9 aprile 1969: rivolta di Battipaglia
Nell'Aprile
del 1969 a Battipaglia giunge la notizia dell'imminente chiusura di due grosse
aziende della città: la manifattura di tabacchi e lo zuccherificio.
Battipaglia è un piccolo comune della provincia di
Salerno e questo provvedimento si tradurrebbe in disoccupazione e miseria per
più di metà della popolazione che in tali fabbriche lavora quotidianamente. Alcuni
delegati vengono inviati a Roma per cercare una mediazione ma tanto loro quanto
la popolazione di Battipaglia sanno che, senza un movimento di protesta forte,
al loro ritorno potranno portare con sé solamente una nuova serie di promesse
vane. Così, per il 9 Aprile viene indetto un corteo di protesta: già dalle
prime ore del giorno, alcune centinaia di uomini si radunano e, scortati da
polizia e carabinieri, cominciano a muoversi in corteo al grido di
"Difendiamo il nostro pane" e "Basta con le promesse".
La manifestazione si snoda per le vie della città,
ingrossandosi sempre più e, giunta in Piazza della Repubblica, decide di
sfidare i limiti imposti dalle forze dell'ordine e di proseguire verso la
stazione ferroviaria; parte così la prima carica dei celerini, dalla quale il
corteo esce però in breve ricompattato e determinato. La stazione è già da
tempo assediata dalla polizia ma il corteo si è ormai trasformato in una folla
di gente esasperata: il vicequestore non prova nemmeno a contrastarla e si
limita a schierare i suoi uomini a difesa degli impianti tecnici. I
manifestanti si impossessano dei binari, determinati a mantenere l'occupazione,
ma da Roma arriva l'ordine di rimuovere i blocchi; le forze dell'ordine, fino a
quel momento spettatrici passive della protesta, si lasciano andare allora a
cariche selvagge che proseguono per più di un'ora senza lesinare l'uso di
lacrimogeni ed idranti, a cui la popolazione di Battipaglia risponde con una
fitta sassaiola.
Nel tardo pomeriggio si arriva allo scontro decisivo:
il corteo incanala la propria rabbia contro il Commissariato di via Gramsci,
dentro cui si sono asserragliati un centinaio di poliziotti e carabinieri che
iniziano a sparare all'impazzata sulla folla, uccidendo Teresa Ricciardi,
giovane insegnante che seguiva gli scontri dalla finestra della propria
abitazione, e lo studente diciannovenne Carmine Citro; moltissimi i feriti. Ormai
la battaglia si è estesa a tutta la popolazione, che sente propria la causa dei
manifestanti e che quindi porta aiuto ai feriti, lancia oggetti dai balconi
alle forze dell'ordine, scende in strada e si unisce alla protesta; la maggior
parte dei celerini è costretta a fuggire a gambe levate. La rabbia della folla
si scaglia anche contro il Municipio, poi verso sera sulla città torna a
regnare la calma; nella notte arrivano nuovi rinforzi alle forze dell'ordine,
che si ritrovano però ad aggirarsi nello scenario di una battaglia ormai
conclusa, tra i resti delle barricate e delle camionette in fiamme.
L'eco della rivolta giunge fino a Roma, dove viene
raggiunto un accordo per la riapertura delle due fabbriche. La battaglia non fu
un episodio isolato ma piuttosto l'espressione di un Sud Italia tutt'altro che
pacificato, travolto dall'arrivo delle grandi fabbriche del Nord, sempre in
bilico tra il suo piccolo e fragile miracolo economico e la minaccia della
disoccupazione. Dalla rivolta di Battipaglia, a quelle di Avola e di Eboli,
riecheggiò la stessa rabbia, la stessa urgenza di lotta che riportarono il
meridione al centro dello scontro di classe.
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