntoSicuro
24 febbraio 2016

Le caratteristiche e i principi della Direttiva Macchine 2006/42/CE.
L’evoluzione della normativa, il campo di applicazione, gli aspetti rilevanti, i requisiti essenziali di sicurezza e gli obblighi del fabbricante di una macchina.

In relazione ai molti incidenti sul lavoro che avvengono in Italia nell’uso di attrezzature di lavoro, è utile che il nostro giornale torni in modo ricorrente a parlare di sicurezza delle macchine e della normativa correlata, con particolare riferimento alla Direttiva macchine 2006/42/CE.
Infatti questi infortuni possono essere ridotti integrando la sicurezza nelle fasi di progettazione e di costruzione ed effettuando una corretta installazione e manutenzione.

In questo senso il principio di integrazione della sicurezza prevede nell’ordine:
-         eliminazione dei rischi in fase progettuale;
-         riduzione dei rischi in fase progettuale;
-         adozione di protezioni o dispositivi di sicurezza;
-         evidenziazione, nelle istruzioni, dei rischi residui non eliminabili.
Ed è basandosi su queste considerazioni che sono state emanate nel tempo una serie di Direttive comunitarie relative alle macchine che interessarono la produzione, la commercializzazione delle macchine e la responsabilità dei vari soggetti coinvolti nelle attività lavorative ai fini della prevenzione infortuni.

A parlare in questi termini della normativa europea sulla sicurezza delle macchine è uno dei documenti pubblicati dal Dipartimento Ingegneria Civile Edile Ambientale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, a cura di Fabrizio Leccisi in materia di “Organizzazione del cantiere”.

Il documento “La Direttiva Macchine (2006/42/CE)” ricorda che la Direttiva Macchine rappresenta dal punto di vista tecnico un insieme di regole per la produzione delle macchine e dal punto di vista amministrativo un insieme di adempimenti burocratici da soddisfare al momento della loro commercializzazione, prescrivendo che una macchina, per essere immessa sul mercato della UE, debba:
-         risultare accettabilmente sicura (rispetto dei Requisiti Essenziali di Sicurezza (RES), con analisi rischi e conseguente applicazione di norme tecniche);
-         essere costruita sulla base di un progetto tecnico disponibile in caso di contestazione (fascicolo tecnico);
-         essere riconoscibile (targa del costruttore e marcatura CE);
-         essere accompagnata da un libretto (manuale di istruzioni per l’uso e la manutenzione);
-         essere garantita da una assunzione di responsabilità da parte del fabbricante (dichiarazione di conformità).

E in relazione ai forti cambiamenti sia nell’ambito tecnologico che commerciale e al significativo aumento del numero di macchinari immessi sul mercato della UE provenienti da paesi extracomunitari, il Parlamento europeo ha emanato il 17 maggio 2006 la Direttiva 2006/42/CE (in sostituzione della precedente Direttiva 98/37/CE) includendo nell’ambito di applicazione attrezzature che ricadevano nell’ambito di altre Direttive di prodotto o che erano escluse dall’ambito di tutte le Direttive di prodotto, chiarendo le esclusioni di alcune macchine dall’ambito di applicazione della Direttiva ed inserendo RES relativi a nuove categorie di macchine e alla evoluzione tecnologica, rivedendo l’elenco delle macchine nell’Allegato IV (macchine con rischi specifici ed elevati), dettando nuovi criteri minimi, adeguandoli a quelli riportati nelle altre Direttive, per la notifica degli organismi e determinando le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della Direttiva.

Dunque la Direttiva Macchine è, in sostanza, un insieme di regole definite dalla CE, rivolto ai costruttori di macchine, che stabiliscono i RES relativi alla progettazione e alla costruzione delle macchine con il fine di migliorare la sicurezza dei prodotti immessi sul mercato europeo.
La Direttiva che avrebbe dovuto essere recepita entro il 29 giugno 2008 e applicata dal 29 dicembre 2009, in Italia è stata invece recepita con il D.Lgs. 17/10 entrato in vigore il 6 marzo 2010.

Il documento ricorda brevemente il campo di applicazione della nuova Direttiva Macchine che è stato riscritto per chiarire una serie di punti oggetto di interpretazioni disomogenee.
Il campo di applicazione comprende: macchine; attrezzature intercambiabili; componenti di sicurezza; accessori di sollevamento; catene, funi e cinghie; dispositivi amovibili di trasmissione meccanica; quasi-macchine. Esso è stato esteso a: ascensori da cantiere; apparecchi portatili a carica esplosiva (pistole sparachiodi, pistole per macellazione o per marchiare) fino al 2011; apparecchi di sollevamento per persone con velocità di spostamento non superiore a 0,15 m/s.

Dopo essersi soffermato sulla definizione di macchina e quasi macchina, il documento ricorda che nella parte introduttiva delle Direttive di prodotto sono posti i “considerando” che ne racchiudono la filosofia. I “considerando” non hanno forza legale e di solito non figurano nei recepimenti nazionali, tuttavia costituiscono un supporto per comprendere la Direttiva. La Corte di giustizia europea potrebbe tenere in considerazione i considerando per accertare le intenzioni dei legislatori.

Inoltre la Direttiva aggiunge due nuovi elementi chiave:
-         istituzione di un quadro giuridico entro il quale la sorveglianza del mercato possa svolgersi in modo armonioso;
-         attenzione verso il consumatore.

La Direttiva differenzia poi le macchine in due grandi macro gruppi:
-         macchine che devono essere certificate da Enti Terzi (macchine comprese nell’Allegato IV);
-         macchine che possono essere autocertificate dal fabbricante.
In particolare per le macchine comprese nell’Allegato IV la conformità ai RES è stabilita nel corso di procedure di valutazione eseguite da appositi Enti (Organismi Notificati).
Per tutte le altre è sufficiente redigere e conservare il Fascicolo Tecnico della Costruzione per le macchine e la Documentazione Tecnica pertinente per le quasi-macchine in accordo con quanto riportato nell’Allegato V della Direttiva. Tutte le macchine immesse sul mercato o modificate dopo l’entrata in vigore della Direttiva, devono riportare la marcatura CE ed essere accompagnate da appropriata documentazione. I prodotti non rispondenti ai RES della Direttiva non possono accedere al mercato europeo.

Il documento riporta poi le esclusioni dal campo di applicazione della Direttiva Macchine, e ricorda che, per ognuna delle possibili situazioni pericolose connesse al funzionamento di una macchina, la Direttiva fissa i principi da rispettare, cioè i RES, contenuti nell’Allegato I, che il fabbricante deve rispettare. Gli obblighi previsti dai RES si applicano se sussiste il rischio corrispondente.

In particolare l’Allegato I è suddiviso in 6 capitoli:
-         I - RES generali per tutte le macchine;
-         II - RES per talune categorie di macchine agroalimentari, portatili e per la lavorazione del legno e materie assimilate;
-         III - RES per ovviare a rischi particolari dovuti alla mobilità delle macchine;
-         IV - RES per prevenire i rischi particolari dovuti ad una operazione di sollevamento;
-         V - RES destinati ad essere utilizzati esclusivamente nei lavori sotterranei;
-         VI - RES per evitare i rischi particolari connessi al sollevamento ed allo spostamento delle persone.

Secondo la Direttiva, il fabbricante di una macchina ha l’obbligo di:
-         espletare le procedure di valutazione della conformità ai sensi dell’articolo 12;
-         accertare che la macchina soddisfi i RES dell’Allegato I;
-         costituire il Fascicolo Tecnico e fare in modo che sia disponibile, come da Allegato VIIA;
-         fornire il Manuale d’Uso e Manutenzione;
-         redigere la Dichiarazione di Conformità ai sensi dell’Allegato II;
-         apporre la Marcatura CE ai sensi dell’articolo 16.
In questo senso l’applicazione del marchio CE è l’ultima azione di una corretta produzione e dimostra che la macchina, sulla quale è apposto, è stata costruita nel rispetto di tutte le norme vigenti nell’ambito di utilizzo.

Concludiamo questa breve presentazione del documento (che affronta nel dettaglio anche il tema della marcatura CE, della dichiarazione di conformità e delle sanzioni previste dal D.Lgs. 17/10) ricordando che anche un soggetto che fabbrica una macchina per uso personale è considerato un fabbricante e deve assolvere a tutti gli obblighi di cui all’articolo 5 del D.Lgs. 17/10.
In questo caso, si segnala che anche se la macchina non viene immessa sul mercato, in quanto non è fornita dal fabbricante a un altro soggetto ma è utilizzata dal fabbricante stesso, tale macchina dovrà essere conforme alla Direttiva Macchine prima della messa in servizio. E questo vale analogamente per un utilizzatore che fabbrica un insieme di macchine per uso personale.

Il documento del Dipartimento Ingegneria Civile Edile Ambientale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II “La Direttiva Macchine (2006/42/CE)” a cura di Fabrizio Leccasi è scaricabile all’indirizzo:



IL PREPOSTO NELLE SENTENZE DELLA CASSAZIONE DEGLI ULTIMI MESI

Da: PuntoSicuro
25 febbraio 2016
di Anna Guardavilla

Gli obblighi informativi verso i lavoratori e di segnalazione verso i superiori, la tolleranza delle prassi pericolose quotidiane, la presenza sul luogo di lavoro, il coordinamento negli appalti, il perimetro delle sue responsabilità.

Il ruolo, gli obblighi e le responsabilità del preposto sono stati oggetto di numerose Sentenze emanate dalla Corte di Cassazione Penale negli ultimi due mesi, le quali hanno per lo più applicato l’articolo 19 del D.Lgs. 81/08 essendosi pronunciate sulle responsabilità connesse ad infortuni verificatisi dopo il 2008.

L’OBBLIGO DEL PREPOSTO DI INFORMARE I LAVORATORI ESPOSTI AL RISCHIO DI UN PERICOLO GRAVE E IMMEDIATO E DI SEGNALARE AL DATORE DI LAVORO LE SITUAZIONI DI PERICOLO

La Cassazione Penale con Sentenza n. 3626 del 27 gennaio 2016 ha confermato la condanna di un RSPP e di un preposto per il reato di lesioni personali colpose in danno di un lavoratore dipendente di una ditta produttrice di ceramiche.
L’infortunio era avvenuto durante un’operazione di smontaggio, pulitura e rimontaggio di un atomizzatore: in particolare il lavoratore, “dopo avere rimosso il materiale che occludeva la parte inferiore dell’apparecchiatura attraverso lo smontaggio del cono inferiore dello stesso, veniva attinto alla gamba sinistra dal detto cono, del peso di circa 50 chilogrammi, caduto sotto la spinta di un blocco di materiale atomizzato distaccatosi dalle pareti dell’atomizzatore”.

Riguardo ai due imputati, “al C.B. il reato é contestato nella sua qualità di preposto al reparto macinazione dello stabilimento, per aver sottostimato i rischi di caduta di materiale dall’interno dell’apparecchiatura e per avere omesso di dare al lavoratore informazioni sulle regole di prevenzione e protezione da osservare, in violazione dell’articolo 19, comma 1, del D.Lgs. 81/08; al C.D. il reato é contestato nella sua qualità di responsabile del servizio sicurezza sul lavoro dello stabilimento, per non avere individuato, nella valutazione dei rischi presso il reparto, specifiche e dettagliate misure di sicurezza da adottare durante le operazioni di pulizia e manutenzione dell’atomizzatore, in violazione dell’articolo 28, comma 2 lettera d), del D.Lgs. 81/08”.

Per quanto concerne la posizione del preposto, la sentenza specifica che “é corretta e adeguata la motivazione della sussistenza, in capo al C.B., del profilo della colpa, non avendo egli (mentre era impegnato accanto al lavoratore infortunatosi nell’esecuzione della manovra) effettuato il controllo delle pareti interne con la dovuta diligenza, posto che l’evento poi verificatosi testimonia che egli, ove mai avesse effettuato il detto controllo, vi avrebbe provveduto in modo negligente e dunque non rispondente alle regole cautelari, come tale caratterizzato quanto meno da colpa generica. E’ perciò corretto il ragionamento seguito dalla Corte territoriale laddove essa afferma che, qualora il controllo fosse stato eseguito in modo diligente, il C.B. avrebbe visto la presenza del blocco di materiale e avrebbe potuto quindi evitare che essa, cadendo, provocasse l’incidente”.

Sul tema relativo agli obblighi informativi (nei confronti dei lavoratori) e di segnalazione (nei confronti dei superiori) del preposto vi è un’altra interessante sentenza, di qualche giorno successiva alla precedente.

Infatti la Cassazione Penale con Sentenza n. 4340 del 2 febbraio 2016 ha giudicato le responsabilità di un RSPP e di un preposto alla direzione esecutiva e capocantiere, quest’ultimo “per non avere informato i lavoratori dello specifico rischio da sprofondamento e seppellimento e sulle precauzioni da prendere e per non avere segnalato al datore di lavoro o al dirigente la situazione di pericolo presente nel cantiere, ai sensi dell’articolo 119 del D.Lgs. 81/08”.

Riguardo alla posizione del capocantiere, secondo la Corte “deve respingersi la pur suggestiva tesi che vorrebbe il preposto esonerato, in questo caso, dagli obblighi di garanzia, non trattandosi di situazione di rischio accidentalmente sopravvenuta, da segnalare alla dirigenza e al datore di lavoro. Invero, qui non si è in presenza di un’inadeguatezza attinente al corredo strumentale d’azienda, già preventivamente nota al datore di lavoro, ma di una modalità di lavorazione, manifestamente in dispregio delle norme cautelari minime, che si rinnovava quotidianamente con la scelta di non proteggere le pareti degli scavi, via via aperti. Non si tratta, in definitiva, della decisione, presa una volta per tutte dal datore di lavoro o dalla dirigenza di impiegare un certo macchinario, ma del rinnovare ogni giorno una prassi lavorativa altamente rischiosa. Situazione, questa, che avrebbe imposto di segnalare ogni giorno (ammesso che la prassi lavorativa non dipenda dallo stesso preposto) la condizione di pericolo elettivo”.

Dunque “a prescindere dalla violazione del dovere di segnalazione (articolo 19, comma 1, lettera f) del D.Lgs. 81/08), risulta pienamente integrata la violazione del precetto che impone di avvisare i lavoratori esposti (articolo 19, comma 1, lettera d) del D.Lgs. 81/08)”.

Secondo la Cassazione il preposto non avrebbe dovuto avallare “condizioni [...] di altissimo rischio che, in ogni caso, al momento del suo allontanamento dal cantiere avrebbero dovuto consigliargli di ordinare l’integrale sospensione dei lavori. Conclusivamente [...] il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l’esecuzione sicché egli risponde delle lesioni occorse ai dipendenti (vedi Sentenza della Corte di Cassazione n. 9491 del 10 gennaio 2013)”.

IL PREPOSTO E IL COORDINAMENTO NEGLI APPALTI

Nella Sentenza della Cassazione Penale n. 1836 del 18 ottobre 16 è stata contestata a un datore di lavoro e a un preposto la responsabilità per un infortunio nel quale ha perso la vita un operaio investito dal carico di una gru che si era ribaltata all’interno dell’area di cantiere in cui egli stava lavorando.

In particolare erano stati ravvisati “profili di colpa generica (negligenza, imprudenza ed imperizia) e specifica, in relazione all’articolo 7 del D.Lgs .626/94 [ora articolo 26 del D.Lgs. 81/08], in quanto il datore di lavoro non aveva promosso quell’azione di cooperazione e coordinamento per l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa in corso, al fine di garantire che l’autogrù operasse in cantiere in condizioni di assoluta sicurezza, e il preposto perché non era intervenuto con azioni correttive nel momento in cui si era reso conto dell’assenza di tale coordinamento”.
La Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata con cui il Tribunale dichiarava di non doversi procedere e ha disposto la trasmissione degli atti al Tribunale per l’ulteriore corso.

IL PERIMETRO DELLA RESPONSABILITÀ DEL PREPOSTO IN RELAZIONE A QUELLA DEL DIRIGENTE: DOVE FINISCE LA RESPONSABILITA’ DEL CAPOCANTIERE E INIZIA QUELLA DEL DIRETTORE TECNICO

Con Sentenza n. 2539 del 21 gennaio 2016 la Cassazione Penale ha rigettato il ricorso del direttore tecnico di un’impresa edile riconosciuto responsabile per l’infortunio che era occorso al capocantiere “a seguito del cedimento, per eccessivo carico (costituito da una benna carica appoggiata per l’asportazione dei detriti), del solaio”.
Secondo la Corte l’imputato (direttore tecnico, dirigente ai fini della sicurezza) “avrebbe dovuto in questa sua veste vigilare le attività quotidianamente svolte e pretendere che gli operai lavorassero ancorati a funi di sicurezza”.

Il ricorrente (direttore tecnico) si difende affermando che “rivestendo l’infortunato la posizione di capo cantiere era tenuto a rispettare le misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro e dai responsabili aziendali, non avendo egli spazi di autonomia per disattenderle, sicché la sua condotta omissiva, del tutto imprevedibile nonostante la vigilanza [del direttore tecnico] aveva reso l’infortunio tutto dipendente dalle sue scelte”.

Ma secondo la Cassazione “tale tesi difensiva, già disattesa dai giudici di merito, è priva di pregio”. Infatti, ricorda la Sentenza, “in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascun garante risulta per intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, fino a che non si esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia: in particolare, il direttore tecnico e il capo cantiere, figure inquadrabili rispettivamente in quella del dirigente e del preposto, sono titolari di autonome posizioni di garanzia, seppure a distinti livelli di responsabilità, dell’obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro”.
Pertanto “ne consegue che la nomina di un capo cantiere non implica di per sé il trasferimento a quest’ultimo della sfera di responsabilità propria del ruolo dirigenziale del direttore tecnico (vedi Sentenze della Corte di Cassazione n. 46849 del 19 dicembre 2011 e n.8593 del 27 febbraio 2008)”.

E “dunque, se è vero che il capo cantiere è destinatario diretto dell’obbligo di verificare che le concrete modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative all’interno del cantiere rispettino le normative antinfortunistiche, deve rilevarsi che nel caso di specie il capocantiere ha affermato di aver deciso autonomamente che quel solaio poteva sopportare il carico della benna piena senza bisogno di particolare accorgimenti di sicurezza, compiendo così una valutazione che si è rivelata errata, e in ciò, ad avviso della Corte di merito si incentra la responsabilità del direttore tecnico, che quale direttore tecnico di cantiere aveva il preciso obbligo di verificare il minuto rispetto delle norme di sicurezza e di far osservare quanto previsto dal Piano Operativo di Sicurezza e dal piano delle demolizioni, e non rimettere agli stessi dipendenti la salvaguardia della loro incolumità”.

In conclusione “l’imputato avrebbe dovuto vigilare e tenere sotto controllo le attività quotidianamente svolte nel cantiere, evitando di consentire ai dipendenti di operare scelte spettanti alla dirigenza e di assumere iniziative operative proprie, e nella specie avrebbe dovuto pretendere e accertarsi che gli operai lavorassero ancorati alle funi di sicurezza come previsto dal ripetuto piano delle demolizioni e non rimanere assente dal cantiere, sebbene informato del lavoro da svolgere, senza aver imposto le osservanze di salvaguardia”.
 
L’ASSIDUITA’ DELLA PRESENZA DEL PREPOSTO SUI LUOGHI DI LAVORO

La Cassazione Penale con Sentenza n. 49361 del 15 dicembre 2015 ha confermato l’assoluzione del capo squadra di una ditta di Costruzioni nonché preposto alla sicurezza in cantiere “nell’esecuzione dei lavori edili commissionati dalla Raffineria di G.”, al quale era stato contestato il reato di lesioni personali ai danni di un lavoratore “per aver disposto l’esecuzione di lavorazioni contrastanti con il permesso di lavoro rilasciato dal responsabile della ditta committente, e per aver omesso di informare il lavoratore infortunato della presenza di zolfo liquido all’interno di una vasca di contenimento in prossimità del quale il lavoratore si era trovato a eseguire la propria prestazione, così propiziandone la caduta all’interno della vasca e le conseguenti gravi ustioni dallo stesso riportate”.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso avanzato dal Procuratore Generale in virtù della “sostanziale inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa” e di un altro testimone nonché in virtù del fatto che risultava sufficientemente provata la “abnormità della condotta di lavoro del prestatore infortunato”, elementi che sono “valsi a escludere l’acquisizione di una certezza, aldilà di ogni ragionevole dubbio, circa la colpevolezza dell’imputato”.

E’ interessante il punto della sentenza in cui la Cassazione sottolinea “l’impossibilità di radicare in capo all’imputato un obbligo di presenza costante e continua sui luoghi di lavoro [...], specie se riferiti a un comportamento, quale quello verosimilmente tenuto dalla persona offesa, del tutto estraneo alle quotidiani e abituali attività degli operai, avendo peraltro l’imputato in ogni caso comprovato il dato di una presenza comunque assidua sul cantiere, in coerenza a quanto confermato da altri testi escussi, oltre alla stessa persona offesa”.


IL PREPOSTO E LA TOLLERANZA DI PRASSI DI LAVORO PERICOLOSE IN ASSENZA DI PRESIDI ANTINFORTUNISTICI

Con Sentenza n. 4325 del 2 febbraio 2016 la Cassazione Penale ha confermato la condanna (per lesioni colpose) di un datore di lavoro e di un preposto i quali “nelle rispettive qualità hanno consentito che il lavoratore (e prima di lui altri operai), svolgesse un’attività di evidente pericolosità, senza mettere a sua disposizione l’unico mezzo di prevenzione sicuro, costituito dall’anello unico. Condotta questa aggravata dalla circostanza che la vittima era un mero apprendista al quale non era stata fornita una sufficiente formazione e informazione dei rischi del lavoro che svolgeva”.

Il datore di lavoro, in particolare, aveva “omesso di adottare tutti i provvedimenti tecnici organizzativi e procedurali necessari, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori dell’impresa, omettendo di scegliere una imbracatura e i relativi accessori di sollevamento appropriati alla natura, alla forma ed al volume di una gabbia in ferro sagomato e barre in acciaio lunga 12 m e del peso di 1.633 kg agganciata per mezzo di catene ad una gru a ponte”.

La Corte precisa che “dell’incidente dovevano rispondere il datore di lavoro e il preposto, considerato che il lavoratore non aveva avuto una sufficiente formazione e informazione, nonché per il fatto che in azienda erano tollerate e non controllate prassi di lavoro pericolose”.

E conclude: riguardo al “preposto, egli era garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, sovraintendendo alle attività, impartendo istruzioni, dirigendo gli operai, attuando quindi le direttive ricevute. In ragione della sua “prossimità” al rischio aveva tutta la possibilità di evitare l’evento controllando ed impedendo prassi di lavoro pericolose in assenza della presenza di presidi che garantissero la sicurezza del lavoro”.


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