NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
IL FILO ROSSO
DELL’AMIANTO E DI STEPHEN SCHMIDHEINY TRA ITALIA E AMERICA LATINA
Da:
Carmilla
25
settembre 2015
di
Fabrizio Lorusso
Lo
portavano sempre con sé i pompieri, dentro le loro uniformi. Isola tetti,
pareti e tubature. E’ fibroso, incombustibile, mortale. Non è un indovinello,
ma la descrizione dell’amianto o di una sua varietà, l’asbesto, un minerale di
fibre bianche, flessibili e assassine.
“Un
lavoro pericoloso, saldare a pochi centimetri da una cisterna di petrolio. Una
sola scintilla è in grado di innescare una bomba che può portarsi via una
raffineria.
Per
questo ti dicono di utilizzare quel telone grigio sporco, che è resistente alle
alte temperature perché prodotto con una sostanza leggera e indistruttibile:
l’amianto. Con quello le scintille rimangono prigioniere e tu rimani
prigioniero con loro e sotto il telone d’amianto respiri le sostanze liberate
dalla fusione di un elettrodo. Una sola fibra d’amianto e tra vent’anni sei morto”.
Così
scrive Alberto Prunetti, autore del romanzo, basato sulla vita di suo padre e
della sua famiglia “Amianto. Una storia operaia” (Edizinoi Alegre, Roma).
Ed
è la storia di milioni di lavoratori che, spesso ignari del pericolo o
manipolati dalle imprese che li contrattano, ancora oggi in decine di paesi nel
mondo inalano e portano su di sé o dentro di sé le fibre tossiche che provocano
mesotelioma, tumore del polmone e della laringe, o gravi patologie come la
asbestosi.
Parole
forse complicate ma cause semplici: se in casa stai lavando dei vestiti con dei
residui di amianto, potresti respirarne una fibra che mai più uscirà dal tuo
corpo e potrebbe produrre malattia e morte. Da un fascetto di minerale spesso
un millimetro si possono liberare cinquantamila microfibre respirabili.
L’amianto
è un minerale silicato, varietà di serpentino o di anfibolo, di composizione
varia, e in composizione con il cemento forma il fibrocemento, che è altresì un
marchio registrato, brevettato nel 1901 dall’austriaco Ludwig Hatschek come
“Eternit”, cioè eterno, data la sua resistenza. Ed eternamente sprigiona
polveri fatali quando è maneggiato o quando si logora. Tutti noi, per esempio
in Messico, dove vivo, e comunque ove non sono state proibite la sua estrazione
ed il suo uso, o dove non sono state realizzate le bonifiche, siamo in
pericolo. In terra azteca l’asbesto è onnipresente, sopra le nostre teste,
nelle pareti, a ricoprire tubi o nei negozi in cui ancora si commercializza. E’
rischioso lavorare a contatto con il minerale, vivere nei pressi degli stabilimenti
o avere lamine, tubature, pastiglie dei freni, giacche e guanti rivestiti di
amianto.
Paiono
ammonimenti scontati e banali in Italia o in Europa, ma suonano come
inquietanti novità in gran parte dell’America Latina.
ASBESTO:
AMERICA E RUSSIA
In
Europa la bonifica delle strutture infestate dall’amianto è durata anni, da
quando a poco a poco negli anni novanta il materiale cominciò a essere messo al
bando e poi, nel 2005, la misura fu estesa definitivamente a tutti gli stati
membri della UE. Oltre 50 paesi, includendo, nelle Americhe, il Cile,
l’Honduras, l’Uruguay e l’Argentina, hanno fatto la stessa cosa, vietandone
l’uso all’interno del proprio territorio.
Ma
le economie più importanti del continente americano e ai primi posti nel mondo,
come Stati Uniti, Canada e Brasile, pur avendone limitato gli usi e avendolo
proibito totalmente in alcuni stati, non l’hanno del tutto proibito e
continuano a promuoverne il commercio.
Infatti,
il Canada è uno dei primi esportatori dell’amianto bianco o crisotilo, gli
Stati Uniti sono molto attivi nell’import-export dell’amianto e il Brasile è il
terzo produttore mondiale e lo utilizza ampiamente in casa propria.
Gli
affari della fibra-killer vanno a gonfie vele anche per Russia, Cina,
Tailandia, India e Kazakistan, che sono tra i principali produttori.
In
Russia a Kazakistan le aziende leader sono rispettivamente la Orenburg Minerals
e la Kostanai
Minerals, controllate dalla britannica United Minerals Group
Limited dal 2003, secondo un report stilato dagli investitori di Kostanai
Minerals. Nel 2004 la compagnia ha una quota del mercato mondiale dell’asbesto
crisolito del 30% e cambia nome: diventa la Eurasia FM Consulting
Ltd, ma non è chiaro se tuttora l’impresa controlli Orenburg e Kostanai.
Cito
da un reportage del 2010 del progetto “Dangers in the Dust” :
Una
compagnia con sede a Cipro, la UniCredit Securities International Ltd (parte di
UniCredit, uno dei gruppi bancari più grandi del mondo, con 10.000 filiali in
50 paesi) possiede partecipazioni sia in Orenburg Minerals che nella Kostanai
Minerals per conto di clienti occulti, secondo quanto detto dal portavoce di
UniCredit, Andrea Morawski, a ICIJ (International Consortium of Investigative
Journalists) via mail. Morawski ha sottolineato, comunque: “Noi non esercitiamo
nessun controllo su Orenburg Minerals or Kostanai Minerals né siamo beneficiari
delle partecipazioni detenute. Fin dove siamo ragionevolmente a conoscenza, noi
non siamo stati beneficiari di nessuna commissione/profitto derivante da
attività legate all’asbesto”.
L’asbesto
non è vietato negli USA che, al contrario sono sempre stati un gran importatore
di amianto e il maggior consumatore mondiale del minerale, mentre hanno fornito
storicamente solo una piccola percentuale dell’output estratto globalmente.
Riporto
dal portale Asbestos.com (sezione “Storia”):
“Una
regolamentazione presentata dalla Agenzia per la Protezione Ambientale,
che bandiva la maggior parte dei prodotti contenenti asbesto, venne ribaltata
dalla Corte d’Appello del Quinto Circuito a New Orleans nel 1991 per le
pressioni dell’industria dell’asbesto. Anche se si tratta ancora di un bene
legale ed è presente in molti edifici e prodotti d’uso comune nelle case, l’uso
dell’asbesto è declinato considerabilmente negli Stati Uniti. L’ultima miniera
è stata chiusa nel 2002, mettendo fine a quasi un secolo di produzione di
asbesto nel Paese”.
Ad
ogni modo negli USA, secondo il US Geological Survey relativo al 2012, sono
entrate 1.060 tonnellate di asbesto dal Brasile. Fondamentalmente il commercio
e gli affari non si sono mai fermati, l’amianto di tipo bianco-crisolito è
ancora utilizzato nei materiali da costruzione, per l’isolamento, i freni delle
automobili e in altri prodotti, malgrado esistano alternative valide per il
settore manifatturiero. Di conseguenza una trentina di statunitensi muoiono
ogni giorno per le patologie ad esso relazionate.
Da
anni il Canada è additato come un “paese canaglia” per la sua reticenza
nell’includere l’amianto nella lista internazionale dei materiali pericolosi.
Le attività minerarie canadesi cominciarono intorno al 1850, quando furono
scoperti i giacimenti di crisolito a Thetford, e un quarto di secolo dopo si
estraeva una cinquantina di tonnellate nel Quebec. Negli anni ‘50 del secolo
scorso la cifra arrivò a oltre 900.000 tonnellate.
Nel
2011, la miniera “Jeffrey Mine in Asbestos” del Quebec è finita al centro
dell’attenzione dopo che il governo canadese aveva proposto un finanziamento da
58 milioni di dollari per riaprire la miniera. Siccome gli investitori privati
fallirono nel tentativo di raccogliere 25 milioni di dollari per la data del
primo luglio 2011, che era la deadline per acquisire la miniera, il
finanziamento del governo del Quebec è stato rimandato a tempo indefinito.
Questo spostamento è volto a dare più tempo agli investitori per raccogliere
fondi. Di nuovo nel 2011 il Canada ha deciso di non supportare la decisione di
aggiungere l’asbesto crisolito nella lista delle sostanze pericolose della
Convenzione di Rotterdam, un trattato internazionale che promuove unità e
responsabilità riguardo all’esportazione e importazione di sostanze e prodotti
chimici pericolosi.
Il
Canada è l’unica nazione del G8 a non aver votato per includere l’asbesto nel
trattato, un scelta che il governo ha sostenuto anche nel 2015. Internamente,
però, l’uso del minerale è vietato, ma questo non accade, ipocritamente, per la
sua produzione e commercializzazione all’estero. Ormai il paese non lo produce
più, anche se lo commercia: il valore dei prodotti importati contenenti amianto
è passato da 4,9 nel 2013 a
6 milioni di dollari nell’anno successivo, mentre le esportazioni di tali beni
sono state di 1,8 milioni di dollari. Nel 2013 la Russia, lo Zimbabwe, il
Kazakhstan, l’India, il Kyrgyzstan, il Vietnam e l’Ucraina si sono opposti in
blocco all’inclusione, mentre il Canada per la prima volta ha votato per la
neutralità.
Nonostante
la sua posizione oltranzista, il Canada oggi di fatto usa molto meno amianto di
prima, ma fino al 2011, anno di chiusura dell’ultima miniera, il Quebec da solo
era il primo produttore mondiale ed esportava il 96% del minerale grezzo
estratto nei paesi asiatici posizionandosi come superpotenza esportatrice del
minerale.
Le
prossime elezioni federali canadesi, previste per il 19 ottobre, potrebbero
segnare un punto di svolta in caso di vittoria del Liberal Party, da sempre
ambiguo sull’amianto ma ora riconvertitosi a una linea “verde”, o del New
Democratic Party, oggi all’opposizione e contrario a ogni tipo di asbesto,
mentre una vittoria del Conservative Party di Stephen Harper sarebbe un toccasana
per le lobby pro-amianto. Il Bloq Québéquois ha mostrato anch’esso non poche
ambiguità e tentennamenti, ma pare orientarsi verso l’estensione delle
restrizioni, così come il Green Party che da sempre combatte il blocco
estrattivista.
ITALIA,
BRASILE, MESSICO
Pure
l’Italia, in cui il divieto risale al 1992, continua a importarlo aggirando la
normativa. “Negli ultimi anni ne abbiamo importato 34 tonnellate e i numeri
sono indicati per difetto. I rumors si rincorrevano da mesi, la procura di
Torino ha aperto un fascicolo d’indagine, ma la conferma ufficiale è arrivata
solo qualche giorno fa alla Camera dei Deputati”, spiega Stefania Divertito su
BioEcoGeo.
Il
vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, del Movimento 5 Stelle, in
un’interpellanza sull’argomento ha ottenuto una risposta chiara ma incompleta
dal sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione: “No, noi non importiamo
amianto, ma manufatti contenenti amianto”. Cioè facciamo come Stati Uniti e Canada,
per esempio, e tra il 2011 e il 2014 ne sono entrate 34 tonnellate in prodotti
che non conosciamo, dato che il sottosegretario non ha fornito dettagli al
riguardo. Di Maio ha precisato che “secondo un documento dell’ente minerario
del Governo indiano, l’Italia nel 2011 e nel 2012 sarebbe risultato il maggiore
importatore al mondo di amianto con rispettivamente oltre 1.040 tonnellate e
2.000 tonnellate”.
Il
minerale sarebbe ancora usato nell’edilizia e anche da una partecipata di
Finmeccanica, la Agusta
Westland che fornisce elicotteri alle forze armate ed è
guidata da Daniele Romiti.
Insomma
lo sporco e mortifero business dell’amianto non molla la presa. E l’Italia è in
buona compagnia dato che, per esempio, anche altri paesi, come Australia, Gran
Bretagna, Svezia e Giappone, continuano comunque a commerciarlo malgrado il
divieto di utilizzarlo internamente.
In
Brasile si stima che l’amianto abbia ucciso 150.000 persone in 10 anni, cioè 15.000 in media all’anno,
cifra che equivale a circa il 15% del totale mondiale. Nel gigante sudamericano
operano 16 grandi aziende che “nelle elezioni finanziano trasversalmente tutti
i partiti politici”, denuncia Fernanda Giannasi, ex supervisore del Ministério
do Trabalho e attivista anti-amianto.
I
militanti come lei hanno sia i mass media che l’industria contro, visto che
cercano d’informare la popolazione sui rischi e le complicità
politico-imprenditoriali del settore in un intorno ostile e poco sensibile alla
tematica. Se ne parla ancora poco e il pericolo non viene eliminato, però la
sua percezione sì.
In
Messico il mesotelioma è aumentato dai 23 casi del 1979 ai 220 del 2010, ma c’è
una sottostima probabile del 70% che porterebbe la media annua a 500 casi e,
secondo altre stime, anche fino a 1.500. La “cifra sommersa” si relaziona ai
casi in cui non si diagnostica la malattia o non risulta dai documenti relativi
al decesso, anche perché è conveniente non riconoscere le patologie come
“lavorative”. L’asbesto è presente in innumerevoli strutture nel cuore delle città.
La CTM
(Confederazione dei Lavoratori Messicani, sindacato pro-governativo) ha
addirittura difeso l’uso del materiale, dato che il settore impiegherebbe
8-10.000 persone e non ci sarebbero prove di decessi per mesotelioma, il che è
falso e nasconde il problema.
Insomma,
è come tornare indietro di due o tre decenni almeno. L’estrazione mondiale di
amianto è stata nel 2013 di 2,1 milioni di tonnellate e dal 1995 s’è mantenuta
abbastanza stabile, tra le 2 e le 3 tonnellate, con un totale di oltre 1800 aziende
che lo utilizzano.
Anche
se in Messico non esiste una vera e propria associazione di vittime
dell’amianto o un movimento significativo contro l’uso del minerale, per cui lo
Stato è sostanzialmente indifferente all’argomento, l’organizzazione messicana
Ayuda Mesotelioma denuncia e lotta da 5 anni, vale a dire da quando le due
fondatrici, Sharon Rapoport e sua sorella Liora, hanno visto come loro padre
s’ammalava gravemente.
In
cinque decenni il Messico ha importato oltre 500.000 tonnellate d’asbesto e
solo nella capitale lo utilizzano 42 imprese. Qui si può fare, maneggiarlo è
legale, anche se eticamente deplorabile: i proventi per le quantità importate e
processate internamente sono raddoppiate tra il 2011 e il 2012 passando da 9 a 18 milioni di dollari.
AMIANTO
MONDO
“A
eccezione della polvere da sparo, l’amianto è la sostanza più immorale con la
quale si sia fatta lavorare la gente; le forze sinistre che ottengono profitti
dall’amianto sacrificano gustosamente la salute dei lavoratori in cambio dei
benefici delle imprese”, ha dichiarato l’ex eurodeputato olandese Remi Poppe. I
sintomi del mesotelioma compaiono tra 15 e 50 anni dopo l’inalazione delle
microfibre e non esiste realmente nessun livello “sicuro” di esposizione.
Secondo
l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ogni anno muoiono 107.000 persone
in seguito a malattie contratte per il contatto con l’amianto. Per lo stesso
motivo nel XX secolo le morti premature furono 10 milioni e s’ammalarono 100
milioni di persone. Oggi 125 milioni di lavoratori rimangono esposti
direttamente al minerale.
La Commissione
Federale per la
Protezione dei Rischi Sanitari del Ministero della Salute
messicano ha riconosciuto la sua tossicità, ma s’è limitata a suggerire che “le
aziende ne controllino l’uso”.
La Legge della Salute di
Città del Messico parla di “precauzioni” da prendere sull’amianto, ma non lo
vieta.
Secondo
i dati dell’istituto di statistica nazionale il 21% delle case messicane ha un
tetto di lamine metalliche, cartone o asbesto e l’1% ha pareti di cartone,
amianto, fusti di piante, bambù o palma. Nel 2014 sono state concesse delle
quote del Fondo di Apporto per la Struttura Sociale per strutture ad uso abitativo
nel quartiere periferico di Iztapalapa e le regole stabilivano che per essere beneficiari
del programma “i pavimenti, i muri e/o i soffitti devono essere di stanze da
letto o cucine all’interno della casa in lamina di cartone, metallica, di
amianto o di materiale di scarto”. In sostituzione, secondo la Gazzetta Ufficiale
della capitale, si prevedeva di costruire pavimenti, tetti e muri di
fibrocemento, quindi di Eternit!
La OMS, al contrario, ha
chiesto: di eliminare l’uso di ogni tipologia di asbesto, compreso quello
bianco o crisolito che le lobby del settore pretendono di presentare come
“pulito”; apportare informazioni su soluzioni per sostituirlo con prodotti
sicuri; sviluppare meccanismi economici e tecnologici al riguardo; evitare
l’esposizione durante il suo uso e il suo smaltimento; migliorare la diagnosi
precoce, il trattamento e la riabilitazione medica e sociale dei malati
dell’asbesto; registrare le persone esposte attualmente o nel passato.
IL
“GURU” STEPHEN SCHMIDHEINY, IL COSTA RICA, L’AMERICA LATINA
La
filiera tossica dell’amianto passa anche per il Costa Rica, la cosiddetta
“Svizzera del Centroamerica”.
La Garita è un piccolo
paradiso, un angolo tropicale nel centro del paese vicino alla città di
Alajuela. Le strutture della INCAE Business School, la miglior scuola di
business latinoamericana, spiccano tra le palme, le fattorie, una placida
strada a due corsie e una distesa di prati verdissimi.
INCAE
è famosa per il suo approccio basato sullo sviluppo sostenibile e l’etica
d’impresa. Possiede un campus in Nicaragua e uno in Costa Rica. E’ un progetto
per l’insegnamento e la ricerca in gestione d’impresa che nasce nel 1964 sotto
l’egida della Allianza per il Progresso, lanciata in funziona anti-cubana dal
presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy, dalla HBS (Harvard Business
School), dell’agenzia US Aid e dei capi di stato e gli imprenditori di sei
paesi centroamericani (Guatemala, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Costa Rica
e Panama).
Negli
anni ‘90 la sua storia s’incrocia con quella di un impresario che, soprattutto
nelle Americhe, s’è costruito una fama di irriducibile guru dello sviluppo
sostenibile, mentre in Europa è ben noto come il “Re dell’Eternit”: Stephen
Schmidheiny. Uomo d’affari per vocazione ed eredità familiare (cementera
Holcim, Wild-Leitz di strumenti ottici, l’elettrotecnica BBC Brown Boveri e la
multinazionale Eternit), è nato a Heerbrugg, Svizzera, nel 1947, e ha ammassato
una fortuna con il business dell’amianto. Il suo record personale è macchiato
da processi giudiziari controversi e accuse pesantissime.
AVINA,
ASHOKA E LO SPIRITO DEL FILANTROCAPITALISMO
La
fondazione AVINA, creata dall’impresario nel 1994 e attiva in 21 paesi
latinoamericani, collabora da tempo con la scuola e nel 1996 Schmidheiny, che è
stato amministratore di Eternit e oggi siede nel consiglio direttivo di INCAE,
ha partecipato alla creazione del Centro Latinoamericano per la Competitività e lo
Sviluppo sostenibile dell’università, il CLACDS.
Ci
sono altre organizzazioni senza fini di lucro fondate dal magnate svizzero: per
esempio Fundes (1984) e il fidecommesso Viva Trust (2003) su cui si sostiene
AVINA. In questo è confluito il valore della vendita della partecipazione dello
svizzero in Grupo Nueva, consorzio specializzato nel business forestale e dei
derivati del legno che ha spostato la sua sede principale a San José, Costa
Rica, nel 1999.
L’imprenditore
ha venduto anche le sue azioni del gruppo Eternit alla fine degli anni ‘80. Le
fondazioni, a partire dai trasferimenti di capitale dello svizzero, si sono
costituite come enti autonomi dai suoi precedenti “asset” e patrimoni d’impresa
e promuovono attività istituzionali, come la rete SEKN (Social Enterprise
Knowledge Network), di cui fa parte INCAE, filantropiche e anche alleanze su
temi socio-ambientali: acqua, città sostenibili, energia, industrie estrattive,
innovazione politica, riciclaggio e cambiamento climatico.
Esistono
forti movimenti d’opposizione che applicano l’etichetta “filantrocapitalismo”
quando si parla di AVINA e della sua alleata Ashoka , fondazione filantropica
statunitense presente in 70 paesi. “Il capitale cerca di appropriarsi dei
movimenti ecologisti ragionevoli per riconvertirli in capitalismi verdi
addomesticati o forme di business con l’esaurimento del pianeta”, ha commentato
al riguardo l’ingegnere attivista spagnolo Pedro Prieto di ASPO (Asociación
para el Estudio del Auge del Petróleo y del Gas ).
Perché?
“Gli imprenditori sociali lavorano con quelle popolazioni e la loro attività
consiste nell’avvicinarle alle multinazionali mentre salvaguardano gli
interessi di queste”, ha detto María Zapata, direttrice di Ashoka in Spagna.
In
un’intervista col portale spagnolo Rebelión, il ricercatore Paco Puche racconta
che le fondazioni si infiltrano nei movimenti attraverso la “cooptazione di
leader” e che “AVINA è vincolata al magnate svizzero Schmidheiny, che deve la
sua fortuna al criminale business dell’amianto. Diciamo che tutti quelli che
hanno ricevuto denaro e altri benefici da questa fondazione (e dopo averla
conosciuta, non le hanno rifiutate) si portano dietro la maledizione della polvere
dell’amianto nelle viscere”.
PROCESSO
ETERNIT
Nel
febbraio 2013 il tribunale di Torino ha condannato Schmidheiny e il suo ex
socio nella multinazionale Eternit Group, il barone belga Louis De Cartier, di
92 anni d’età in quel momento, a 16 anni di prigione per disastro doloso e
rimozione di misure contro gli infortuni: la sentenza era attesa dai familiari
di 3.000 vittime.
Il
3 giugno 2013 in
appello la condanna è stata aumentata a 18 anni di reclusione, ma il nobile
belga era morto pochi giorni prima. Lo svizzero “Re dell’Eternit” è stato
condannato per le sue responsabilità come amministratore dell’azienda nel
decennio 1976-1986 e assolto da altri capi d’accusa per il periodo 1966-1975.
Le cause dell’asbestosi e del mesotelioma erano già state scoperte negli anni
‘60 e, dopo quel decennio, i due magnati si sono avvicendati nella gestione
dell’azienda.
Nonostante
tutto, il business di Eternit continuò, per cui la condanna parla di “dolo”:
gli imputati avrebbero nascosto consapevolmente gli effetti cancerogeni
dell’amianto.
Il
20 novembre 2014 la Corte
di Cassazione, nell’ultimo livello di giudizio, ha annullato la sentenza
precedente argomentando che i reati sono stati commessi, ma che è sopraggiunta
la prescrizione. E’ stato preso come inizio dei termini per la prescrizione
l’anno 1986, quando Eternit ha dichiarato il fallimento, e la decisione è
polemica, visto che il disastro ambientale ancora continua a succedere, non
s’interrompe con il fallimento dell’azienda.
E’
uno schiaffo a vittime, familiari e alla società intera. La giustizia
s’allontana insieme alla possibilità di congrui risarcimenti.
Nel
maggio 2015 s’è aperto il processo “Eternit Bis”: Schmidheiny non è più
accusato di “disastro” ma di omicidio doloso aggravato di 258 persone, ex impiegati
di Eternit o abitanti di Casale Monferrato, uno dei comuni in cui operava
l’impresa che sono deceduti tra il 1989 e il 2014 per mesotelioma pleurico.
Dal
canto suo, il magnate sulla sua pagina web si presenta come “pioniere
nell’eliminazione dell’asbesto nell’industria manifatturiera”. I magistrati di
Torino considerano come aggravante il fatto che l’imprenditore avrebbe commesso
il reato esclusivamente per “fini di lucro” e “in modo insidioso”, cioè avrebbe
occultato ai lavoratori e ai cittadini l’informazione sui rischi che correvano,
promuovendo una “sistematica e prolungata opera di disinformazione”.
A
fine luglio gli atti del processo sono stati inviati alla Consulta e il
procedimento è stato sospeso in attesa della decisione della Corte circa le
eccezioni di costituzionalità sollevate dai legali di Stephen Schmideheiny in
base al principio del “Ne bis in ibidem”, secondo cui nessuno può essere
giudicato due volte per lo stesso reato.
Nel
frattempo i Pubblici Ministeri stanno integrando altri 94 casi di morti legate
all’amianto da contestare al manager svizzero, nel caso in cui la Corte Costituzionale
accolga le richieste degli avvocati difensori.
L’ECATOMBE
CONTINUA
Purtroppo
l’ecatombe dell’amianto durerà ancora per decenni e la tendenza, già in atto
almeno da una ventina d’anni, è quella di un graduale spostamento dei rischi e
dell’uso del minerale verso i paesi in via di sviluppo.
Dunque
la lotta per la sua messa al bando e la riparazione del danno provocato a
milioni di vittime, pur con difficoltà e differenti percorsi più o meno avviati
oppure solo incipienti, tende anch’essa a globalizzarsi, passando dall’Europa
all’America Latina e agli altri continenti.
LA RESPONSABILITA’ DEL CAPOCANTIERE E RAPPRESENTANTE DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA PER
INFORTUNIO DEL LAVORATORE
Da:
PuntoSicuro
05
ottobre 2015
di
Gerardo Porreca
Il
capocantiere, considerata la sua qualifica e la sua presenza quotidiana in
cantiere, è tenuto a un’attività di vigilanza sulla corretta esecuzione delle
opere e sulla predisposizione delle misure per la sicurezza dei lavoratori.
E’
uno di quei casi quello al quale fa riferimento questa sentenza della Corte di
Cassazione nei quali per un infortunio accaduto in un cantiere edile è stata
individuata una esclusiva responsabilità del capocantiere (e Rappresentante dei
Lavoratori per la Sicurezza
- RLS) mentre è stato assolto dalle accuse formulategli il rappresentante
legale dell’impresa per conto della quale lo stesso operava.
Il
capocantiere, ha sostenuto infatti la suprema Corte, considerata la sua
specifica qualifica e la sua presenza quotidiana in cantiere, è tenuto a una
attività di vigilanza sulla corretta esecuzione delle opere, sul rispetto delle
condizioni di sicurezza e sulla corretta predisposizione delle opere
provvisionali finalizzate a tutelare la sicurezza dei lavoratori e viene meno
questi ai suoi precisi obblighi impostigli dalla sua qualifica se, come nel
caso in esame, non provvede appunto a una attività di verifica della regolarità
delle protezioni di sicurezza installate in cantiere.
La Corte di Appello, in
parziale riforma della sentenza di condanna resa dal Tribunale ha assolto il
rappresentante legale di un’impresa edile dal reato ascrittogli mentre ha
confermata la condanna inflitta dal Tribunale stesso al responsabile del
cantiere e RLS dipendente dell’impresa medesima chiamato a rispondere del
delitto di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme
antinfortunistiche, per aver contribuito a provocare la caduta da un ponte su
cavalletti di un lavoratore dipendente a seguito della quale lo stesso è
deceduto.
Con
riguardo, in particolare, alla posizione di garanzia assunta dal responsabile
del cantiere e RLS la Corte
di Appello ha rilevato che lo stesso era capocantiere per l’esecuzione del
lavori e ha osservato che non vi era alcun dubbio che questi avesse l’obbligo
di vigilare sulla corretta predisposizione delle opere provvisionali, nel
rispetto delle misure volte a tutelare la sicurezza dei lavoratori, tenuto
conto delle mansioni dallo stesso in concreto svolte.
Avverso
la sentenza della Corte di Appello l’imputato [il capocantiere] ha proposto
ricorso per Cassazione a mezzo del proprio difensore adducendo diverse motivazioni.
Con un primo motivo il ricorrente ha lamentato che la Corte di Appello,
contraddittoriamente, dopo aver affermato che il lavoratore infortunato fosse
stato informato e formato rispetto ai rischi inerenti l’attività, ha
individuata invece la sua responsabilità per avere omesso di informare il
lavoratore stesso dei rischi connessi alla medesima attività. Un’altra
contraddittorietà il ricorrente l’ha individuata in riferimento alla
contestazione elevata nei suoi confronti per non avere vigilato sulla corretta
messa in opera dei presidi di sicurezza ed ha fatto osservare, altresì, che la Corte di Appello ha mandato
assolto il coimputato rappresentante legale dell’impresa al quale erano state
contestate le medesime violazioni. Il ricorrente ha rilevato inoltre che il
ponteggio dal quale era caduto l’infortunato era stato predisposto dallo stesso
lavoratore il giorno dell’evento e che lo stesso era stato informato sul
contenuto del documento di sicurezza e avrebbe dovuto segnalargli le anomalia
riscontrate.
Come
altri motivi il ricorrente ha lamentato l’erronea applicazione della legge
penale in quanto non era stata avviata alcuna azione nei confronti di terzi
soggetti, tra i quali il Coordinatore per la Sicurezza in fase di
Esecuzione (CSE), rimasti estranei al processo nonché il mancato riconoscimento
dell’intervenuto decorso del termine di prescrizione del reato.
Sulle
motivazioni del ricorso la Corte
di Cassazione ha fatto dei rilievi così come di seguito indicati.
Sulla
posizione di garanzia dell’imputato capocantiere per l’esecuzione dei lavori la
suprema Corte fa fatto notare che giustamente la Corte territoriale ha tenuto
in considerazione che la sua quotidiana presenza in cantiere gli imponeva una
attenta vigilanza sulla corretta esecuzione delle opere e sul rispetto delle
condizioni di sicurezza. La
Corte territoriale ha riferito, infatti, che lo stesso si
recava quotidianamente in cantiere, agendo a stretto contatto con gli operai e
che, il giorno in cui il sinistro ebbe verificarsi era presente in cantiere e
aveva visionato il ponteggio che il lavoratore aveva predisposto, senza
ravvisarvi alcuna anomalia.
La
stessa Corte distrettuale ha sottolineato che il ponteggio, contrariamente a
quanto previsto espressamente dal piano di sicurezza, aveva una larghezza
inferiore a 0,9 m,
che le tavole non erano fissate tra loro e neppure fissate ai cavalletti di
appoggio, che le parti a sbalzo delle tavole erano di lunghezza superiore a 20 cm e che mancava il
fermapiede alto almeno 20 cm.
Quindi,
secondo la Sezione IV
della Cassazione, sulla scorta di tali rilievi, del tutto logicamente la Corte di Appello ha concluso
che l’imputato era venuto meno ai precisi obblighi impostigli sia dalla
qualifica di capo cantiere, sia dalla effettiva presenza in cantiere e
dall’intervenuta visione del ponteggio, che era stato montato in modo
irregolare dallo stesso lavoratore di poi deceduto.
Per
quanto concerne poi il profilo di colpa ascrivibile allo stesso lavoratore, la Corte suprema ha chiarito
che nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di
lavoro, può essere attribuita al comportamento negligente del lavoratore
infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da
ricondurre comunque alla insufficienza di quelle cautele che, se adottate,
sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato
comportamento imprudente.
Le
norme antinfortunistiche, ha precisato ancora la Sezione IV della
Cassazione, sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro,
anche in considerazione della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori
effettuano le prestazioni. Nel campo della sicurezza del lavoro, gli obblighi
di vigilanza che gravano sul datore di lavoro risultano funzionali anche rispetto
alla possibilità che il lavoratore si dimostri imprudente o negligente verso la
propria incolumità e può escludersi l’esistenza del rapporto di causalità
unicamente nei casi in cui sia provata l’abnormità del comportamento del
lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato
causa all’evento.
La
giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato che l’eventuale colpa
concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i
soggetti aventi l’obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili
della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica.
Per
quanto riguarda quindi il mancato esercizio dell’azione penale nei riguardi di
terzi soggetti che il ricorrente ha ritenuto a loro volta titolari di posizione
di garanzia la Cassazione
ha richiamato al riguardo il consolidato orientamento espresso dalla
giurisprudenza di legittimità secondo cui comunque, in caso di pluralità di
posizioni di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo
giuridico di impedire l’evento.
La Sentenza n. 11135 del 16
marzo 2015 della Corte di Cassazione Penale Sezione IV è consultabile
all’indirizzo:
I QUESITI SUL
DECRETO 81: ADDESTRAMENTO ALL’USO DEI DPI
Da:
PuntoSicuro
07
ottobre 2015
Gerardo
Porreca
Riportiamo
un quesito sull’addestramento dei lavoratori per l’utilizzo dei Dispositivi di
Protezione Individuale di terza categoria, con risposta a cura di Gerardo
Porreca (www.porreca.it).
QUESITO
Un
lavoratore che deve essere adibito all’utilizzo di una piattaforma di lavoro
elevabile che ha frequentato il corso previsto dall’Accordo della Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di
Trento e Bolzano (più brevemente Conferenza Stato Regioni) del 22/02/12,
specifico per tale tipo di attrezzature, deve svolgere anche il corso per
l’utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale di III categoria di cui
all’articolo 77 comma 5 del D.Lgs. 81/08 [i cosiddetti DPI salvavita come, in
questo caso le imbragature anticaduta]?
RISPOSTA
Il
quesito, finalizzato a conoscere se chi ha frequentato il corso per
l’abilitazione alla conduzione di una piattaforma di lavoro elevabile (nel
seguito indicata più brevemente come PLE), così come previsto dall’Accordo
Stato Regioni del 22/02/12, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12/03/12 ed
entrato in vigore dal 12/03/13, e relativo alla conduzione di particolari
attrezzature di lavoro di cui all’articolo 73 comma 5 del D.Lgs. 81/08 deve
comunque essere stato addestrato all’uso dei Dispositivi di Protezione
Individuale (DPI) contro la caduta dall’alto (cintura di sicurezza), richiede un
esame delle normative applicabili al caso in esame e alle quali fanno capo gli
obblighi corrispondenti.
L’obbligo
dell’addestramento dei lavoratori all’uso di un DPI di III categoria, alla
quale appartiene la cintura di sicurezza, è stato stabilito con l’articolo 77
del D.Lgs. 81/08, contenente gli obblighi del datore di lavoro per quanto
riguarda la scelta, la fornitura, l’utilizzo, la manutenzione, l’informazione e
la formazione circa l’uso corretto e l’utilizzo pratico dei DPI in generale, il
quale, al comma 5 lettera a), ha stabilito in particolare che “in ogni caso
l’addestramento è indispensabile per ogni DPI che, ai sensi del D.Lgs. 475/92,
appartenga alla terza categoria”.
L’obbligo
dell’abilitazione dei lavoratori addetti a operare sulle attrezzature che
richiedono per il loro impiego conoscenze e responsabilità particolari in
relazione ai rischi specifici, alle quali appartengono le piattaforme di lavoro
elevabili di cui al quesito, è stato invece stabilito con l’articolo 71 comma 7
del D.Lgs. 81/08 secondo il quale l’uso di tali attrezzature deve essere
riservato da parte del datore di lavoro a lavoratori allo scopo incaricati che
abbiano appunto ricevuto una informazione, formazione ed addestramento
adeguati, obbligo che è stato ribadito anche nel comma 4 dell’articolo 73 dello
stesso Decreto relativo agli adempimenti sulla formazione dei lavoratori delle
attrezzature di lavoro in generale. Con lo stesso articolo 73 il legislatore,
al comma 5, ha
assegnato alla Conferenza Stato Regioni il compito di individuare quelle
attrezzature di lavoro da considerarsi particolari per le quali viene richiesta
una abilitazione da parte degli operatori oltre che di fissare le modalità per
il riconoscimento di tale abilitazione e di individuare i soggetti formatori,
la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione
stessa, cosa che la stessa Conferenza Stato Regioni ha fatto emanando il citato
Accordo raggiunto nella seduta del 22/02/12.
In
tale ultimo Accordo al punto A) dell’Allegato A in corrispondenza della lettera
a) sono state riportate e definite appunto le “piattaforme di lavoro mobili
elevabili” il cui programma di abilitazione è consultabile nell’Allegato III
dello stesso Accordo. Tale programma si sviluppa in tre moduli e più
precisamente in un modulo giuridico-normativo della durata di 1 ora, in un
modulo tecnico della durata di 3 ore nonché in un modulo pratico della durata
di 4 ore per l’abilitazione all’uso delle PLE che operano con l’uso degli
stabilizzatori e della durata di 6 ore per l’abilitazione all’uso delle PLE che
operano senza l’uso degli stabilizzatori. Dall’esame del programma del modulo
tecnico relativo all’utilizzo delle PLE emerge nel punto 2.5 che nel relativo
corso di abilitazione devono essere indicati ed illustrati i DPI specifici da
utilizzare nell’operare con tali attrezzature e più precisamente “i caschi, le
imbracature, il cordino di trattenuta e le relative modalità di utilizzo
inclusi i punti di aggancio in piattaforma”, ma nel modulo pratico fra le
esercitazioni operative non risultano riportate, si fa osservare, delle
esercitazioni relative all’utilizzo delle imbracature di sicurezza a protezione
dalla caduta dall’alto il cui uso è comunque obbligatorio nell’utilizzo di tali
attrezzature.
Ciò
detto, nel premettere che l’addestramento alla conduzione delle PLE e quello
all’uso dei DPI sono due cose completamente diverse essendo l’uno finalizzato a
saper utilizzare in sicurezza la particolare attrezzatura di lavoro e l’altra
invece finalizzato a sapere usare la cintura di sicurezza, si fa presente, in
risposta al quesito formulato, che chi ha frequentato il corso di abilitazione
all’uso delle PLE non è affatto esonerato dall’addestramento all’uso della
cintura di sicurezza anzi al contrario chi vuole frequentare il corso di
abilitazione per le PLE dovrà dimostrare quale requisito per l’iscrizione allo
stesso di essere già stato addestrato nell’uso di tale DPI di terza categoria.
Si è a conoscenza a tal proposito che alcuni centri di formazione, nel caso in
cui chi si iscrive non sia già in possesso di un addestramento sull’utilizzo
della cintura di sicurezza provvedono a integrare il programma di abilitazione
proprio per fornire tale formazione specifica.
Ciò
non avviene ad esempio, per fare un confronto, per coloro che hanno frequentato
invece il corso per il montaggio e smontaggio di ponteggi o per l’uso dei
sistemi di accesso e posizionamento mediante funi di cui all’Accordo
Stato–Regioni del 26/01/06, recepito dal legislatore e riportato nell’Allegato
XXI del D. Lgs. 81/08, in quanto nel programma dei corsi destinati a tali
operatori è prevista una formazione specifica sulle modalità di utilizzo delle
cinture di sicurezza il cui uso è obbligatorio anche per coloro che sono
addetti a tali operazioni.
L’INFORTUNIO IN
ITINERE: LA NORMATIVA DI
LEGGE E IL CONTRIBUTO INTERPRETATIVO DELLA GIURISPRUDENZA
Da
Studio Cataldi
6
ottobre 2015
La
salute e la sicurezza del lavoratore assumono, nel nostro ordinamento, una
rilevanza fondamentale, tanto che un apposito istituto, l’INAIL, ha la funzione
primaria di indennizzare il lavoratore dai danni che possono derivargli dallo
svolgimento dell’attività lavorativa.
Tra
le tutele apprestate dal predetto istituto, di particolare interesse sono
quelle poste nei confronti degli infortuni che possono verificarsi sul luogo di
lavoro.
L’importanza
di garantire il lavoratore rispetto agli infortuni è tale che il nostro
ordinamento considera come verificatosi durante il lavoro anche il cosiddetto
infortunio in itinere, ovverosia quello che avviene durante il tragitto
compiuto per raggiungere, dalla propria abitazione, il luogo di lavoro o quello
compiuto per recarsi da un luogo di lavoro a un altro o, infine, quello
necessario per la consumazione dei pasti in assenza di mensa aziendale.
IL
D.LGS. N. 38/2000
Più
nel dettaglio, l’inserimento dell’infortunio in itinere tra le tutele
assicurative apprestate dall’INAIL è avvenuto con la riforma apportata nel
nostro ordinamento dal Decreto Legislativo numero 38 del 2000.
Con
tale intervento legislativo, in sostanza, si è previsto che l’assicurazione
contro gli infortuni sul lavoro comprende anche l’infortunio in itinere, così
come sopra individuato, salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto
indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, chiarendo che
l’interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a
cause di forza maggiore, a esigenze essenziali e improrogabili o
all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti.
Si
è inoltre specificato che l’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del
mezzo di trasporto privato, solo nel caso in cui esso sia necessitato, purché
il conducente sia provvisto di abilitazione alla guida e a esclusione del caso
in cui gli infortuni siano cagionati dall’abuso di alcolici e di psicofarmaci o
dall’uso non terapeutico di stupefacenti ed allucinogeni.
LA
GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE E LA VIOLAZIONE DELLE
NORME DEL CODICE DELLA STRADA
Nell’esatta
ricostruzione della fattispecie dell’infortunio in itinere, con particolare
riferimento ai casi in cui esso è concretamente configurabile, un ruolo
particolare è stato svolto dalla giurisprudenza.
Ad
esempio, con la recente Sentenza n. 3292 del 18 febbraio 2015, la Corte di Cassazione ha
chiarito che il rischio elettivo, idoneo a escludere l’indennizzabilità
dell’infortunio, va valutato con particolare rigore rispetto a quanto
effettuato con riferimento all’infortunio che si verifica durante la normale
attività lavorativa, con la conseguenza di doversi considerare come idonea a
escludere la tutela assicurativa anche la violazione di norme fondamentali del
codice della strada.
L’UTILIZZO
DEL MEZZO PRIVATO
Di
certo, però, l’aspetto rispetto al quale la giurisprudenza ha rivestito il
ruolo maggiormente importante, a causa dell’indeterminatezza della normativa di
legge, è quello relativo all’indennizzabilità dell’infortunio in caso di
utilizzo del mezzo proprio.
Interessante,
ad esempio, è la Sentenza
n. 869 del 2015 del TAR della Sardegna, secondo la quale l’infortunio in
itinere subito dal lavoratore che utilizza il mezzo proprio può essere
indennizzato solo al ricorrere di tre condizioni.
Innanzitutto,
il percorso seguito e l’evento debbono essere in rapporto causale, ovverosia il
percorso deve costituire per l’infortunato quello “normale per recarsi al
lavoro” e per tornare alla propria abitazione.
In
secondo luogo tra l’itinerario seguito e l’attività lavorativa deve sussistere
un nesso almeno occasionale e il primo non deve essere percorso dal lavoratore
solo per ragioni personali o in orari non collegabili alla seconda.
Infine,
la necessità dell’uso del veicolo privato deve essere accertata tenendo in
considerazione la compatibilità degli orari dei servizi pubblici rispetto
all’orario di lavoro dell’assicurato o la sicura non fruibilità di questi in
relazione all’impossibilità di determinare la durata esatta della prestazione
lavorativa.
In
materia, di particolare rilievo è poi la Sentenza della Cassazione numero 22154 del 2014,
con la quale si è chiarito che l’utilizzo del mezzo proprio deve essere
valutato con particolare rigore, considerando che lo strumento normale per la
mobilita delle persone è costituito dal mezzo di trasporto pubblico, che è
quest’ultimo a comportare il minor grado di esposizione al rischio di incidenti
e che, in particolare, l’indennità per infortunio in itinere non spetta al
lavoratore che abbia utilizzato il proprio mezzo di trasporto per raggiungere
il posto di lavoro distante poco meno di un chilometro dalla propria
abitazione, in quanto tale condizione non giustifica la traslazione del costo
di eventuali incidenti stradali sull’intervento solidaristico.
IL
FATTO DEL TERZO
Dall’opera
della giurisprudenza emerge, quindi, chiaramente che il limite alla copertura
assicurativa è costituito principalmente dal rischio che deriva da una scelta
arbitraria del lavoratore, ovverosia il cosiddetto “rischio elettivo” (Sentenza
della Corte di Cassazione n. 21249 del 2012).
Tuttavia,
con una recentissima Sentenza i giudici hanno chiarito che la tutela va esclusa
anche quando il collegamento tra l’evento ed il “normale percorso di andata e
ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro” risulti assolutamente
marginale e basato esclusivamente su una mera coincidenza cronologica e
topografica, in quanto in tal caso viene meno il fondamentale requisito
dell’occasione di lavoro (Sentenza della Corte di Cassazione n. 17685/2015).
di
Valeria Zeppilli
INFORTUNI IN
ITINERE: OCCASIONE DI LAVORO O OCCASIONE DELL’ITER SPARTIACQUE PER L’INDENNIZZO
Da
Studio Cataldi
6
ottobre 2015
Le
Sezioni Unite della Cassazione hanno inteso metter “fine” al dibattito, in sede
scientifica e nella giurisprudenza, sull’infortunio in itinere e l’occasione di
lavoro. Lo hanno fatto, per un caso di specie particolare (omicidio di una
donna da parte del convivente lungo la strada dal lavoro a casa) con la Sentenza n. 17685 del
2015 ripresa su questo quotidiano da Valeria Zeppilli che, in un successivo
intervento sullo stesso sito ha riepilogato con una efficace sintesi i vari
aspetti della questione [vedi articolo di Valeria Zeppilli in questa
newsletter].
La
decisione, peraltro, seppur condivisibile nella sostanza per il caso di specie,
desta qualche perplessità per il percorso della motivazione che potrebbe
lasciare aperta la possibilità di ripensamenti.
La
motivazione non convince proprio nel valore attribuito alla ricostruzione
dell’articolo 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 1124 del 1965
rivisitato dal Decreto 38/00: “L’assicurazione comprende tutti i casi di
infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia
derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale,
ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per
più di tre giorni” a cui segue “Salvo il caso di interruzione o deviazione del
tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l’assicurazione
comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale
percorso di andata e ritorno. [...] L’interruzione e la deviazione si intendono
necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, a esigenze essenziali
e improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti [...]”.
Al
testo così ricostruito la
Sentenza attribuisce, enfatizzandola, la funzione di
vincolare la qualificazione dell’evento alla sussistenza del requisito della
“occasione di lavoro” invece che quella e quella sola (su cui torneremo) di
rendere applicabile all’infortunio in itinere l’intera disciplina del Testo
unico.
Pur
con la massima considerazione per le ragioni di fondo di tale scelta, condivisa
da gran parte della giurisprudenza, come richiamato dalla Zeppilli, e
autorevolmente in sede scientifica continuiamo a ritenere che:
con
il nuovo testo dell’articolo 2 si sia inteso affermare l’indennizzabilità di un
evento per l’essere accaduto lungo l’iter casa/lavoro;
l’accurata
definizione legislativa superi la necessità di ogni valutazione ulteriore sulla
“occasionalità” da lavoro tipica dell’incidente in fabbrica. Evento che, come
si è detto, con l’inquadramento nell’articolo 2, è equiparato a tutti gli
effetti all’infortunio sul lavoro “ordinario”.
Certo,
di fronte a un caso di specie può essere agevole sostenere come esso non
c’entri proprio nulla con il lavoro. Soprattutto quando si tratti di questioni
che riguardino le donne con vaghi sfondi sessuali come nel caso di specie e in
altri ancora, quale il famoso caso riguardante l’infortunio accaduto a
lavoratrice in missione che, durante un amplesso nella camera d’albergo, rimane
ferita dalla caduta di un lume.
Il
discorso si complica, però, quando si debba passare alla fattispecie astratta,
ponendo assieme tutta la casistica, e chiarendo, così, in qual modo un
ordinario investimento su strada possa essere ricondotto in modo occasionante
con il lavoro.
O
meglio, la riconduzione è semplice qualora si riconosca che nell’immaginario
collettivo parlando di infortuni in itinere ci si riferisca essenzialmente ai
rischi tipici della strada provocati da autoveicoli, bici, carri, insidie della
stessa strada e manufatti contigui ecc. piuttosto che a situazioni come quella
in questione provocata da fatto doloso altrui (doloso in quanto estraneo anche
all’ordinaria causalità pedonale?).
Da
ciò l’adesione alla tesi della rilevanza del collegamento con l’occasione di lavoro
e il rifiuto della opposta tesi certo incomprensibile (di là dal chiaro dato
letterale) qualora si dimentichi che alle origini della tutela resta l’idea di
una responsabilità/copertura assicurativa a carico dell’azienda per tutti gli
incidenti che capitino al lavoratore finché egli resti nella sfera di
responsabilità del datore di lavoro; responsabilità che il Decreto 38/00
estende, per quanto qui interessa, al percorso da/per il luogo di lavoro
(analogamente a quanto si ritiene per l’infortunio occorso in missione come
chiarito di recente dall’INAIL in circolare[4]).
Fuori
da questa logica si colloca la soluzione condivisa dalle Sezioni Unite della
Cassazione che adottano, per il caso di specie, una lettura restrittiva dei
principi dell’assicurazione sociale, con un percorso analogo a quello che, in
altra sede, ha portato al mancato indennizzo di infortunio avvenuto scivolando
su una matita sul pavimento dell’ufficio: rischio “comune” a tutti i cittadini
(!!!) in una visione che da un lato supera principi base dell’origine
assicurativa, dall’altro fa propri enunciati classici del mondo assicurativo
privato.
La
stessa Sentenza 17685 ribadisce espressamente questa scelta di campo per la
necessità di uno stretto collegamento con il lavoro (magari proprio quelle
mansioni svolte e non altre, aggiungiamo noi): il comma aggiunto non può che
essere letto nel quadro del sistema delineato dall’articolo 2 che al primo
comma detta la norma fondamentale della materia secondo la quale
l’assicurazione “copre tutti i casi di infortuni avvenuti per causa violenta e
in occasione di lavoro”.
Solo
per inciso, non sfugge come l’affermazione sia simmetricamente ribaltabile
poiché proprio l’assenza nell’infortunio in itinere dei connotati tipici
dell’occasione di lavoro ha reso necessaria la specifica norma. L’affermazione
rischia di essere fragile, insomma, tanto che la stessa Sentenza sembra
avvertirne l’opinabilità quando aggiunge che “l’infortunio deve comunque essere
legato al lavoro sia pure con filo tenue poiché l’iter è per definizione
esterno e estraneo alla dimensione lavorativa in senso stretto”.
Tutto
ciò, prosegue la Sentenza,
secondo una ricostruzione dello stesso sistema precedente al Decreto 38/00 ove
“non era possibile ignorare il preciso elemento normativo dell’occasione di
lavoro: un principio che ha consentito di escludere la tutela in caso di
omicidio in alcun modo connesso con il lavoro per essere inquadrabile, invece,
nella sfera personale del lavoratore in alcun modo collegabile alla prestazione
di lavoro”.
Ma,
sempre per inciso e a contrario, proprio il richiamo del sistema ante Decreto
38 potrebbe confermare che a fronte della difficoltà di collegare l’infortunio
al lavoro con detto “filo tenue” il legislatore abbia tagliato di netto il filo
stesso (novello Alessandro Magno!) concentrando l’attenzione sulle condizioni
(di luogo, di tempo, di mezzo ecc.) dell’iter seguito.
E’
quest’ultimo, insomma, il protagonista della vicenda tanto che per condividere
(torno al punto di partenza) la conclusione negativa della sentenza verrebbe da
concludere che l’elemento qualificante non è l’occasione di lavoro ma
“l’occasione di iter” prendendo atto della circostanza che nel caso in
questione il fatto di seguire quel certo percorso non c’entra nulla nel determinismo
dell’evento lesivo.
In
questo modo, infatti, si può ribaltare il ragionamento (pur giungendo a
identica conclusione) nel senso di tener fermo il riferimento esclusivo ad
“andare o venire dal lavoro” salvo verificare se e in che misura le circostanze
dell’evento interrompano il nesso che deve sussistere con le condizioni del
percorso. Un po’ ciò che accade nel rapporto fra l’infortunio e il rischio
elettivo, nel senso che il decesso dell’interessata, nel caso di specie, non è
collegabile al “rischio strada”, ma al rischio di un evento autonomamente
creato dal comportamento di un altro soggetto (una sorta di elettività
incolpevole!).
Secondo
le regole dell’infortunistica, così, resterebbe solo di verificare se e in
quale misura le condizioni di tempo e luogo dell’iter abbiano sia pure solo in
parte agevolato la decisione e l’esecuzione del fatto criminoso creando un
legame sia pur tenue, sufficiente per l’indennizzabilità.
Quest’ultima
precisazione (essenziale in un’epoca in cui i mass media trasformano subito
specifiche decisioni in “legge”) consente di sottolineare la differenza con
altra ipotesi, richiamata a sostegno dalla Cassazione di violenza subita da
lavoratrice lungo il suo “iter”, anche per la quale si è negato l’indennizzo
con motivazione errata, a nostro avviso, di per sé e anche alla luce della
Sentenza 17685. L’ulteriore collegamento, infatti, era in detta fattispecie
rinvenibile proprio nella circostanza che la lavoratrice era costretta a fare
quel percorso in quelle ore pericolose proprio dalle particolari modalità della
prestazione di lavoro, aumentando così le possibilità di farla franca per
l’assalitore.
Con
questi distinguo e verifiche sul campo, quindi, riteniamo che per lo specifico
caso possa condividersi la valutazione di non indennizzabilità con un diverso
ragionamento secondo il quale un evento in sé non indennizzabile può diventarlo
qualora l’iter per come condizionato dal lavoro abbia concorso a rendere
possibile o agevolare l’atto criminoso.
Ci
si muoverebbe, cioè, su terreno simile a quello del “rischio elettivo” sia pur
diversamente letto, piuttosto che su quello del collegamento necessitato
dell’evento con il lavoro che, se assunto a criterio generale rischia di
diventare un pericoloso precedente per fattispecie “di frontiera” in base a
letture sempre più superficiali delle sentenze della Suprema Corte. Piano
piano, cioè, c’è il rischio che di assimilazione in assimilazione si giunga a
restringere il campo della indennizzabilità alle sole ipotesi di incidenti
ricollegabili alla “mansione” del lavoratore e a escluderla, comunque, qualora
l’incidente concretizzi un normale accadimento della vita quotidiana o
provocata da un concorso di colpa del lavoratore stesso.
Ed
è altrettanto evidente, per concludere, come, quale che sia la soluzione del
caso di specie, proprio queste vicende “borderline” confermino la inadeguatezza
ormai di un sistema che si regge formalmente su un testo di cinquanta anni fa
(anzi di cento tenuto conto del modo in cui fu all’epoca costruito) che proprio
per questo si presta più di altri a letture “pretorie” della giurisprudenza
libera negli anni di oscillare da un capo all’altro della lettura possibile,
rendendo sempre più rischioso il chiedere giustizia da parte dei lavoratori
penalizzati oltretutto dalla faticosità e onerosità dei percorsi giudiziari
delle recenti riforme.
Da
ciò la nostra continua (sempre inascoltata) sollecitazione per una riforma
complessiva dell’assicurazione infortuni sul lavoro pubblica che riconduca a
coerenza anche formale un corpo normativo orami disgregatosi per interventi
legislativi, giurisprudenziali, amministrativi, scientifici che rendono
nebuloso il quadro stesso riducendo così anche per questa via il livello di
tutele sostanziali dei lavoratori.
Un
nuovo Testo Unico, quindi, che non ripeta però l’errore di quello del 1965
attenutosi rigorosamente al mandato di mettere insieme tutta la normativa
precedente senza il filtro, secondo noi indispensabile già all’epoca, di una
riconsiderazione dei principi fondanti della tutela.
Pasquale
Acconcia
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