Il nuovo caporalato? Manager e subappalti
Un monitoraggio su 260 inchieste giudiziarie anti-sfruttamento stravolge l’idea comune sul caporalato. Coinvolge sia piccole aziende a km zero che multinazionali. Sono coinvolte grandi aziende pubbliche e startup “green”. Il lavoro schiavile riguarda l’agricoltura (62% delle indagini) ma anche la logistica dei libri. È presente nella distribuzione di volantini così come nelle cooperative di somministrazione di manodopera. Colpisce tutti, dai lavoratori italiani ai richiedenti asilo subsahariani. E la maggior parte delle inchieste riguarda il Centro Nord. Emerge che il lavoro sfruttato è ovviamente presente nelle campagne meridionali ma la situazione è critica in Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Lombardia. Tra i tantissimi esempi, quello di un giovane bracciante africano che raccoglieva fragole. A quindici chilometri dal Duomo di Milano, non nelle campagne del meridione. “Enrico e il Capo Grasso usavano parole come coglione, negro di merda, animali”, racconta S.F. ai magistrati. Il suo datore di lavoro era un manager di formazione bocconiana, pluripremiato per il suo spirito ecologico e considerato un esempio del km zero. Lo scorso agosto, però, l’azienda è finita sotto amministrazione giudiziaria con l’accusa di grave sfruttamento.
Multinazionali in amministrazione giudiziaria
Si tratta di una ditta di food delivery nata nel 2015, punto terminale di un articolato sistema che comprende la sede centrale Uber a San Francisco, due società in Olanda (Uber international Holding Amsterdam, Uber Portier) e appunto la filiale italiana. Il Tribunale di Milano ha “commissariato” quest’ultima lo scorso 29 maggio. Da allora, si è creata una situazione mai vista. I manager hanno lavorato “in condivisione” con Cesare Meroni, un professionista milanese incaricato dell’amministrazione giudiziaria. All’inizio di marzo 2021 il pm di Milano riteneva la situazione caporalato ormai “sanata” e chiedeva la revoca del provvedimento.
L’accusa per Uber? Aver sfruttato i rider attraverso un sistema di subappalti che coinvolgeva due ditte del capoluogo lombardo. Molti rider erano reclutati tra i migranti. Secondo i magistrati, in attesa dell’esito della domanda di asilo politico, avevano documenti temporanei e dunque si trovavano in condizioni di grave vulnerabilità. Le intercettazioni hanno svelato un sistema di punizioni spesso arbitrarie basato sulla “disconnessione”. “Diamogli un giorno così capisce”, dicono i manager a proposito di un rider africano. “Domani riattivalo please”, risponde un altro. Dobbiamo fare così con questi. Fargli capire che non possono fare e dire come vogliono”. E a proposito di un altro: “Bloccalo, tra due giorni lo riattiviamo. Non ha fatto niente di particolare ma è da un’ora che sta con una consegna in mano, non capisce un cazzo della via”... È bastata l’amministrazione giudiziaria a “sanare” Uber? “Non c’è l’idea di togliere il controllo [alle aziende], ma di affiancare una sorta di commissario che verifica che la gestione dei lavoratori sia fatta regolarmente”, spiega Emilio Santoro, docente di Filosofia del diritto all’Università di Firenze e responsabile del “Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo”.L’amministrazione giudiziaria serve a “sanare” l’impresa e a rimetterla sul mercato
Il caso Uber non è unico. Nel 2019 il Tribunale di Milano ha commissariato anche la “Ceva Logistics”, una multinazionale con sede legale in Olanda, un fatturato annuo da 7 miliardi e sedi in 160 paesi. Nel febbraio 2020 il provvedimento è stato revocato, perché l’azienda era ritenuta sana. Il libro non è certamente un settore che si associa al caporalato. Ma il polo logistico di Stradella, nei pressi di Pavia, doveva essere un inferno. Tanto che un anno e mezzo fa 700 lavoratori in sciopero hanno bloccato per sei giorni le forniture nelle librerie italiane. I numeri sono spaventosi: i lavoratori dovevano spostare fino a 10mila libri in turni da 12 ore. “Di notte, il mio compagno mi vedeva piangere sempre perché avevo dolori ovunque, in particolare forti dolori alle braccia e alle gambe. Sono stata in cura all’ospedale”, si legge nelle carte dell’inchiesta.
Transatlantici e subappalti
Il 14 febbraio del 2019 a Monfalcone si festeggiavano, oltre San Valentino, due eventi molto diversi tra loro. Il primo era un mega-contratto per tre navi da crociera Princess, tra le più grandi al mondo. Il secondo, l’ingresso in tribunale di 19 operai originari del Bangladesh che chiedevano di costituirsi parte civile. Denunciavano un sistema che partiva da piccole ditte in subappalto e terminava a Fincantieri, colosso pubblico delle costruzioni navali con contratti per un valore di 32,7 miliardi. “Ogni due o tre anni le aziende in appalto chiudevano e gli stessi soggetti mettevano in piedi una ditta nuova”, denuncia Rassegna.it, rivista della Cgil. E ricorda che alla fine degli anni ’90 si iniziano a costruire grandi navi da crociera. Fincantieri rinuncia a delocalizzare ma apre al subappalto, che coinvolge molti lavoratori migranti. Spesso le ditte dell’indotto sono “esterovestite”, cioè operano in Italia ma hanno sede oltre il confine. Per ottenere vantaggi fiscali. L’indotto nella zona coprirebbe l’80% delle fasi di costruzione.
I cantieri navali di Monfalcone
Qualche mese dopo la procura di Ancona avviava l’inchiesta “Global Pay”, ancora sulla filiera delle navi. Sedici le società coinvolte e diciannove i denunciati, tra cui sei caporali. Emergeva un quadro fatto di operai sottopagati e costretti a tagliarsi lo stipendio per pagare il ‘pizzo’, oltre che a vivere in alloggi fatiscenti. Nell’inchiesta marchigiana sono venute fuori anche fatture false per 15 milioni di euro e buste paga fittizie.
Volantini col Gps
Quarantatré donne napoletane dietro una porta blindata, nessuna finestra e neppure un bagno. Una di loro incinta, due le minorenni. Rinchiuse per nove euro al giorno e venti euro di paga. Siamo in un capannone a Melito, in Campania. Una storia di sfruttamento estremo tutta italiana. I beneficiari erano noti marchi della moda. La situazione del tessile è critica. Sono almeno dieci le inchieste sul settore. Le hanno avviate le Procure di tutta la penisola: dal Veneto alla Toscana, da Bologna a Pesaro. Meno conosciuto ma altrettanto drammatico ciò che accade nei servizi. Dalla fornitura di lavoratori in affitto alla distribuzione dei volantini. Ci sono almeno nove inchieste aperte su quest’ultimo tema. Da Bolzano alle Marche. Si tratta spesso di micro ditte intestate a pakistani che sfruttano connazionali o richiedenti asilo africani. L’indagine di Pesaro, per esempio, racconta di lavoratori costretti a distribuire volantini per undici ore al giorno, sei giorni la settimana. Come se non bastasse, erano controllati con sistemi GPS.
Infine, è sempre più ricco per gli sfruttatori il settore della somministrazione di lavoratori. Ovvero uomini e donne in affitto. Significativa un’indagine avviata nel Lazio. Funziona così. Una cooperativa contatta un’azienda. Propone di licenziare gli operai e di esternalizzare il personale. Perché assumerli, versare tasse e contributi per ognuno? Basta pagare una fattura e via. Così erano gestiti oltre 300 lavoratori da Tarquinia a Roma. Quasi tutti italiani, pagati con salari da fame, anche cinque euro l’ora: camerieri, baristi, banconisti, addetti al carico e scarico merci, panificatori, commessi...
Lavoravano dal mattino a notte fonda per 2,50 euro l’ora. Allevavano pecore tra Macerata e Ascoli. A un certo punto un gruppo di rumeni ha detto basta. Sono andati fino a Roma, presso la loro ambasciata, per denunciare gli sfruttatori.
Non ci sono solo storie di lavoratori passivi nella mappa che stiamo sfogliando. In molti hanno avviato le inchieste con le loro denunce, hanno offerto testimonianze piene di dettagli oppure si sono costituiti parte civile.
L’inchiesta di Monfalcone che ha sfiorato Fincantieri è partita dalla denuncia dei bangladesi. Le inchieste milanesi hanno acquisito consistenza solo grazie alle testimonianze dettagliate dei lavoratori africani...
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