INDICE
Movimento
Femminista Proletario Rivoluzionario mfpr.naz@gmail.com
VERSO L’8 MARZO
Muglia la
Furia fmuglia@tin.it
LA RABBIA PER LE PAROLE VENUTE DAI VERTICI DELL’ASSESSORATO AL LAVORO ALTOATESINE
SlaiCobas per il Sindacato di classe slaicobasta@gmail.com
“ILVA LA
TEMPESTA PERFETTA”: IL LIBRO SULL’ILVA
Clash
City Workers cityworkers@gmail.com
LE
LACRIME DI CONFINDUSTRIA (E IL SUDORE NOSTRO)
Clash
City Workers cityworkers@gmail.com
TORINO:
PRESIDIO CONTRO L’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO
Aldo
Arpe arpe_aldo@yahoo.it
L’ISTAT AVVERTE:
MINORE ASPETTATIVA DI VITA
Muglia la
Furia fmuglia@tin.it
Posta
Resistenze posta@resistenze.org
LOTTA PER LA
LIMITAZIONE DELLA GIORNATA DI LAVORO
ESTREMI NELL’AMBITO DELLA SICUREZZA SUL LAVORO
Riccardo Antonini erreemmea@libero.it
VIAREGGIO: SUL PROCESSO IN CORSO...
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To:
Sent:
Saturday, February 20, 2016 12:54 PM
Subject: VERSO
L’8 MARZO
8 MARZO: PERCHE’ UN NUOVO SCIOPERO DELLE DONNE
La
condizione delle operaie, delle lavoratrici più sfruttate viene taciuta, non se
ne parla, al massimo compare in qualche statistica di inserti dei giornali, o
in qualche inchiesta scoop, che resta appunto solo uno scoop (normalmente,
devono morire le lavoratrici perchè appaiano sui giornali, o entrino in qualche
reportage). Eppure le lavoratrici stanno subendo attacchi come non mai, sono le
prime vittime delle politiche del padronato, del Jobs Act del governo Renzi.
Ma
non se ne deve parlare. Perchè la loro condizione mette a nudo tutto il sistema
di sfruttamento e oppressione, sul luogo di lavoro e fuori, fatto di attacchi
alle condizioni di lavoro, discriminazioni, fino ai ricatti sessuali.
Gli
stessi sindacati confederali, tacciono o parlano solo quando la condizione
delle donne esplode, spesso tragicamente, come le braccianti quest’estate; non
organizzano le lotte, anzi le impediscono. La Fiom al massimo esce ogni tanto con qualche utile
inchiesta, ma poi frenano le lavoratrici che agiscono, come alla Sata di Melfi,
e fa di una questione di dignità, un misero punto di una inutile piattaforma.
MA
LE LAVORATRICI NON NE POSSONO PIU’!
Le
operaie della Sata di Melfi, come degli altri stabilimenti FCA, sono stanche
dopo poche ore di lavoro, esaurite dalla fatica. Nelle brevi pause di 10 minuti
devono decidere se andare nei bagni lontani, dove devono sbrigarsi anche nei
giorni del ciclo, o mangiare un panino; i turni stressanti, i ritmi e i carichi
di lavoro attaccano anche la loro salute riproduttiva; gli ultramoderni sistemi
di intensificazione del lavoro di Marchionne (ERGO UAS) portano per le operaie
a una condizione da medioevo. Devono poi sentirsi anche offese, umiliate, se
chiedono una tuta blu per evitare l’imbarazzo di macchie nel periodo delle
mestruazioni. Quando escono sfinite dalla fabbrica, nei giorni di riposo non
possono riposarsi, perché a casa ricominciano con le faccende domestiche, i
figli, ecc.
Le
braccianti dicono: “Ci sentiamo le schiave del terzo millennio”. Sono pagate
poco più di venti euro al giorno, per dieci, dodici ore di lavoro, anche quindici
nei magazzini; sono a nero o con una busta paga falsa, per un lavoro
massacrante, in piedi sotto tendoni dove d’estate si arriva a 50 gradi,
respirando prodotti tossici, o piegate per ore e ore. Sono selezionate come
schiave dai caporali o dal moderno e “legale” caporalato delle agenzie
interinali, per i superprofitti delle grandi aziende; devono lavorare sotto gli
occhi di una “kapò” che decide anche quando possono andare a fare pipì, ma
dietro un albero; le più giovani subiscono anche i ricatti, molestie, fino alle
violenze sessuali di caporali e padroni. E poi, stanno morendo di fatica, come
Paola e le altre di quest’estate.
Le
lavoratrici delle Coop, sempre sotto la mannaia del licenziamento, con salari
sempre più tagliati, che non possono ammalarsi. Ricattate, molestate e costrette
a lavorare con ritmi disumani per aziende con milioni di fatturato; sempre
rimproverate, minacciate di trasferimento per punizione. Lavoratrici/madri
discriminate e lasciate a casa senza paga perché non servono più (colpevoli di
avere figli piccoli). Dove le operaie vengono molestate sessualmente e
licenziate se si ribellano (come le operaie della cooperativa della logistica
Yoox Mr Job di Bologna).
Ci
sono le ultraprecarie lavoratrici delle pulizie, dal nord al sud, sempre a
rischio licenziamento, da appalti ad appalti sempre più al massimo ribasso,
lavorano per misere ore e ancor più miseri salari, troppo spesso neanche pagati
E
c’è l’ultimo “anello della catena”, le migranti, le “schiave della monnezza”,
come le lavoratrici di Monselice (PD) licenziate dalla coop perché protestano
per le condizioni inumane di lavoro. Donne marocchine, piegate otto ore sui
rifiuti a caccia della plastica riciclabile. Un business ecologico fondato
sullo sfruttamento selvaggio delle donne migranti. E devono sopportare anche
insulti razzisti e ricatti brutali.
ECC,
ECC, ECC.
Sono
solo alcune delle tante realtà simbolo della condizione delle donne
lavoratrici, in cui è in atto da parte dei padroni, a volte multinazionali, un “moderno
medioevo”, che ogni giorno mostra l’intreccio tra attacchi di classe e attacchi
schifosi in quanto donne. Una condizione che non ha respiro, perchè la
pesantezza, il ricatto della condizione sui posti di lavoro viene portato in
casa e la pesantezza in casa, i problemi della maternità, dei figli, della
mancanza di servizi sociali, ecc. pesano come altrettanti macigni sulle
condizioni e le stesse possibilità di lavoro per le donne.
Una
condizione che il governo Renzi ha peggiorato due volte: con il Jobs Act ha
istituzionalizzato la precarietà a vita, il libero licenziamento che per prima
colpisce proprio le donne, spesso con la scusa della maternità; poi con la
miseria dei bonus, ha scaricato ancora di più sulle donne il peso/mancanza dei
servizi sociali.
Ma
in alcune delle realtà che abbiamo riportato, vi è anche altro. Vi è la
ribellione, a volte lotte, scioperi, proteste delle lavoratrici: dalla
battaglia contro le tute bianche a Melfi delle operaie, alla denuncia
coraggiosa delle braccianti, alla protesta delle operaie di Bologna contro i licenziamenti
e i porci padroni, alla forte lotta delle immigrate.
Ma
queste lotte e tante altre delle donne ancora non hanno vinto.
Le
lotte delle operaie, delle lavoratrici più sfruttate non escono dall’isolamento,
le donne operaie, le lavoratrici non sono unite, autorganizzate in una
battaglia nazionale, che deve porre con forza la condizione delle donne, di
doppio sfruttamento e di oppressione, che sta in ogni lotta singola ma va oltre
le singole lotte, perchè richiede un cambiamento a 360°.
L’ARMA
CHE ABBIAMO E DOBBIAMO USARE E’ LO SCIOPERO DELLE DONNE!
La
situazione oggettiva mostra con mille fatti che è tempo di dire “Basta”, che è
tempo di un nuovo forte sciopero delle donne. Ancora non c’è una altrettanta
coscienza soggettiva, ma occorre cominciare.
Questo
sciopero delle donne, il secondo dopo quello del 25 novembre del 2013, ha al centro proprio
le operaie, le lavoratrici più sfruttate e oppresse. Che tutte le altre donne
si uniscano!
In
primo luogo le lavoratrici della scuola che hanno fatto grandi lotte e nello
sciopero del 2013 furono grandi, scendendo in lotta in 12.000.
Ma
sono le lavoratrici delle fabbriche, delle campagne, dei luoghi di lavoro più “neri”,
le immigrate schiavizzate quelle che mostrano fino a che punto arriva il
moderno medioevo del sistema del capitale che si prende e distrugge tutta la
vita, a 360°, e che è il capintesta del maschilismo/sessismo organizzato,
istituzionalizzato.
L’8
marzo cominciamo la marcia dello sciopero delle donne. Esso deve continuare
anche dopo l’8 marzo, perchè via via diventi grande e si estenda dappertutto.
Costruendo insieme, nello sciopero, una rete delle realtà di lavoro delle
donne, delle lotte, e una piattaforma dal basso.
L’8
MARZO NON MIMOSE MA SCIOPERO!
Movimento
Femminista Proletario Rivoluzionario
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From: Muglia la Furia fmuglia@tin.it
To:
Sent:
Saturday, February 20, 2016 4:51 PM
COMMOZIONE E SDEGNO PER I DUE INFORTUNI MORTALI SUL
LAVORO
Il tema della
salute e sicurezza nei luoghi di lavoro periodicamente appassiona e indigna l’opinione
pubblica ogniqualvolta la cronaca registri un infortunio sul lavoro grave o
mortale.
Spesso, travolti
dall’emozione e dallo sdegno, ci si dimentica di riflettere su ciò che sta
dietro lo stesso fenomeno infortunistico, le sue ragioni, gli strumenti della
prevenzione, la vigilanza, la formazione ecc.
L’unico dato che
spesso interessa mettere in evidenza è quello relativo al numero degli
infortuni e ai settori maggiormente coinvolti. Poi, una volta cessato il
clamore, ci si dimentica un po’ tutto, almeno fino al prossimo infortunio.
Così è accaduto
anche in occasione dei due infortuni mortali registrati alcuni giorni fa e in
cui hanno perso la vita due lavoratori: il primo in un magazzino di frutta in
Bassa Atesina, l’altro in un cantiere edile in Val Venosta.
Tra i due eventi
luttuosi si è tenuta l’annuale conferenza stampa dei vertici dell’Ispettorato
del lavoro, l’organismo di vigilanza che fa capo all’assessora provinciale
Martha Stocker, in cui sono stati presentati i dati relativi agli infortuni del
2015, numero di ispezioni, violazioni rilevate e relative sanzioni.
Non mi soffermerò
sui dati illustrati e commentati un po’ da tutti gli organi di stampa e che,
ancora una volta, hanno messo in luce in maniera inequivocabile alcuni elementi
di problematicità riguardanti il fenomeno in Alto Adige se messo a confronto
con altre regioni e con il vicino Trentino in particolare, sia per quanto
riguarda il numero degli infortuni mortali, 15 nel 2015, i settori maggiormente
colpiti, 7 in
agricoltura, ma anche per il numero di ispezioni effettuate nonché per il
numero degli ispettori dell’organismo di vigilanza, la metà di quello operante
in trentino.
Come ovvio gran
parte delle domande formulate nella conferenza stampa hanno riguardato l’infortunio
mortale accaduto il giorno precedente in Bassa Atesina e sono rimasto colpito
per come, a sole 24 ore di distanza dall’accaduto, ci si sia buttati a
ipotizzare profili di responsabilità. In particolare il fatto che l’impianto
fosse stato manomesso e che la vittima pare essere stato il responsabile della
sicurezza che avrebbe dovuto essere a conoscenza della manomissione dei dispositivi
di sicurezza.
Le responsabilità
andranno accertate dalla Procura della Repubblica che ritengo dovrebbe
richiamare il direttore della Ripartizione lavoro e la stessa assessora Stocker
per le dichiarazioni fatte in conferenza e nei giorni seguenti, per violazione
del segreto istruttorio e per la mancanza di rispetto per chi è rimasto vittima
di un infortunio mortale e per i suoi familiari.
L’assessora Stocker
non si è trattenuta dal farci la solita morale ribadendo che (e qui il
virgolettato è dovuto al fatto di aver ripreso il passaggio da quanto
pubblicato dal quotidiano Alto Adige): “Spesso sono gli stessi lavoratori a
voler fare più in fretta e ciò può causare infortuni più o meno seri. Quello di
Termeno, probabilmente, non è un caso isolato. Penso agli operai che lavorano
su un’impalcatura e non sempre hanno il casco, le scarpe adatte o preferiscono
non essere agganciati”.
Tutto chiaro.
Trovata la causa, l’impianto manomesso; trovato il colpevole, il responsabile
della sicurezza cioè lo stesso lavoratore morto; analizzato il contesto, quello
di ambienti di lavoro in cui sono i lavoratori con i loro comportamenti la
principale causa degli infortuni di cui sono le vittime. Non l’organizzazione
aziendale, non la mancata valutazione dei rischi, non la mancata formazione dei
lavoratori, non il mancato controllo delle procedure aziendali da parte del
datore di lavoro e dei dirigenti e, per rimanere nella sfera di competenza dell’assessora
Stocker, non per l’insufficiente vigilanza nelle aziende altoatesine, siano
esse magazzini di frutta, impianti industriali, officine o cantieri, campi e
boschi.
Da tempo denuncio
(in verità non da solo) il fatto che l’assessora Stocker sia impegnata, a
fianco delle associazioni imprenditoriali altoatesine, quelle che pensano che
la prevenzione sia solo inutile burocrazia, a far approvare con norma
provinciale una regolamentazione tesa a ridurre la vigilanza a mera consulenza.
Ed è la stessa
assessora che ha anticipato l’ipotesi di “depotenziamento” della vigilanza per
far sì che le ispezioni interferiscano il meno possibile con l’attività
lavorativa e, soprattutto, per stabilire con regolamento provinciale, quali
sanzioni comminare a fronte di un elenco di violazioni appositamente
individuate. Voi tutti penserete, quelle previste dalle norme di prevenzione. E
invece no, il disegno di Legge cosiddetto “omnibus sociale”, di prossima
presentazione, recita testualmente: “Con regolamento sono emanate le ipotesi di
violazioni amministrative e penali che non danno luogo a danni irreversibili
(omissis) per le quali l’irrogazione della sanzione amministrativa e penale è
condizionata all’inosservanza, anche parziale, delle prescrizioni”.
Si sta parlando di
modificare il sistema penale per l’individuazione e la sanzione delle
violazioni delle norme contro gli infortuni sul lavoro (D.Lgs. 81/08 e non
solo) che si configurano quali reati (penali) contravvenzionali punibili, nella
maggior parte dei casi, con la pena alternativa dell’ammenda e dell’arresto. E
sappiamo anche che la materia penale è già oggi sottratta alla competenza
concorrente di regioni e province autonome che possono organizzare l’attività
di vigilanza, ma non stabilire per quali reati e con quali modalità. Neanche a
fronte dell’ipotizzata convenzione tra la Provincia e il Governo della quale pare si stia
occupando il presidente Kompatscher.
Questo è quello sul
quale saremo chiamati tutti a vigilare (organi di informazione, esponenti
politici di maggioranza ed opposizione, associazioni sindacali) per impedire
che la filosofia espressa nella norma citata possa avvalorare le affermazioni
rilasciate dall’assessora Stocker su ciò che dovrà essere sanzionato e ciò che
non dovrà esserlo, con l’introduzione di un sistema ispettivo provinciale “a
chiamata” e gli ispettori ridotti a fare da “consulenti” alle imprese. D’altro
canto, se la responsabilità degli infortuni è dei lavoratori, perché sanzionare
i datori di lavoro?
Franco
Mugliari alias Muglia La Furia
mail: fmuglia@tin.it
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From: SlaiCobas per il Sindacato di
classe slaicobasta@gmail.com
To:
Sent: Sunday,
February 21, 2016 11:24 AM
Subject: “ILVA LA
TEMPESTA PERFETTA”: IL LIBRO SULL’ILVA
Cari compagni e amici,
vorremmo presentare negli spazi cittadini disponibili
il nuovo libro sull’ILVA realizzato a Taranto.
Lo vorremmo fare nella settimana 14-21 marzo o 10-17
aprile, dato che dei compagni di Taranto hanno analoghe presentazioni in varie
città italiane.
A seguire la presentazione del libro.
In attesa, un saluto militante.
Info per libro
SlaiCobas per il Sindacato di classe
mail: slaicobasta@gmail.com
cellulare: 347 11 02 638
* * * * *
Certo sono usciti tanti libri
sull’ILVA, alcuni utili altri meno. Ma quasi tutti partono da analisi sbagliate
sul sistema del capitale, sull’industria e da una incomprensione di fondo che
potremmo sintetizzare nella frase: “Nocivo è il capitale non la fabbrica”.
Il libro “ILVA la tempesta
perfetta” vuole “riequilibrare” il punto di vista, affermando una visione
scientifica e dal punto di vista della classe operaia. Attraverso il racconto
dei due anni “caldi” (2013/2013) vuole riportare come realmente è andata e di
cosa si tratta e deve trattarsi all’ILVA: una “guerra di classe” in cui si
scontrano due opzioni, quella del potere capitalista e quella della classe
proletaria e delle masse popolari.
E’ un libro di fatti, in cui le
opinioni sono legati ai fatti, ai settori sociali che li esprimono. Il
libro attraverso il racconto dei fatti vuole mostrare la lotta, particolarmente
chiara in quei due anni, tra concezioni materialistico storico dialettiche e
concezioni idealiste. Ma questo libro vuole rivalutare anche ciò che è
accaduto a Taranto, contro tutte le visioni lamentose, populiste, di una città
e dei suoi abitanti schiacciati e “morenti”.
A Taranto in realtà vi è stata
una rivolta, prima di tutto degli operai, una sorta di “biennio rosso” da tutti
negato e subito dimenticato. Certo, una rivolta non limpida, a volte
ambigua soprattutto all’inizio, ma è stata una rivolta, in cui anche
tutti si sono schierati: nel male (il libro l’abbiamo intitolato “La tempesta
perfetta” per dire che tutti hanno contribuito a devastare uomini e
cose) e nel bene, mostrando quello che può essere la lotta di classe nel
nostro paese.
Una rivolta che purtroppo finora
ha perso; ha mostrato le sue potenzialità, ma il loro sviluppo è mancato. Ma l’ILVA
e Taranto sono il centro di una contraddizione epocale, mostrano dove arriva in
termine di distruzione il sistema del capitale.
Per questo Taranto è importante,
e non è una realtà su cui solo denunciare e “piangere”, ma una realtà da capire
subito e ricominciare.
E il
libro vuole dare un contributo a questo.
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From: Clash City
Workers cityworkers@gmail.com
To:
Sent: Sunday,
February 21, 2016 10:36 PM
Subject: LE LACRIME DI
CONFINDUSTRIA (E IL SUDORE NOSTRO)
Forse qualcuno si
ricorda la boutade di quest’autunno del presidente di Confindustria Squinzi,
secondo il quale le richieste dei sindacati alla vigilia del rinnovo dei
contratti collettivi nazionali erano inaccettabili, dato che chiedevano aumenti
delle retribuzioni “insostenibili” e addirittura “fuori dalla realtà”. Un
attacco frontale alla contrattazione nazionale, dato che in realtà i nostri
timidi sindacati chiedevano i soliti minimi aumenti salariali che si prevedono
a ogni rinnovo dei CCNL, appena sufficienti a star dietro all’aumento del costo
della vita, dei servizi, a quello che tutti noi chiamiamo “arrivare a fine mese”.
Sappiamo poi com’è
andata a finire: i sindacati confederali hanno facilmente ceduto alle richieste
degli imprenditori in quasi tutti i casi, e quest’ultimi sono riusciti
addirittura a ottenere soldi indietro dai lavoratori del settore della chimica
e sono in procinto di fare altrettanto con i metalmeccanici.
Dietro le
considerazioni di Squinzi c’era una famigerata nota del centro studi di Confindustria:
In tale nota si
sosteneva che “La quota del valore aggiunto che va al lavoro è ai massimi
storici”. Tradotto: quella parte della ricchezza prodotta in un anno nel paese,
che finisce in tasca ai lavoratori è alta come mai lo è stata prima. Potrà
sembrare molto strano a chi abbia la sfortuna di lavorare in questo paese, ma
secondo Confindustria al lavoro dipendente va una quota di PIL che supera “il
picco di metà anni Settanta, quando il sindacato dei lavoratori era all’apice
del potere rivendicativo”. Per questo i sindacati dovrebbero smettere con le
loro anacronistiche pretese!
A noi i conti non
tornavano e allora ci siamo messi a rivedere un po’ di numeri (e a vedere tra
di essi), aiutando nei calcoli la professoressa di economia Antonella Stirati,
che si è spesso occupata di distribuzione “funzionale” del reddito (cioè la
quota di reddito che spetta ai diversi “fattori” della produzione: capitale e
lavoro, che diventano profitti e salari) e che è tornata sull’argomento rispondendo
a Confindustria. Beh, quello che ne esce è un quadro molto diverso da quello
dipinto dall’associazione datoriale e purtroppo conforme non solo all’esperienza
comune di tanti lavoratori, ma anche alla arcinota crescita delle diseguaglianze a cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni:
si rivelano, infatti, tre decenni di abbassamento della quota dei salari sul
PIL. Un dato che poi andrebbe probabilmente ulteriormente
corretto al ribasso visto che la quota del lavoro include anche i salari dei
manager che nello stesso periodo sono aumentati, accaparrandosi percentuali
sempre più alte di ricchezza.
Da dove spuntino i
dati di Confindustria è poi un mistero e rimandiamo all’articolo della Stirati
pubblicato su Economia e Politica per le note più tecniche:
Quello che è certo
è quello che pretendono i padroni: tornare a guadagnare abbastanza perché siano
stimolati a fare gli investimenti di cui “il paese ha bisogno”, ottenendo le
stesse condizioni dei loro equivalenti degli altri paesi “concorrenti”, che a
detta loro sanno sfruttare maggiormente i propri dipendenti. Secondo
Confindustria, infatti, “l’andamento delle quote distributive in Italia risulta
in controtendenza rispetto all’Eurozona e, in particolare, ad alcuni grandi
paesi competitor”.
E quindi via con le
solite richieste: dopo aver strappato la possibilità di licenziare quando gli
pare con il Jobs Act, ora vogliono un “sistema di istruzione maggiormente
integrato col sistema produttivo”, cioè manodopera gratis che gli viene
direttamente dalle scuole, come prevede l’alternanza scuola-lavoro. E poi una “dinamica
salariale correlata a quella della produttività”, cioè lo svuotamento della
contrattazione nazionale a cui stiamo tristemente assistendo. E infine (perché
no?) “rimuovere le restrizioni alla concorrenza nei servizi” che non significa
altro che privatizzazioni.
Insomma ai padroni
non basta veramente mai. E chiaramente le loro pretese si ammantano della
solita retorica sulla “crescita del sistema paese”, che come sempre è crescita
innanzitutto dei loro profitti, alle cui sorti saremmo noi tutti subordinati da
bravi lavoratori dipendenti.
Ma con “l’uscita dalla crisi” in realtà tutto questo
c’entra poco. O meglio c’entra con l’uscita dalla crisi per loro: come si può vedere dai grafici dell’articolo,
effettivamente la quota dei salari sul PIL è aumentata molto negli ultimi anni
della crisi. Cioè, i profitti sono calati. Attenzione: questo non perché i
lavoratori abbiano guadagnato di più, anzi. Come si Legge nel rapporto annuale
dell’ISTAT 2015 sulla situazione del paese (pagine 155-158), dal 2007 al 2014
le retribuzioni reali sono calate del 1,5% in agricoltura e del 4,2% nei
servizi. Se nella manifattura sono invece cresciute ben del 8,4%, questo
secondo l’ISTAT è perché “giocano un ruolo preponderante la maggiore
contrazione delle posizioni lavorative a qualifiche più basse e anzianità
minore”, cioè il fatto che con la crisi sono stati licenziati principalmente i
lavoratori giovani e/o scarsamente qualificati, facendo crescere
artificiosamente la media delle retribuzioni:
Dicevamo quindi che
i profitti sono calati e che questo non c’entra con le retribuzioni. C’entra
innanzitutto col fatto che, se la crisi ha un immediato impatto negativo sui
guadagni delle imprese, a queste non risulta ancora così facile licenziare
istantaneamente i propri dipendenti e tagliare gli stipendi quanto vorrebbero,
così da scaricare su di loro i costi della crisi; anche perché in alcuni casi
dette imprese perderebbero della manodopera faticosamente formata.
Così come il calo
della produttività si può spiegare col fatto che la recessione dissuade le
imprese a compiere quegli investimenti necessari ad aumentarla. E infatti, come
rivelano le elaborazioni di Stefano Perri sui dati Eurostat-AMECO, dal 2007 al
2014 lo stock di capitale fisso lordo è diminuito mediamente del 3,93% l’anno,
mentre quello netto è cresciuto di un misero 0,43%:
Per questo il fatto
che la quota dei salari sul PIL cresca durante le crisi, cioè sia “anticiclica”,
non stupisce. Così come non deve stupire che di converso, quindi, calino i
profitti.
I padroni vogliono
però uscire dalla crisi (dalla loro crisi!) e tornare a fare bei guadagni. Dopo
aver smesso di investire pretendono adesso un prezzo della manodopera adeguato
al calo della produttività, cioè vogliono bassi salari e totale flessibilità da
parte dei lavoratori. A costo, paradossalmente, di aggravarla, la crisi. Dopo
anni di politiche di austerità e di una mai raggiunta “luce in fondo al tunnel”,
dovremmo, infatti, ancora credere che tutto questo serva al bene comune? Ancora
dovremmo dar credito alla retorica dei “sacrifici necessari”? Se è vero che nel capitalismo crescita significa sfruttamento, e più si
sfrutta più si fanno profitti, è anche vero che la miseria che dilaga tra le
masse restringe il mercato in cui realizzarli questi benedetti profitti. Si
tratta di una delle tante vecchie e ben note contraddizioni di un sistema che
non produce beni per soddisfare i bisogni delle persone, ma merci che gli
permettano di valorizzarsi indefinitamente.
E allora queste
richieste avanzate da Confindustria, fedelmente eseguite dal governo Renzi, non
rappresentano altro che il tentativo dei padroni di guadagnare il più possibile
da questa situazione, costi quello che costi ai lavoratori, al “paese” e ai
concorrenti che non ce la faranno.
Esprimono anche la
loro capacità di far valere le proprie priorità sull’agenda politica
approfittando della confusione e dello scoraggiamento che regna tra le classi
popolari, costrette dalla crisi a una concorrenza al ribasso che assume sempre
più i tratti di una guerra tra poveri. E’ in questo modo che i padroni
riescono a trasformare ogni loro fallimento in un nuovo ricatto che possa
giustificare ulteriori sacrifici (i nostri)
a loro esclusivissimo
vantaggio. E’ una spirale perversa, ma anche piena di
contraddizioni. E soprattutto contraria all’interesse di milioni di persone. È
a queste ultime che ci dobbiamo rivolgere per interromperla.
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From: Clash City
Workers cityworkers@gmail.com
To:
Sent: Sunday,
February 21, 2016 10:36 PM
Subject: TORINO: PRESIDIO
CONTRO L’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO
Al termine di un’assemblea
tenutasi giovedì scorso alla Cavallerizza Occupata il “Coordinamento contro la Buona Scuola Torino”
ha deciso di organizzare un presidio per il 22 febbraio in concomitanza
con la manifestazione di Milano in cui studenti e insegnanti contesteranno la
presenza del ministro dell’istruzione Giannini al convegno promosso da Assolombarda Confindustria Milano Monza e Brianza
insieme all’Università Statale ed all’ufficio Scolastico Regionale dal sinistro
titolo: “Sapere e fare: insieme è possibile”. Un incontro, quello tra l’associazione padronale
Confidustria e il ministro dell’istruzione, che conferma quanto diciamo da
tempo: la riforma della “Buona Scuola”, fortemente voluta da Renzi, è stata
completamente ispirata dai padroni che vogliono definitivamente piegare l’intero
mondo della formazione ai propri fini.
Il coordinamento torinese, partecipato da studenti
e insegnanti, ha deciso di organizzare questo presidio informativo per mettere
in luce in modo particolare un aspetto della riforma spesso trascurato, ma a
nostro avviso assolutamente centrale nell’impianto pratico e ideologico della
riforma: l’alternanza scuola-lavoro, un fenomeno che abbiamo diffusamente già analizzato:
Di seguito riportiamo il comunicato del “Coordinamento
contro la Buona Scuola
Torino”.
PRESIDIO CONTRO LA BUONA SCUOLA E
ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO
Lunedi 22 Febbraio,
l’Unione Industriale di Torino e l’Ufficio Scolastico Regionale per
il Piemonte, hanno organizzato un Congresso, che ha come tema
la “piena dignità formativa al lavoro” riconosciuta dalla Legge 107/15 “La Buona Scuola”.
La tavola rotonda era
formata dal Presidente dell’Unione Industriale
di Torino, dal Vice Presidente di Confindustria e Presidente di Unioncamere, dal Presidente IREN, e dal Presidente della Camera di commercio di Torino.
L’invito e’ stato
rivolto ai Dirigenti Scolastici e agli insegnanti che si occupano di Alternanza
Scuola/Lavoro, al fine di sottoscrivere un Protocollo d’Intesa, così come
specificato: “L’Unione Industriale di Torino, da sempre attiva in questa
direzione, e l’Ufficio Scolastico Regionale per il Piemonte, da sempre aperto
al mondo del lavoro, hanno ritenuto fondamentale definire un Protocollo d’Intesa per la collaborazione tra Scuole e Imprese del
territorio, concordando obiettivi, iniziative, strumenti e metodi di lavoro comuni”.
Nello stesso
giorno, il Ministro dell’Istruzione Giannini
era a Milano per partecipare a un Convegno promosso da Assolombarda, “Confindustria Milano, Monza e
Brianza”, insieme all’Università Statale
ed all’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia,
dal nome: “Sapere e fare: insieme è possibile”.
E’ chiaro ed
evidente che Confindustria, attraverso l’Alternanza Scuola/Lavoro e con il
lasciapassare degli Uffici Scolastici Regionali, sta entrando nelle nostre
scuole pubbliche per “adeguare la funzione educativa
all’etica del lavoro e delle Imprese” (citazione dal Convegno
del 13 ottobre 2015 dedicato all’istruzione, in cui Confindustria ha indicato
gli obiettivi della riforma scolastica, approvata in luglio 2015).
Il Governo, in
ossequio alle richieste di Confindustria (sindacato dei grandi imprenditori
italiani), concederà incentivi e sgravi fiscali alle imprese che ospiteranno
gli studenti, mentre la disoccupazione giovanile continua ad aumentare per
effetto dell’altrettanto nefasto Jobs Act. Sono stati stanziati 100 milioni di
euro per dare copertura finanziaria alle imprese che offrono gli stage: quei
soldi devono essere invece destinati agli istituti scolastici per l’arricchimento
di percorsi didattici culturali di qualità.
Questo stesso
Governo è artefice di un becero e pericoloso modello di sperimentazione di
lavoro gratuito, attraverso il quale 18.500 studenti di tutta Italia hanno
lavorato gratuitamente per Expo 2015.
L’Alternanza
Scuola/Lavoro, così come proposta, sarà solamente la seconda sperimentazione di
sfruttamento gratuito del lavoro giovanile e un addestramento alla precarietà,
in nome del profitto dei padroni, oltre che l’ulteriore dequalificazione della
scuola pubblica e del suo mandato culturale.
Studenti e lavoratori della scuola diciamo a gran
voce il nostro no all’Alternanza Scuola/Sfruttamento e chiediamo che gli stage:
-
non siano obbligatori, tanto da pregiudicare l’ammissione all’esame
finale di Stato, ma piuttosto venga data agli studenti la libertà di scelta;
-
vengano retribuiti
Assemblea studenti e lavoratori della scuola di
Torino contro la Legge
107/15 e il Jobs Act
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To:
Sent: Monday,
February 22, 2016 11:44 PM
Subject: L’ISTAT AVVERTE:
MINORE ASPETTATIVA DI VITA
Claudio Conti
Da Contropiano
Abbiamo
passato il punto di non ritorno? Vogliamo dire: il declino del “sistema paese”
è già arrivato a sorpassare quel livello oltre cui non è più possibile
riprendere in mano il proprio destino?
Noi
speriamo di no, naturalmente. Ma non c’è un solo dato statistico che ci
supporti minimamente in questo senso.
Prendiamo
i dati ISTAT, pubblicati oggi, sulla popolazione alla fine del 2015. “Al 1°
gennaio 2016 la popolazione in Italia è di 60 milioni 656 mila residenti (-139
mila unità). Gli stranieri sono 5 milioni 54 mila e rappresentano l’8,3% della
popolazione totale (+39 mila unità). La popolazione di cittadinanza italiana
scende a 55,6 milioni, conseguendo una perdita di 179 mila residenti”. La “invasione”
dei migranti non esiste e non riesce neanche a compensare la diminuzione netta
di popolazione autoctona. Significa che l’Italia non è un traguardo attraente
neanche per chi viene dalla guerra o dalla fame. Con buona pace di Salvini e di
tutti gli idioti che si nutrono a quella fonte di cazzate.
Buonismo
sinistrese? Non è quello che ci anima. Il secondo dato conferma (con numeri
appena un po’ inferiori a quelli stimati tre mesi fa) una tendenza drammatica.
Secondo l’ISTAT:
“I
morti sono stati 653 mila nel 2015 (+54 mila). Il tasso di mortalità, pari al
10,7 per mille, è il più alto tra quelli misurati dal secondo dopoguerra in
poi. L’aumento di mortalità risulta concentrato nelle classi di età molto
anziane (75-95 anni). Il picco è in parte dovuto a effetti strutturali connessi
all’invecchiamento e in parte al posticipo delle morti non avvenute nel biennio
2013-2014, più favorevole per la sopravvivenza”.
All’ISTAT
devono usare, obbligatoriamente, un profilo scientifico e un linguaggio asettico.
Ne va della credibilità dell’istituto. Ma questo aumento della mortalità tra
gli anziani (già monitorato attentamente qualche mese fa) ”è il più alto
tra quelli misurati dal secondo dopoguerra in poi”. La traduzione è semplice: è
dal 1943, mentre la guerra infuriava su questo territorio, i soldati spediti su
fronti lontani morivano come mosche e la popolazione rimasta sopravviveva tra
resistenza, bombardamenti e rappresaglie, che non si vedeva una moria simile.
Effettivamente, i due anni precedenti erano stati “più favorevoli per la
sopravvivenza”.
Da
cosa dipenda questa mortalità esplosiva non è dato sapere, in attesa di dati
disaggregati. Ma è inevitabile pensare ai tagli alla sanità pubblica, che hanno
“persuaso” molti anziani a curarsi di meno, saltare alcuni cicli di cure,
evitare una serie di analisi (dal ticket costoso) col risultato di trovarsi un “clima
meno favorevole alla sopravvivenza”.
Bene,
si potrebbe pensare con un pelo di cinismo orripilante. Qualche vecchio in
meno significa più spazio per i giovani, afflitti da una disoccupazione al 40%
e bloccati in attesa di entrare stabilmente nel novero delle “forze di lavoro”.
Purtroppo
non è che i giovani ci guadagnino alcunché, da una situazione del genere. Dice
infatti l’ISTAT: “Nel 2015 le nascite sono state 488 mila (-15 mila),
nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia. Il 2015 è il quinto anno consecutivo
di riduzione della fecondità, giunta a 1,35 figli per donna. L’età media delle
madri al parto sale a 31,6 anni”.
Vi
serve ancora una traduzione? Eccola: Dal 1860 (anno di partenza dell’Italia
unitaria) non ci sono mai stati così pochi neonati. Da allora ad oggi, però, la
popolazione è addirittura raddoppiata, se non qualcosa di più. In teoria, la
natalità (anche considerando il drastico cambiamento nelle abitudini sociali)
dovrebbe essere ben oltre quei livelli. Peccato che i giovani in età giusta per
fare figli (tra i 20 e i 45 anni, diciamo) sono un tantinello penalizzati sul
piano reddituale. Sono precari, quando va bene, o addirittura disoccupati. Con
salari reali oscillanti, quando va bene, tra i 400 e i 1.000 euro al mese.
Anche volendo farlo, un figlio, non se lo possono permettere. Al contrario di
150 anni fa, infatti, oggi farne crescere uno è quasi un lusso.
Dunque,
come sottolineerebbe subito il contestatissimo presidente dell’INPS, Tito
Boeri, c’è un “grande problema demografico”, perché gli over 65 “sono 13,4
milioni, il 22% del totale”. Il che porta la platea delle “forze in età da
lavoro”, tra i 15 ai 64 anni, a un altro minimo storico, sia in totale (39
milioni, il 64,3% del totale), sia nella parte che ancora non può essere
considerata tale (fino a 14 anni di età: 8,3 milioni, il 13,7%).
Questo
è insomma un paese dove si muore molto di più e si nasce sempre di meno. Vi
serve un pallottoliere per vedere dove andrà a finire?
Ma
come sempre la notizia vera, il veleno statistico, sta nella coda: “Diminuisce
la speranza di vita alla nascita. Per gli uomini si attesta a 80,1 anni (da
80,3 del 2014), per le donne a 84,7 anni (da 85)”. L’avevano scritto poco
tempo fa: le politiche di austerità hanno un codice genocida. L’ordine che
spira dalla Troika, realizzato con convinzione da tutti i governi degli ultimi
25 anni, è sempre stato “dovete morire prima”. Il che distrugge anche, di
conseguenza, l’argomento principale con cui si sostiene ancora la necessità di
alzare l’età pensionabile per raccordarla alle “aspettative di vita”. Problemi
seri, quando bisognerà procedere al ricalcolo periodico...
Ora
l’ISTAT registra che l’ordine è stato eseguito. Scende la speranza di vita,
diminuisce la popolazione, fuggono i giovani. Se non ci sbrighiamo a rovesciare
il tavolo e “licenziare” integralmente l’attuale classe dirigente (non solo “i
politici”, ma soprattutto il funzionariato “europeista”, l’imprenditoria
nazionale, il personale lecchinesco che popola i media di regime) rischiamo
seriamente di trovarci al di là di ogni possibile tentativo di “resurrezione”.
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To:
Sent: Wednesday, February 24, 2016 4:41 PM
Oggi il prodotto in gara per essere
dichiarato il peggiore del 2016 è sicuramente il Decreto Legge 30 dicembre 2015, n. 210, la cui
conversione in Legge è già stata approvata alla Camera e che nel giro di 10
giorni dovrà essere approvato al Senato a pena di decadenza.
PRODOTTO:
PROROGA PROGATA
Sto parlando del Disegno di Legge presentato
dal Presidente del Consiglio dei ministri (Renzi) di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze (Padoan) approvato dalla Camera dei Deputati il
10 febbraio 2016, trasmesso dal Presidente della Camera dei Deputati alla
Presidenza l’11 febbraio 2016: “Conversione
in Legge, con modificazioni, del Decreto Legge 30/12/2015, n. 210, recante
proroga di termini previsti da disposizioni legislative”
Tra le proroghe più significative vi è
certamente quella, denunciata da Marco Bazzoni, che riguarda l’adeguamento
antincendio nelle strutture alberghiere con oltre 25 letti e che ha spinto il
nostro intraprendente RLS toscano a denunciare alla Commissione Europea l’ennesima
violazione delle direttive 89/391/CE e 89/654/CE al fine di aprire una
procedura di infrazione contro l’Italia per un’inadempienza che dura da ben 22
anni (in pratica dall’entrata in vigore del D.Lgs. 626/94).
La parte proposta in gara per il
peggior prodotto del 2016 è presto detta. Basta Leggere l’impressionante
sequenza di date.
Per un approfondimento della questione
sotto il profilo tecnico-giuridico, rinvio all’articolo scritto da Marco
Bazzoni sul sito di “Articolo 21”
all’indirizzo:
che riporta per intero la lettera
inviata alla Commissione Europea e le motivazioni per la richiesta di avvio
della procedura di infrazione.
L’articolo è riportato per intero anche
in calce a questo post.
Aggiungo solo che tra le “proroghe prorogate” troviamo quella
relativa alla revisione delle macchine agricole (al 30 giugno 2016). Idem per
quanto riguarda la Legge
sulla bonifica degli ordigni bellici inesplosi.
Sulla revisione delle macchine agricole
(scadenze e adempimenti) vi consiglio il post di Luca Badonni che potete Leggere
all’indirizzo:
che vi aiuterà a prepararvi per la
scadenza del 3° giugno 2016, sempreché...
ULTIMISSIMA: l’approvazione
del Disegno di Legge al Senato è prevista stasera con voto di fiducia...tanto per
aumentare le probabilità di vittoria nel concorso.
Ma per sapere
di che si tratta vedi:
Franco
Mugliari alias Muglia La Furia
mail: fmuglia@tin.it
* * * * *
ENNESIMA
PROROGA ADEGUAMENTO ANTINCENDIO PER LE STRUTTURE ALBERGHIERE
E NESSUNO NE PARLA
Spett.le
Segretatariato Generale della Commissione Europea,
una lunga serie di proroghe si sono
susseguite a partire dal 1994 per quanto riguarda l’adeguamento antincendio per
le strutture ricettive turistico-alberghiere alla data del 9 Aprile 1994 con
oltre 25 posti letto. Cercando di sintetizzare, ma senza essere
probabilmente esaustivi, queste sono le proroghe che si sono succedute nel
tempo:
-
la Legge 463/01 ha spostato la proroga
dal 31/12/01 al 31/12/05;
-
il Decreto
Legge 300/06 al 30/04/07;
-
la sua Legge
di conversione (17/07) al 31/12/07;
-
il Decreto
Legge 97/08 al 30/06/08;
-
la sua Legge
di conversione (129/08) al 30/06/08;
-
il Decreto
Legge 78/09, convertito dalla Legge 102/09, al 31/12/10;
-
il Decreto
Legge 225/2010 al 31/03/11,
-
la sua Legge
di conversione (10/11) al 31/03/11;
-
il Decreto
delò Presidente del Consiglio dei Ministri del 25/03/11 al 31/12/11;
-
il Decreto
Legge 216/11 al 31/12/12;
-
la sua Legge
di conversione (14/12) al 31/12/12;
-
il Decreto
Legge 150/2013 al 31/12/14;
-
la sua Legge
di conversione (15/14) al 31/12/14;
-
il Decreto
Legge 192/14 al 30/04/15;
-
la sua Legge
di conversione (11/15) al 31/10/15.
Questa successione sta a significare
una volontà da parte del legislatore italiano di procrastinare all’infinito l’applicabilità
delle disposizioni antincendio per le strutture ricettive turistico-alberghiere
con più di 25 posti letto.
Il termine prorogato si riferisce alla
gran parte delle disposizioni dell’Allegato al Decreto Ministeriale del 9
aprile 1994, che costituisce la summenzionata “Regola tecnica
di prevenzione incendi”, e in particolare a quanto previsto nei punti b) e
c) dell’articolo 21 dell’Allegato stesso, che qui si riporta (si veda l’articolo 3bis del Legge 411/01):
“Articolo 21
– Altre disposizioni
21.2
Disposizioni transitorie
Le attività
ricettive esistenti devono adeguarsi alle disposizioni del presente Decreto, a decorrere
dall’entrata in vigore dello stesso, entro i seguenti termini:
a) due anni
per quanto riguarda le disposizioni gestionali di cui ai punti 14, 15 e 16;
b) al 31
dicembre 1999 [cinque anni] per quanto riguarda l’adeguamento alle
restanti prescrizioni, con esclusione di quanto previsto alla successiva
lettera c);
c) otto anni
per l’adeguamento, all’interno delle camere per ospiti, dei materiali
di rivestimento, dei tendaggi e dei materassi a quanto previsto dal punto
19.2.
Entro un
anno dall’entrata in vigore del Decreto dovrà essere presentato ai
Comandi provinciali dei Vigili del Fuoco, un piano programmato degli
eventuali lavori di adeguamento a firma del responsabile dell’attività”.
Il Disegno di Legge 2237 (conversione
in Legge del Decreto Legge 210/15, “Decreto Milleproroghe 2016”), approvato dalla
Camera dei Deputati il 10 Febbraio 2016 ha inserito all’articolo 4, comma 2, un
nuovo comma, cioè il 2-bis, che dice:
“All’articolo 11, comma 1, del Decreto
Legge 30 dicembre 2013, n. 150, convertito, con modificazioni, dalla Legge 27
febbraio 2014, n. 15, le parole: 31 ottobre 2015 sono sostituite dalle
seguenti: 31 dicembre 2016”
Il Governo ha messo la fiducia su tale Disegno
di Legge di conversione in Legge del Decreto Legge 210/15, quindi, questa
modifica diverrà Legge tra meno di una settimana e gli alberghi per il 22esimo
anno di fila, avranno, nuovamente, la proroga dell’adeguamento antincendio: una
vergogna tutta italiana.
Io ancora mi domando e sono anni che lo
faccio, quanto ancora, la Commissione Europea possa essere paziente e
sopportare questa ennesima presa in giro del Governo Italiano e una grave
violazione della sicurezza sul lavoro.
Cosa aspettate ancora ad aprire una
procedura d’infrazione contro l’Italia per questa violazione?
Il Decreto Ministeriale
del 9 aprile 1994, al Titolo II ”Disposizioni
relative alle attività
ricettive con capacità superiore a venticinque posti letto” contiene norme su l’ubicazione, le caratteristiche costruttive, misure per l’evacuazione in caso di emergenza, aree e impianti a rischio specifico, impianti elettrici, sistemi di allarme, mezzi e impianti di estinzione degli incendi, impianti di rilevazione e segnalazione degli incendi, segnaletica di sicurezza, gestione della sicurezza, addestramento del personale, registro dei controlli e istruzioni di sicurezza. Tutte queste norme non sono ancora in vigore in Italia a causa delle numerose proroghe.
ricettive con capacità superiore a venticinque posti letto” contiene norme su l’ubicazione, le caratteristiche costruttive, misure per l’evacuazione in caso di emergenza, aree e impianti a rischio specifico, impianti elettrici, sistemi di allarme, mezzi e impianti di estinzione degli incendi, impianti di rilevazione e segnalazione degli incendi, segnaletica di sicurezza, gestione della sicurezza, addestramento del personale, registro dei controlli e istruzioni di sicurezza. Tutte queste norme non sono ancora in vigore in Italia a causa delle numerose proroghe.
Questa serie di proroghe, insieme all’ultima
introdotta dal Decreto Legge 210/15 implicando una mancata applicazione di
un numero consistente di norme antincendio, è in contrasto con la
normativa dell’UE ed in particolare con la Direttiva 89/391/CE, che prevede che vi sia
un obbligo generale per il datore di lavoro di garantire la sicurezza e la
salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro (si veda l’articolo
5, comma 1).
La Direttiva 89/391/CE stabilisce, in particolare all’articolo 8,
rubricato “Pronto soccorso, lotta
antincendio, evacuazione dei lavoratori e pericolo grave e immediato”
ai commi 1 e 2 che:
“1. Il
datore di lavoro deve:
prendere, in
materia di pronto soccorso, di lotta antincendio e di evacuazione
dei lavoratori, le misure necessarie, adeguate alla natura delle attività
e alle dimensioni dell’impresa e/o dello stabilimento, tenendo conto di
altre persone presenti e organizzare i necessari rapporti con servizi esterni,
in particolare in materia di pronto soccorso, di assistenza medica di
emergenza, di salvataggio e di lotta antincendio.
2. In applicazione del paragrafo 1, il datore di lavoro deve in
particolare designare per il pronto soccorso, per la lotta antincendio e
per l’evacuazione dei lavoratori, i lavoratori incaricati di applicare
queste misure. Questi lavoratori devono essere formati, essere in numero
sufficiente e disporre di attrezzatura adeguata, tenendo conto delle dimensioni
e/o dei rischi specifici dell’impresa e/o dello stabilimento”.
Inoltre, la Direttiva 89/654/CE del
30 novembre 1989, relativa alle prescrizioni minime di sicurezza e di
salute per i luoghi di lavoro, prevede norme antincendio sia per
quanto riguarda gli impianti elettrici e i dispositivi di rivelazione e
lotta antincendio, sia riguardo ai luoghi di lavoro utilizzati per la
prima volta successivamente al 31 dicembre 1992 (articoli 3 e 5 dell’Allegato
I) sia quelli utilizzati per la prima volta in una data
successiva (articoli 3 e 5 dell’Allegato II).
Qui c’è una violazione evidente sia
della Direttiva europea 89/391/CE, che della Direttiva europea 89/654/CE.
Chiedo quindi a codesta Commissione
Europea, di protocollare quanto prima questa mia denuncia e di aprire quanto
prima una procedura d’infrazione contro l’Italia, che è inadempiente da ben 22
anni. Quanto ancora la Commissione Europea vuole sopportare tutto ciò?
Il Governo Italiano in tutti questi
anni ha assunto un atteggiamento di sfida verso Bruxelles, facendovi credere
che c’era un adeguamento biennale, qui a me sembra che c’è piuttosto una
proroga annuale, che è il segno evidente di una cosa: molti alberghi italiani non sono a norma con la normativa antincendio,
come previsto dalle Direttive europee 89/391/CE e 89/654/CE.
---------------------
From: Posta
Resistenze posta@resistenze.org
To:
Sent:
Thursday, February 25, 2016 12:52 AM
Subject: LOTTA PER LA LIMITAZIONE DELLA
GIORNATA DI LAVORO
Nel 1866 la Prima internazionale, al Congresso di Ginevra, stabilì la rivendicazione delle 8 ore di lavoro quotidiane. Il Congresso operaio americano, che si svolse nello stesso anno, avanzò una richiesta identica.
Una
richiesta pienamente attuale. Più che attuale, permanente: un nodo centrale
nella lotta di classe, sempre sotto il fuoco, sempre nella necessità di essere
sostenuto e difeso.
L’incredibile
sviluppo delle forze produttive e dei mezzi di produzione in questi 150 anni
giustifica non solo una radicale riduzione dell’orario di lavoro (quotidiano e
nel limite delle 35 ore settimanali), ma anche condizioni di produzione in
grado di liberare l’umanità da ogni costrizione economica e mancanza di
benessere.
Ma quanto
sta accadendo va nel verso opposto e l’impoverimento dei lavoratori è ovunque
accompagnato dallo sfruttamento intensivo del lavoro. Solo per citare il nostro
Paese, secondo i dati OCSE, ogni lavoratore ha lavorato in Portogallo 1.857 ore
nel 2014, contro le 1.849 del 2012 (in Italia, 1.734 nel 2014 e 1.733 nel 2013).
La
limitazione dell’orario di lavoro è presente in ogni svolta storica. E ad ogni
contraccolpo reazionario essa è uno dei primi obiettivi da distruggere. Per
intensificare lo sfruttamento, senza dubbio. Ma più ancora per indebolire la
forza dei lavoratori, per ritardare, interrompere e bloccare la loro
consapevolezza e organizzazione di classe. Ciascuna delle “tre otto” storiche
(otto ore di lavoro, otto ore di riposo, otto ore di tempo libero) è una
minaccia per il capitale, la cui offensiva si concentra sia sul tempo di lavoro
che su quello restante.
Disarticolando
gli orari in modo arbitrario e anarchico, “flessibilizzando” le mansioni,
intromettendo le imprese nel tempo libero, promuovendo e massificando il
consumo dei mezzi d’informazione e di intrattenimento ideologicamente formattati.
Ampliando ai rapporti sociali generali l’alienazione del processo di
produzione.
La lotta per
la riduzione delle ore di lavoro è la lotta dei lavoratori per il loro tempo.
Il tempo dello studio, della conoscenza, della cultura, dell’organizzazione.
Della comprensione del movimento della storia e del proprio inserirsi in esso.
Otto ore creano tutta la ricchezza. Le altre 8 + 8 creeranno le condizioni
perché essa sia equamente distribuita.
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From: Marco Caldiroli marcocaldiroli@alice.it
To:
Sent:
Thursday, February 25, 2016 9:41 AM
Subject: ESTREMI
NELL’AMBITO DELLA SICUREZZA SUL LAVORO
Le
condizioni di lavoro rimangono schifose per la maggioranza, ma la tecnologia
evolve...
Saluti
Marco
Caldiroli
* *
* * *
VIBRA
SULLA PELLE E TI SALVA LA VITA
È L’SMS PER CHI LAVORA IN CANTIERE
Gilet,
magliette e scarpe di nuova generazione, prototipi sensibili agli umori della
pelle e ai vapori ambientali. Una tecnologia integrata collegata a una centrale
intelligente, studiata per la sicurezza dei lavoratori in raffineria
La
tecnologia evolve rapidamente e chi lavora in azienda lo sa bene: piccoli
miglioramenti tecnologici sono costanti e portano sempre più cambiamenti significativi.
Si chiama Health & Safety
Ecosystem e viene definito suggestivamente “un ecosistema di
tecnologie da indossare”. Ci sono luoghi di lavoro pericolosi non solo per la
presenza di sostanze esplosive o tossiche, ma anche perché le condizioni ambientali
(cuffie alle orecchie, maschere sul viso), rendono difficile la percezione del
pericolo o la semplice comunicazione verbale. In una raffineria di petrolio o
in determinati cantieri la capacità di percepire in tempo un pericolo è
essenziale per la sopravvivenza.
Ecco dunque
il ricorso al primo degli elementi che compongono l’ecosistema sicuro, messo a
punto dai centri di ricerca dell’ENI, quello che una premurosa mamma del futuro
raccomanderebbe con frasi del tipo “tesoro, l’hai messa la supercanotta?”,
ovvero l’undershirt, una guaina in tessuto elastico da indossare a pelle
con sedici sensori, a loro volta collegati con la centrale Safety. In
questo caso l’allarme viene comunicato attraverso il più grande e diffuso
organo del corpo umano: la pelle. In caso di emergenza il lavoratore sentirà
una pressione sotto la gabbia toracica, oppure intorno alle spalle, un segnale
percepibile anche in condizioni estreme, che lo farà schizzare via dalla sua
postazione, nel caso indossando il proprio autorespiratore.
E’ accaduto
che la centrale Safety ha ricevuto il segnale di allarme e ha rispedito una
sorta di SMS tattile attraverso minuscoli motori incorporati nell’undershirt,
secondo codici che i lavoratori hanno imparato a decodificare con un breve
corso di addestramento.
Undershirt,
però, non è soltanto un ricevitore di messaggi. Attraverso i biosensori misura
la frequenza cardiaca di chi la indossa, la respirazione, la risposta galvanica
della pelle e in quale posizione si trova il soggetto. Dati che vengono trasmessi
alla centrale e possono determinare il soccorso immediato del lavoratore oppure
una sua sosta precauzionale.
E veniamo al
jacket (anche in questo caso, come per gli altri, siamo a un livello avanzato
di prototipo), progettato per rilevare fughe di gas, di monossido di carbonio o
di anidride solforica. I sensori sono incorporati nella parte superiore delle
maniche del giacchetto. In presenza di questi elementi, un SMS tattile, sempre
attraverso l’undershirt, verrà inviato a tutti gli operatori nella area
interessata. L’avviso sarà inoltrato alla sala controllo, agevolando così
i soccorsi.
Non solo:
vista la difficoltà di valutare i rumori ambientali, un sensore di volume
integrato nel jacket misurerà il livello dei decibel e la dannosità per l’udito
umano, un dispositivo molto utile in quei luoghi di lavoro dove le condizioni
mutano anche a poca distanza.
Sicurezza
vuol dire anche applicare in maniera corretta le procedure di sicurezza. A tal
scopo è stato progettato una sorta di moschettone elettronico per aiutare
gli operatori di impianto che lavorano in quota a rispettare le procedure di
sicurezza. Per verificare che il dispositivo sia correttamente agganciato, sono
stati introdotti dei sensori di pressione all’interno del moschettone stesso
che ne misurano la pressione applicata. Se il moschettone non è agganciato, il
sistema lo ricorderà all’operatore attraverso l’undershirt.
Non potevano,
infine, mancare le scarpe: in realtà sono un paio di solette da infilare dentro
qualsiasi calzatura antinfortunistica, capaci di percepire se il peso che si
sta sollevando è eccessivo e può procurare danni alla colonna e alle
articolazioni. Utile non solo per alcuni sforzi isolati ma anche per
sollevamenti prolungati e ripetuti nel tempo.
La ricerca ENI
si ferma rigorosamente qui, ma è impossibile non pensare al giovamento che
potrebbero trarre da questi studi alcune componenti essenziali della nostra
società, a cominciare dai vigili del fuoco o dagli artificieri, solo per fare
un esempio. Con i tempi che corrono non basta salvare la pelle. E’ la pelle che
deve salvarti.
---------------------
From: Riccardo Antonini erreemmea@libero.it
To:
Sent:
Friday, February 26, 2016 8:25 AM
Subject: VIAREGGIO: SUL PROCESSO IN
CORSO...
DALL’ASSOCIAZIONE
DEI FAMILIARI DELLA STRAGE FERROVIARIA (ANNUNCIATA) DEL 29 GIUGNO 2009 A VIAREGGIO.
80ESIMA UDIENZA:
POSSIAMO ALMENO DIRE LA NOSTRA?
Ieri, 24
febbraio, abbiamo assistito all’ennesima “udienza-vergogna” per quanto riguarda
consulenti e testimoni degli imputati. E’ stato detto, ancora e con forza, che
i nostri familiari li hanno uccisi e a noi non rimane che
aggiungere...consapevolmente!
Come
ripetiamo da 6 anni e mezzo, non c’era niente da inventarsi per rendere sicuro
quel treno-bomba: bastava applicare lo studio fatto dalle ferrovie nel 2005,
dotando i treni di sensori antisvio; bastava controllare ciò che proveniva dall’estero;
bastava pensare alla sicurezza e non al profitto ed al mercato. Moretti fece la
sua “riflessione” e scelse!
Il cavalier
Moretti ha licenziato il ferroviere Riccardo Antonini, perché la mattina del 1°
luglio 2009, a
poche ore dalla strage ferroviaria, rilasciò una dichiarazione alla stampa
sulla presenza di Moretti a Viareggio il 30 giugno 2009. Alle ore 13.15 di
fronte alla sala montata spezzata si rivolse a un suo attendente con queste
parole: “D’ora in avanti dobbiamo controllare tutto ciò che viene dall’estero!”
E questo sarebbe il “conflitto d’interessi” per cui è stato licenziato Riccardo?!
Niente vale
più della vita umana, NIENTE!!!
Giudice
Nannipieri (che ha confermato questo licenziamento) legga i quotidiani locali
di oggi e rifletta...per non sbagliare mai più.
E la professoressa
Torchia? (solo per citarne una).
Che possiamo
dire? Le Ferrovie “amano” contornarsi di “imputati”, consulenti, testimoni...e
li premiano...li promuovono...tutto a norma...tutto sempre regolare nel “sistema
ferroviario”!
“Consapevolmente”,
l’Associazione dei familiari “Il Mondo Che Vorrei” onlus con tanto dolore
attende la verità, la giustizia e la sicurezza in quell’aula di Tribunale; non
accetta e respinge al mittente i racconti inauditi e offensivi per ogni essere umano
che ogni mercoledì il nostro udito e la nostra dignità sono costretti a subire
per difendere i nostri bambini, le nostre ragazze, i nostri figli, i nostri
familiari, ma mai e poi MAI accetteremo la prescrizione su questa immane
tragedia.
NO alla
PRESCRIZIONE per Viareggio e tutte le altre stragi!
IL NOSTRO
DOLORE MAI CADRA’
IN PRESCRIZIONE!
Per l’associazione
Il
presidente
Marco
Piagentini
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