INDICE
Andrea
Fioretti a.fiore@libero.it
CONTRO
LA DEPORTAZIONE E
I LICENZIAMENTI: SCIOPERIAMO MARCEGAGLIA!
Post
Resistenze posta@resistenze.org
LA
LEZIONE DI STARACE ALLA LUISS: COME SI SCONFIGGONO I
LAVORATORI
Post Resistenze posta@resistenze.org
IL LIBRO “ATTUALITA’ SU AMBIENTE E SALUTE”
AIEA Onlus - Newsletter newsletter@associazioneitalianaespostiamianto.org
UN CONTRIBUTO ALLA LOTTA ALL'AMIANTO: VERSA IL TUO 5X1.000
AD AIEA ONLUS
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To:
Sent: Tuesday, May 24, 2016 4:47
PM
Subject: CONTRO LA DEPORTAZIONE E I
LICENZIAMENTI: SCIOPERIAMO MARCEGAGLIA!
Il
prossimo 15 giugno l’azienda ci ha ancora ingiunto la deportazione dallo
stabilimento milanese a quello di Pozzolo Formigaro in Piemonte.
Noi
non possiamo stare a guardare e faremo l’impossibile da oggi fino al 15 per far
cambiare di nuovo idea all’azienda.
Ognuno
di voi però può darci una mano:
-
in
questi 21 giorni facendo girare più possibile il nostro comunicato;
-
organizzando
ovunque affissioni e scritte sui muri, nelle bacheche aziendali, in Università
a sostegno della nostra vertenza;
-
inventando
qualunque cosa possibile e impossibile per denunciare Marcegaglia.
Noi
chiediamo solo 7 posti di lavoro per i 7 operai che non hanno accettato il
piano di deportazione aziendale, così come espresso anche dallo stesso accordo
di chiusura, in uno degli stabilimenti limitrofi a Milano.
Ci
risiamo! La lotta non si può fermare!
L’anno
scorso il “potere forte” di Marcegaglia ha tentato di licenziarci tentando di
deportarci a Pozzolo Formigaro.
L’occupazione
del reparto produttivo e il presidio del tetto presso l’azienda di Milano in
Viale Sarca ci ha fatto strappare un accordo col quale siamo stati ricollocati
in cassa integrazione straordinaria e la riattivazione dell’accordo che
prevedeva che l’azienda dovesse tentare di ricollocarci in uno degli
stabilimenti nei pressi di Milano (Boltiere, Corsico, Lainate e Lomagna).
La Marcegaglia in tutti questi mesi
ha tergiversato e ci ha raccontato un mare di bugie. Noi sappiamo che negli
stabilimenti in questione si lavora sotto organico e il nostro inserimento
sgraverebbe in parte l’eccesso di lavoro caricato sui nostri colleghi e
migliorerebbe qualità e quantità produttiva. Ma l’azienda ci vuole punire ancora.
Chiaramente ci dice che le esigenze produttive sono a sua discrezione per cui
non ritiene doverci reintegrare.
In
un incontro tra le parti il 2 maggio scorso ci ha comunicato che non hanno
soluzioni alternative al trasferimento, coi nostri mezzi, nello stabilimento di
Pozzolo Formigaro. Per tale ragione ci sono state già recapitate le lettere che
ci intimano di presentarci nella fabbrica piemontese il prossimo 15 giugno. Una
nuova lettera di licenziamento mascherata dal trasferimento!
La
nostra dignità non è disponibile! La nostra vita, le nostre famiglie, i nostri
affetti non sono a disposizione della banda Marcegaglia! Vogliamo un lavoro per
ognuno dei 7 nei 4 stabilimenti previsti.
Per
questo motivo saremo costretti a mettere in campo tutte le iniziative di lotta
anche “impossibili e inimmaginabili” per poter ridare speranza al nostro
futuro!
Chiediamo
alle RSU e ai lavoratori degli stabilimenti Marcegaglia di sostenere le nostre
future iniziative!
Chiediamo
alle lavoratrici e ai lavoratori, ai compagni e alle compagne, agli uomini e
alle donne che ci hanno sostenuto o che vorrebbero farlo a sostenere la nostra
battaglia, a far conoscere e denunciare l’arroganza di questo padrone, a
costruire assieme a noi o anche autonomamente iniziative di lotta contro il
padrone del Jobs Act, del salario d’ingresso, esponente di punta del potere
affatto occulto che ci vuole in miseria e super sfruttati.
I
nostri fratelli francesi stanno dimostrando che lottare è possibile e giusto!
Piegare
la volontà del potere di Marcegaglia potrebbe essere una scintilla che rompe
con la rassegnazione degli ultimi anni!
Abbiamo
bisogno del sostegno attivo di tutte e tutti!
Mettetevi
in contatto con noi per essere informati dei prossimi appuntamenti.
I
7 operai in lotta.
cellulare:
349 49 06 191
Facebook:
Autoconvocati Marcegaglia
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From: Post Resistenze posta@resistenze.org
To:
Sent: Thursday, May 26, 2016
2:45 AM
Subject: LA
LEZIONE DI
STARACE ALLA LUISS: COME SI SCONFIGGONO I LAVORATORI
Da Senza Tregua
20/05/16
Si è tornato a discutere in questi giorni delle affermazioni di Francesco Starace, amministratore delegato dell'ENEL, pronunciate lo scorso 14 aprile durante una lezione alla LUISS. Il video dell’intervento è visibile al link:
Si è tornato a discutere in questi giorni delle affermazioni di Francesco Starace, amministratore delegato dell'ENEL, pronunciate lo scorso 14 aprile durante una lezione alla LUISS. Il video dell’intervento è visibile al link:
Nel
rispondere a una domanda su come si possa "promuovere il cambiamento"
all'interno di un'azienda, ha candidamente affermato che bisogna individuare
chi è contrario al cambiamento per "ispirare
paura, promuovere il malessere, distruggere fisicamente i centri di potere che
si oppongono al cambiamento".
Chi mastica
la neolingua parlata dai moderni padroni non avrà avuto difficoltà nel leggere
"licenziamenti e riduzione dei salari, aumento degli orari
contrattuali" dietro la parola "cambiamento", o "lavoratori
organizzati" al posto di "centri di potere che si oppongono al
cambiamento".
Che questa
"lectio magistralis" di governance aziendale su come schiacciare i
lavoratori si sia tenuta alla LUISS, non è cosa che sorprende più di tanto. Al
giovane lettore che ha la fortuna di non sapere ancora cos'è la LUISS, basti sapere che è
un'università privata di Roma fra le più prestigiose e costose, che nei casi
migliori sforna nuovi dirigenti aziendali (perché anche i padroni hanno bisogno
di ricambio generazionale), nei casi peggiori produce utili idioti, di quelli
capaci di affermare con convinzione che se i poveri sono poveri è perché non
fanno impresa.
La lezione
di Starace, tuttavia, non insegna soltanto ai giovani rampolli della LUISS, ma
suo malgrado dà una lezione a milioni di giovani che oggi sono condannati alla
precarietà, al futuro di incertezza e senza diritti imposto da questo sistema
alle nuove generazioni. Questa lezione è che non solo la lotta di classe, per
quanto si possa negarlo, esiste, ma oggi la conducono i padroni e purtroppo la
stanno anche vincendo. La stanno vincendo non solo dal punto di vista
socio-economico e politico, ma anche sotto l'aspetto culturale e ideologico: la
riprova sta proprio nel fatto che se un dirigente aziendale spiega in una
università la tattica per vincere l'opposizione dei lavoratori, parlando come i
peggiori capitalisti di un secolo fa, la cosa è considerata normale al di là di
qualche polemica di circostanza. Se si parlasse invece di lotte dei lavoratori
per i propri diritti l'accusa a reti unificate sarebbe quella di essere rimasti
al '900: da destra, perché "i lavoratori dovrebbero ringraziare le imprese
che producono ricchezza e danno lavoro", da sinistra perché "oggi
bisogna parlare di società civile, non di lavoratori".
Dinanzi a
questa verità sono molto poco utili, se non quasi deleterie, esternazioni come
quella dei senatori di Sinistra Italiana, che hanno semplicemente accusato
Starace di aver fatto affermazioni di stampo fascista. Una chiave di lettura
comoda, magari neanche sbagliata nel merito, che però non affronta la questione
centrale e porta a rifugiarsi dietro alla retorica di un certo antifascismo
istituzionale incapace di fornire risposte adeguate.
Oggi la
questione centrale è quella della coscienza di classe che va promossa fra le
classi popolari e in particolare fra le nuove generazioni: la coscienza di
appartenere a una classe di sfruttati, contro cui quelli come Starace conducono
una lotta impari finalizzata unicamente all'estrazione di profitti sempre
maggiori. Un elemento assolutamente centrale, se si pensa che dall'assenza di
questa coscienza nascono conflitti fra poveri sia all'interno dei singoli
luoghi di lavoro (la competizione fratricida fra i dipendenti per conservare il
posto di lavoro in vista di licenziamenti), sia nei quartieri popolari dove
questo conflitto assume una connotazione etnica, sfociando in episodi di
razzismo. Molto spesso sono gli stessi padroni a fornirci materiale per
acquisire questo particolare tipo di coscienza: in questo senso il video della
risposta di Starace è uno strumento preziosissimo, che consiglio di visionare a
ogni giovane comunista che voglia consolidare le proprie convinzioni.
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From: Post Resistenze posta@resistenze.org
To:
Sent: Thursday, May 26, 2016
2:45 AM
Subject: IL
LIBRO “ATTUALITA’ SU AMBIENTE E SALUTE”
Pubblichiamo il primo capitolo del libro “Attualità su ambiente e salute”,
edizioni Aracne, 2014:
che racconta la lotta contro la nocività in fabbrica e nel territorio
nelle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni negli anni 70' e la nascita del Comitato per la difesa della salute
nei luoghi di lavoro e nel territorio (http://www.comitatodifesasalutessg.com).
Il libro composto di sei capitoli tratta diversi argomenti ed è scritto
da autori vari. Il primo capitolo racconta le lotte e la nascita del comitato.
LO SFRUTTAMENTO DELL'UOMO IMPRENDITORE SULL'UOMO LAVORATORE, LE LOTTE DEI
COMITATI SPONTANEI DI CITTADINI, LE ATTIVITÀ SINDACALI, LE CONTROVERSIE LEGALI,
LA PRESTAZIONE
SANITARIA
Michele
Michelino e Daniela Trollio
PREMESSA
Il titolo di questo capitolo iniziale potrà sembrare troppo "assertivo" al nostro lettore, ma quanto segue non è solo un ragionamento, ma una "storia" vera, di uomini e donne di carne e sangue, che dimostra esattamente le conseguenze dello sfruttamento (malattie, sofferenze, morti), ma anche l'idea che vi sta dietro. E questa idea è che nella nostra società tutto è merce, l'uomo lavoratore in primo luogo e, come ogni merce, egli è fatto soprattutto per essere consumato fino alle estreme conseguenze purché questo porti benefici (che si chiamano profitti) all'uomo imprenditore. Sfruttamento è un termine che può sembrare a molti ottocentesco: purtroppo la nostra storia, come quella di moltissimi altri, è invece una storia tremendamente attuale e moderna, una storia che l'uomo imprenditore continua a perpetuare, ma in cui l'uomo lavoratore si ribella e si organizza per non essere più merce da buttare.
Il titolo di questo capitolo iniziale potrà sembrare troppo "assertivo" al nostro lettore, ma quanto segue non è solo un ragionamento, ma una "storia" vera, di uomini e donne di carne e sangue, che dimostra esattamente le conseguenze dello sfruttamento (malattie, sofferenze, morti), ma anche l'idea che vi sta dietro. E questa idea è che nella nostra società tutto è merce, l'uomo lavoratore in primo luogo e, come ogni merce, egli è fatto soprattutto per essere consumato fino alle estreme conseguenze purché questo porti benefici (che si chiamano profitti) all'uomo imprenditore. Sfruttamento è un termine che può sembrare a molti ottocentesco: purtroppo la nostra storia, come quella di moltissimi altri, è invece una storia tremendamente attuale e moderna, una storia che l'uomo imprenditore continua a perpetuare, ma in cui l'uomo lavoratore si ribella e si organizza per non essere più merce da buttare.
Quello che
leggerete è la storia (e soprattutto il "sapere" derivato
dall'esperienza di lotta) del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel
Territorio di Sesto San Giovanni, l'ex Stalingrado d'Italia, la città delle
grandi fabbriche, Comitato costituito da lavoratori che per anni hanno lavorato
in queste grandi fabbriche e ne portano le cicatrici.
SFRUTTAMENTO, "MONETIZZAZIONE DELLA SALUTE" E DELEGA
Le lotte per
migliorare le condizioni di vita e gli ambienti di lavoro degli operai e dei
lavoratori, quelle contro la riduzione dei salari, contro la nocività e per il
miglioramento degli ambienti di lavoro insalubri sono un patrimonio della lotta
più generale della classe operaia.
Da sempre
gli operai, insieme con la lotta sindacale, lottano anche per cambiare leggi
ingiuste che legittimano il sistema sociale fondato sullo sfruttamento
dell'uomo sull'uomo.
Le lotte per
la salute cominciano con l'avvento del capitalismo e i lavoratori hanno
imparato a loro spese che i morti sul lavoro non sono mai una fatalità, ma il
costo pagato dagli operai alla realizzazione del profitto.
I morti sul
lavoro sono parte della brutalità e della violenza del sistema capitalista.
Protetti da
leggi che tutelano la proprietà privata dei mezzi di produzione, lo
sfruttamento e il profitto, i capitalisti anche nel ventunesimo secolo
continuano a godere dell'impunità e della licenza di uccidere.
La maggior
parte degli infortuni sul lavoro, i morti sul lavoro e di lavoro causati dalle
sostanze cancerogene impiegate nei processi di produzione spesso sono imputati
alla disattenzione degli operai. La realtà è che datori di lavoro senza
scrupoli, pur di risparmiare pochi centesimi, non esitano a far lavorare operai
e lavoratori senza fornire adeguati dispositivi individuali e collettivi di
protezione e molti infortuni gravi o mortali non dipendono dal "destino
crudele" ma dalle sete di guadagno.
Noi operai
nel sistema capitalista non siamo altro che forza-lavoro: carne da macello; ma
non possiamo accettare di essere delle semplici merci in balia del padrone di
turno, non possiamo accettare che sia il mercato a decidere quando e come
dobbiamo lavorare costringendoci a salari da fame, alla disoccupazione o a
pensioni miserabili dopo una vita di lavoro in cui abbiamo arricchito dei
parassiti.
La morte di
tanti nostri compagni di lavoro “colpevoli” solo di aver usato sostanze
cancerogene nei luoghi di produzione senza essere a conoscenza dei rischi e dei
pericoli che correvano ci ha portato alla consapevolezza e alla voglia di
giustizia.
Noi
continuiamo a lottare contro tutte le morti "innaturali", anche se
siamo coscienti che, solo abolendo lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, la
classe operaia può liberarsi completamente dallo sfruttamento.
Anche nelle
fabbriche italiane le lotte hanno origini lontane nel tempo e sono state
provocate dalla brutalità delle condizioni di lavoro, causa continua di
malattie, infortuni, invalidità, morte.
In Italia
gli anni che vanno dal 1965 al 1970 hanno visto gli operai protagonisti di dure
lotte che mettevano in discussione, tra le altre cose, anche gli ambienti di
lavoro insalubri e ponevano con forza la necessità e l'urgenza di sottrarre il
lavoratore al lento massacro cui era sottoposto. In quegli anni scioperi,
fermate improvvise e spontanee di operai e di gruppi di lavoratori costretti a
lavorare in ambienti angusti e nocivi, nelle fonderie, nelle forge e in
ambienti a caldo, nei cantieri e nelle campagne, soprattutto nei mesi estivi
quando la temperatura sul posto di lavoro diventa intollerabile, erano la prima
forma di difesa e di ribellione. Nelle piattaforme, insieme al salario, si
rivendicavano obiettivi che riguardavano l'organizzazione e l'ambiente di
lavoro.
Tuttavia, in
ogni occasione, alla conclusione della lotta era evidente lo scollamento che si
manifestava tra quello che gli operai rivendicavano e i risultati raggiunti dai
"loro" rappresentanti sindacali che, pur di non ostacolare la
produzione, si accontentavano di "difendere" i lavoratori monetizzando
la salute.
La crescente
combattività operaia era smorzata dal sindacato che cercava di controllare la
lotta operaia e che spesso era incapace o non voleva dare continuità e
organizzazione a questa combattività.
La linea
ufficiale delle organizzazioni sindacali per anni è stata quella della
monetizzazione della salute.
Il sindacato
e i partiti politici che lo controllavano, sotto la pressione e le lotte
spontanee contro la nocività dei lavoratori, sono quindi stati costretti a
interessarsi della salute assumendosene la "delega", anche se nessuno
l'aveva loro concessa, nel tentativo di togliere il protagonismo ai lavoratori.
Nello
scontro col padronato i lavoratori sono stati costretti a sperimentare nuove
forme di lotta. I lavoratori sanno che dalla loro parte hanno il numero, sono
tanti, e comprendono che nell'unità c'è la loro forza d'urto, ma anche che
nella fabbrica, per battere il dominio incontrastato del padrone, bisogna
sviluppare una propria, autonoma e indipendente capacità critica della
complessiva organizzazione capitalistica del lavoro.
Le lotte che
iniziavano con il suono improvviso dei campanacci, dei fischietti o delle
sirene che davano il segnale dell'inizio dello sciopero o della ripresa del
lavoro, secondo le decisioni preventivamente concordate, erano anche momenti di
discussioni collettive sul contratto, sulla brutalità delle condizioni di
lavoro nella fabbrica, sul complessivo sfruttamento cui è sottoposto il
lavoratore.
Per il
padrone e gli istituti da lui chiamati a controllare la salubrità degli
ambienti di lavoro la concentrazione di polvere, gas e fumi, il calore, la
rumorosità, la luminosità, i ritmi e la fatica del lavoro, la situazione è
sempre normale; per i lavoratori la situazione invece è molto diversa e
sentivano, e tuttora spesso sentono, che questi istituti apparentemente neutri,
ma pagati del padrone, li imbrogliavano e continuano a imbrogliarli.
L'INDAGINE OPERAIA E L'ORGANIZZAZIONE CAPITALISTICA DEL LAVORO
L'indagine
operaia nel corso del suo procedere si rivela sempre molto più ricca di significati
e implicazioni politiche di quanto non fosse nelle nostre previsioni.
Se
inizialmente la maggioranza di noi riteneva che la salute del lavoratore
potesse essere tutelata attraverso l'adozione di strumenti protettivi
(aspiratori, maschere, tute, ecc.) capaci di preservarci dalle nocività così
come s'intende normalmente (calore, rumore, polveri ecc.), nel corso
dell'indagine verificavamo come tutta l'organizzazione del lavoro nella
fabbrica fosse essa stessa nocività.
In altre
parole cottimo, ritmi, orario di lavoro, organici, qualifiche, dislocazione e
tipo del macchinario, costituivano insieme con il rumore, il calore, le
polveri, quel tutto unico che significa sfruttamento del lavoratore.
MEDICINA PREVENTIVA, RAPPORTO MEDICO-LAVORATORE
Le visite
periodiche, da parte dei medici di fabbrica si svolgevano in questo modo: “Si va all'infermeria, si viene pesati, viene
fatto firmare un documento senza che nessuno spieghi cosa vi sia scritto. Il
medico interroga il lavoratore sulle malattie subite nel recente passato,
ausculta i polmoni, prova la pressione del sangue: la durata media della visita
non supera i 6-7 minuti. Molte volte non c'è neppure fatta togliere la giacca”.
Il
lavoratore si reca alla visita per pura formalità: non conoscerà l'esito reale
della visita, sa che quella "visita" non c'entra nulla con la tutela
della sua salute, essa fa parte di un rapporto privato tra il medico e la Direzione volto ad
accertare unicamente l'efficienza produttiva del lavoratore. Col medico di
fabbrica ci si confida il meno possibile per il timore di essere dichiarati
inidonei al proprio attuale lavoro e di essere spostati in un altro reparto,
subendo una decurtazione di salario.
Nel
frequente caso di disturbi e malattie ci si rivolge con fiducia al proprio
medico curante, ma questi, per la cultura professionale che gli è stata
generalmente impartita all'università, non conosce minimamente le condizioni di
lavoro cui è sottoposto il suo paziente e quindi, non essendo in grado di
stabilire un rapporto tra disturbi denunciati e ambiente di lavoro, non ha, in
linea di principio, la possibilità di formulare una diagnosi corretta.
Il medico si
trova di fronte a malattie di cui non è in grado di controllare le cause e
quindi la sua sfera d'intervento è limitata ad alleviare il dolore del paziente
con dei farmaci.
Questo vale
per il passato, quando pensiamo all'Italia delle grandi fabbriche diffuse su
tutto il territorio, con le centinaia di migliaia di operai che ci lavoravano,
ma purtroppo anche per il presente.
E' quindi necessario
istituire un'efficiente medicina preventiva che, ricercando scientificamente il
rapporto di causalità tra malattie tipiche della società industriale (disturbi
cardiaci, reumatismi, bronchiti, tumori, ecc.) e ambiente di lavoro, intervenga
sull'ambiente di lavoro per rimuovere le vere cause delle malattie.
Al tecnico
della salute vanno quindi messi a disposizione tutti i dati sull'ambiente di
lavoro: dati che scaturiscono dalle osservazioni sistematiche dei gruppi
omogenei di lavoratori e dati rilevati con strumenti tecnici adeguati.
Sulla base
della nostra esperienza noi riteniamo necessario un nuovo rapporto fra medico e
lavoratore, un rapporto dialettico di reciproco arricchimento di cognizioni, un
rapporto che li deve vedere entrambi necessari protagonisti di una medicina a
favore dell'uomo che lavora.
CONTROVERSIE LEGALI E PRESTAZIONE SANITARIA, REGISTRO ESPOSTI AMIANTO
Gli ex
lavoratori esposti all'amianto costretti a lavorare in fabbriche e reparti
lager, come altri lavoratori e cittadini sottoposti alle fibre killer, hanno
un'aspettativa di vita minore di circa 10 anni rispetto al resto della
popolazione.
Per questo,
dopo dure lotte dei lavoratori, fu approvata nel 1992 la legge 257 che metteva
al bando l'amianto, stabiliva la sorveglianza sanitaria e risarciva i lavoratori concedendo loro alcune
agevolazioni in materia pensionistica poiché morivano prima.
La legge fu
approvata grazie alla mobilitazione dei lavoratori che manifestarono giorni e
notti davanti al Parlamento che doveva approvare la legge. Allora i
finanziamenti previsti dalla legge non riguardavano tutti i lavoratori esposti
all'amianto, ma solo i lavoratori addetti alle miniere e fabbriche di cui si
prevedeva la chiusura (circa 4.500 unità) e la legge era intesa come un
ammortizzatore sociale. Le lotte dei lavoratori esposti all'amianto che
rivendicavano lo stesso diritto allargò ulteriormente la platea, che nel 1993
si valutava in 50.000 unità.
Anche il
registro dei lavoratori esposti o ex esposti amianto era limitato. Esso riguardava
solo i lavoratori residenti nei territori, comuni e città, dove avevano sede le
fabbriche, ma ignorava completamente i luoghi dove, invece, i lavoratori di
queste aziende vivevano.
Ad esempio,
la maggioranza dei lavoratori delle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni, Ansaldo,
Breda, Falck, Marelli, Pirelli, non abitavano a Sesto San Giovanni ma in città
e paesi delle provincie di Bergamo, Brescia, Milano, Varese, Piacenza, Pavia,
oppure nei comuni limitrofi come Cinisello Balsamo, Cologno Monzese, Bresso,
Segrate, Monza.
A tutt'oggi
i pochi studi epidemiologici fatti sono falsati perché non tengono conto di
dove era situata la fabbrica in cui lavoravano, ma solo del territorio dove
abitavano.
Con cavilli
burocratici di ogni genere, l'INAIL e l'INPS (gli enti preposti
istituzionalmente a certificare l'esposizione ed erogare la pensione
corrispondente) continuano a non applicare la legge, negando quella
certificazione che permetterebbe ai malati e ai lavoratori ex esposti
all'amianto di andare prima in pensione, nonostante la loro esposizione sia
certificata dai documenti del datore di lavoro e dall'ASL.
L'INAIL in
molti casi si comporta peggio di un'assicurazione privata. Per far valere i
loro diritti, i lavoratori e i cittadini sono così costretti a lottare e
sostenere lunghe e costose cause in Tribunale (con i loro scarsi mezzi) contro l'atteggiamento dell'INAIL lesivo
della dignità, della salute e dei diritti dei lavoratori.
Invece di
indennizzare gli infortunati e le malattie professionali aumentando le rendite,
l'INAIL risparmia i soldi (dei lavoratori) sulla loro pelle, usandoli per scopi
non certo nobili come la speculazione finanziaria, nel più totale e complice
silenzio di partiti e sindacati e istituzioni.
Questo ente ha accumulato un "tesoretto" di 25
miliardi di euro, e invece di usarli per le vittime, per i lavoratori
infortunati e malati aumentando le quote previste per risarcire gli infortuni e
le malattie professionali, li usa per altri scopi.
L'INAIL è
anche un ente in palese conflitto d'interessi, essendo quello che deve
riconoscere l'esposizione all'amianto e le malattie professionali, ma anche
quello che deve indennizzarle.
Per far
riconoscere i diritti delle vittime e stanchi delle lungaggini burocratiche, il
nostro Comitato e altre associazioni più volte hanno portato la loro rabbia e
la loro protesta direttamente dentro e fuori dei palazzi del "potere"
e i lavoratori e le lavoratrici, insieme coi famigliari delle vittime,
"armati" di fischietti, coperchi di pentole, campanacci e sirene hanno
"esposto" con forza le loro ragioni, perché il tempo non gioca a
favore dei malati, e delle vittime e questi enti lo sanno molto bene.
Le proteste
e le lotte sono servite per fare riaprire trattative interrotte con l'INAIL e
anche far sentire e vedere ai giudici nei Tribunali la voglia di giustizia
delle vittime.
L'esperienza
(nostra e d'innumerevoli altri comitati e associazioni di vittime presenti su
tutto il territorio nazionale) ha dimostrato che la partecipazione alle lotte
dei diretti interessati che partecipano in prima persona senza delegare è
l'aspetto vincente e che LA
LOTTA PAGA!
PREVENZIONE PRIMARIA E SANZIONI
In mancanza
di serie e certe sanzioni, molti datori di lavoro, che si arricchiscono
attraverso lo sfruttamento degli esseri umani, quando accadono infortuni
mortali parlano dei morti sul lavoro come di "tragedie
imprevedibili". Le chiamano "morti bianche", come se i
lavoratori assassinati fossero morti per caso, senza responsabilità di alcuno,
arrivando in alcuni casi a sostenere che la colpa degli infortuni sarebbe
causata della disattenzione degli operai stessi.
In Italia ci
sono più di 800.000 invalidi del lavoro e 130.000 sono le vedove e gli orfani
"del lavoro".
I datori di
lavoro responsabili di questi assassini, da buoni "filantropi", hanno
istituito la "Giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul
lavoro" per ricordare alle potenziali vittime (i lavoratori) di stare più
attenti, e mentre piangono lacrime di coccodrillo, continuano a fare profitti
risparmiando sulla sicurezza.
La vita e
l'umanità di certi industriali non sono dettate dai battiti del cuore, ma dalla
velocità con cui il capitale si accumula, sfruttando i lavoratori, e riempie il
loro portafoglio.
Per alcuni
la perdita di vite umane nel processo produttivo è considerata fisiologica, al
massimo un aumento dei costi dell'assicurazione INAIL.
A questi
signori, quello che interessa non è eliminare questa mattanza, ma contenere il
"fenomeno degli incidenti" sul lavoro, che si traduce per loro in una
perdita economica.
Secondo
l'ILO (l'International Labour Office), ogni giorno muoiono nel mondo più di 6.000
persone per infortuni e malattie professionali.
Nonostante
le campagne pubblicitarie, a livello mondiale il numero dei lavoratori morti
per infortuni sul lavoro e malattie professionali sono sempre da bollettino di
guerra.
Le malattie
professionali diluiscono invece le morti nel tempo: per esposizione o contatto
con sostanze nocive e cancerogene nel processo di produzione l'ILO stima che
ogni anno perdano la vita circa 438.000 lavoratori, cifra senz'altro in difetto
rispetto alla realtà.
L'amianto,
in particolare, è responsabile della morte di oltre 100.000 persone l'anno (più
di 4.000 nella sola Italia), mentre la silicosi continua a colpire milioni di
lavoratori e pensionati nel mondo.
Esiste una
guerra non dichiarata fra sfruttati e sfruttatori in cui i morti, i feriti e
gli invalidi si contano da una parte sola: quella degli operai e dei lavoratori
che producono la ricchezza da cui sono esclusi. Così scriveva Giovanni
Berlinguer (Medicina del lavoro
in “La salute nella fabbrica”,
edizioni Italia–URSS, Roma 1972, pagina 32):
"Nel ventennio1946–1966 si sono verificati in
Italia 22.860.964 casi di infortunio e di malattia professionale, con 82.557
morti e con 966.880 invalidi. Quasi un milione di invalidi, il doppio di quelli
causati in Italia dalle due guerre mondiali, che furono circa mezzo milione.
Mentre la media degli infortuni e malattie professionali nel ventennio
1946–1966 è stata lievemente superiore ad 1 milione di casi annui, negli anni
dal 1967 al 1969 la cifra è salita ad oltre 1,5 milioni di casi e nel 1970 a 1.650.000 di casi".
Sono passati
più di 40 anni da questo studio, ma la condizione della classe operaia italiana
è in continuo peggioramento.
Nella crisi
si riducono i posti di lavoro, ci sono meno lavoratori occupati, diminuiscono
lievemente i morti, ma in percentuale aumentano sia i morti sia gli infortuni.
L'Eurispes
ha calcolato che dall'aprile 2003 all'aprile 2007 i militari della coalizione
che hanno perso la vita in Iraq sono stati 3.520, mentre dal 2003 al 2006 in Italia i morti sul
lavoro sono stati ben 5.252 e l'età media di chi perde la vita è intorno ai 37
anni. Gli incidenti sul lavoro in
Italia hanno fatto più morti fra i lavoratori che fra i soldati del patto
occidentale nella seconda guerra del Golfo.
Secondo dati
Eurostat (del 2005) ogni anno 5.700 persone muoiono a causa di incidenti sul
lavoro. L'OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) stima che altri
159.500 lavoratori perdano la vita a causa di malattie professionali.
Sommando i
dati si stima che nell'Unione Europea ci sia un decesso per cause legate
all'attività lavorativa ogni 3 minuti e mezzo.
Anche le
malattie professionali non tabellate sono in aumento: nel 2002 erano il 71%, nel
2006 sono arrivate all'83%, mentre l'istituto calcola in 200.000 gli incidenti
sommersi e non denunciati.
DI LAVORO SI CONTINUA A MORIRE
Questi dati
ci dicono che avremmo bisogno di prevenire gli "incidenti" con leggi,
sanzioni e una medicina preventiva in grado di rintracciare le cause che
producono malattie e morte e di eliminarle.
Questo non
succede perché non è l'interesse della società del profitto.
In questa
società gli esseri umani sono trattati come merce, come cose, e la natura
ridotta a qualcosa da saccheggiare selvaggiamente; da qui la causa delle
"catastrofi naturali" (siano terremoti, crolli, inondazioni) che di
naturale non hanno proprio niente.
Una società
che ha il suo fondamento nella Costituzione Repubblicana, Costituzione che
nell'articolo 32 recita "La Repubblica Italiana tutela la salute come fondamentale diritto
dell'individuo e della collettività", arrivando a dichiarare che la
stessa iniziativa privata, pur essendo libera, "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana" (articolo
41, secondo comma della Costituzione) richiederebbe norme e leggi, un sistema
sociale e una medicina veramente al servizio degli esseri umani per prevenire
questi "disastri", cosa che non avviene.
L'amianto e
tutte le sostanze cancerogene provocano danni che sono all'origine di numerosi
tumori.
Ormai il
mondo scientifico è in grandissima maggioranza ben cosciente che non esistono soglie di sicurezza o di
tolleranza alle sostanze cancerogene.
Sebbene sia
necessario, non basta predisporre dispositivi di protezione individuali o
collettivi per la riduzione del rischio, ma bisogna adoperarsi affinché il
pericolo sia ridotto a zero.
L'esposizione
alle fibre di amianto o di altre sostanze cancerogene riduce l'aspettativa di
vita di chi è stato esposto facendo vivere lui e la sua famiglia nel terrore di
ammalarsi.
L'esposizione
alle sostanze cancerogene nei luoghi di lavoro e nella società colpisce
generalmente gli strati sociali più sfruttati. Infatti, sono i più poveri che
non possono pagarsi il grande clinico che rassicura e toglie almeno l'ansia di
ammalarsi.
Il movimento operaio e popolare si deve battere
per il "rischio zero". Deve lottare per imporlo alle associazioni
padronali e allo stato. Non possiamo accettare, sotto il ricatto del posto di
lavoro, di rimetterci la salute e la vita, e di ipotecare il futuro per le
nuove generazioni inquinando senza più rimedio il pianeta.
Le lotte del
movimento operaio, dei lavoratori e dei cittadini organizzati in Comitati e
Associazioni, hanno contribuito a rompere il muro di omertà e complicità con i
responsabili di questi assassinii, facendo pressione sulle istituzioni,
"costringendole" in molti casi a perseguire i responsabili. In questi
anni abbiamo visto una giustizia che, spesso, difendeva solo una parte dei
cittadini: quella degli industriali.
Di solito,
vediamo governi e istituzioni (di qualsiasi colore politico) che, mentre
proclamano di essere al di sopra delle parti, riconoscono come legittimo il
profitto e legalizzano lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, dimostrando di
essere in realtà dei "comitati d'affari", arrivando nella migliore
delle ipotesi a punire con una semplice ammenda gli omicidi e i morti sul
lavoro e di lavoro.
Nel nostro
paese i diritti sanciti nella Costituzione sono tuttora subordinati ai poteri
forti e sono applicati solo se compatibili con essi.
Non si può
subordinare la salute e la vita umana alla logica del profitto, ai costi
economici aziendali o ai bilanci dello stato. Una società che mercifica tutto,
e che trasforma in profitto la malattia, la vita e la morte, senza rispetto per
la vita umana, è una società barbara, in cui gli operai e i lavoratori
continueranno a morire sul lavoro e di lavoro e le sostanze cancerogene
presenti in fabbrica e sul territorio, se non si eliminano, continueranno a
uccidere gli esseri umani e la natura.
"Libertà, legalità, giustizia per tutti"
rimangono parole astratte, principi vuoti di significato se le classi
sottomesse non hanno i mezzi economici e politici per farli rispettare.
Anche se le
leggi e la
Costituzione Repubblicana affermano che l'operaio e il
padrone sono uguali e hanno gli stessi diritti, la condizione di completa
subordinazione economica fa sì che la "libertà" e l'"uguaglianza"
dei cittadini sia solo formale.
TUTELA DELLA SALUTE
I limiti
"ammessi" imposti per legge alle sostanze cancerogene non danno
nessuna garanzia alla tutela della salute. La salute è continuamente esposta a
rischi. Lo vediamo con il continuo aumento dell'inquinamento per polveri
sottili e altre sostanze nelle nostre città e con il continuo superamento delle
soglie.
Anni fa, in
alcuni paesi della Lombardia, la soglia di atrazina nelle falde acquifere da
cui si estraeva l'acqua potabile era di molto superiore ai limiti legali
imposti dalla legge europea. Dato che non si poteva (o non si voleva)
riportarla sotto la soglia di sicurezza e nei limiti previsti da tale legge, il
legislatore ha pensato bene di risolvere il problema alzando i limiti di legge
previsti, "legalizzando" così l'inquinamento, facendo diventare
legale l'acqua inquinata.
La lotta per
pretendere e imporre condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro e nella
società riguarda tutti.
Lottare per
ambienti salubri e un mondo pulito significa lottare contro chi, pur di fare
soldi sulla pelle dei lavoratori e cittadini, condanna a morte migliaia di
esseri umani, anteponendo i suoi interessi privati a quelli collettivi della
società come succede in ogni regione del nostro paese, dal Nord al Sud.
In una
società civile la salute viene prima di tutto.
SORVEGLIANZA SANITARIA
La
sorveglianza sanitaria prevista dalla legge 257/92 per i lavoratori esposti o
ex esposti amianto in molte regioni italiane non è ancora applicata. In
Lombardia abbiamo dovuto lottare per anni contro la Regione Lombardia
e l'ASL per far valere questo diritto previsto dalla legge.
Dopo anni di
lotte, manifestazioni davanti alle sedi ASL e alla Regione, chiedendo
l'applicazione della legge, siamo riusciti a farla applicare. E' stata
un'importante vittoria, perché insieme con quella dei lavoratori abbiamo
ottenuto la sorveglianza sanitaria anche per i familiari degli esposti
all'amianto.
Grazie alle
lotte dei lavoratori, dei comitati e delle associazioni, la Regione Lombardia
già nel 2007 aveva previsto la sorveglianza sanitaria anche per il coniuge
della persona esposta.
"Prevenzione"
è sempre stata la parola d'ordine del Comitato e (insieme alla prevenzione
primaria che riguarda le bonifiche dell'amianto in tutto il territorio nazionale,
e non solo) ci siamo posti anche l'obiettivo della sorveglianza sanitaria per i familiari degli esposti all'amianto.
Noi abbiamo voluto partire dalle mogli, quelle più a contatto con l'amianto
portato in casa dai mariti, estendendo anche a loro i controlli sanitari ed è
motivo di orgoglio per tutti noi aver raggiunto anche questo risultato.
E' cominciata così la sorveglianza sanitaria anche per le donne che non hanno
mai indossato una tuta blu, ma hanno lavato per anni quelle dei mariti, come è
successo a Carmela Maganuco, moglie di un operaio della Breda, scomparsa a 53
anni nel novembre del 2009 per un carcinoma esteso a entrambi i polmoni.
In un
incontro alla Clinica del Lavoro di Milano organizzato dal Comitato, i medici, prima delle visite, hanno spiegato
quali rischi correvano i familiari degli ex esposti all'amianto e le modalità
con cui venivano effettuati i controlli, spiegazioni a cui seguiva un
dibattito.
Ancora una
volta, la lotta e la partecipazione massiccia degli associati del Comitato
hanno dimostrato che risultati importanti si possono raggiungere se esistono
consapevolezza e chiarezza sugli obiettivi da raggiungere.
La nostra
storia per molti aspetti è simile a quella dei lavoratori di moltissime altre
fabbriche. E' simile nelle responsabilità dei vertici aziendali, che sapevano
in anticipo della pericolosità dell'amianto, dei rischi che correvano i
lavoratori degli omicidi annunciati e dei crimini ambientali provocati
dall'amianto alla Breda Fucine e nelle fabbriche di Sesto San Giovanni (Mi), ma
nulla hanno fatto per impedirli.
Sono diverse
le sostanze cancerogene usate nei processi di produzione, ma ovunque è simile
il ruolo che governo, istituzioni, magistratura, l'INAIL e l'INPS hanno finora
avuto in queste vicende.
NASCITA DEL COMITATO PER LA DIFESA DELLA SALUTE NEI LUOGHI DI LAVORO E NEL
TERRITORIO
Sesto San
Giovanni, l'ex Stalingrado d'Italia è stata, e continua a essere, una delle
città più inquinate d'Europa. Anche oggi che i 42.000 posti di lavoro delle sue
fabbriche sono stati eliminati, continuano a persistere gravi problemi
ambientali con danni alla salute dei lavoratori e alla popolazione.
Già nel 1978
lo SMAL (Servizio di Medicina Preventiva per gli Ambienti di Lavoro) di Sesto
denunciava (in vari rapporti inviati all'Assessorato alla Sanità, all'Ufficiale
Sanitario, all'Ispettorato del Lavoro, ai sindacati CGIL/CISL/UIL) la
pericolosità delle lavorazioni effettuate nei reparti della Breda: lavorazioni
e scorie nocive (amianto, cromo, nickel, piombo, ecc.) che, oltre agli operai,
avvelenavano tutta la popolazione. L'azienda, piuttosto che interrompere o
rallentare la produzione per le necessarie bonifiche all'ambiente di lavoro,
preferiva pagare le multe irrisorie e tirare avanti.
Nel 1992, a conclusione di
un'inchiesta operaia indipendente, alcuni operai che in seguito furono tra i
fondatori del Comitato, riuscirono a collegare le lavorazioni effettuate in
fabbrica con l'insorgere di molti tumori fra i lavoratori della Breda Fucine di
Sesto San Giovanni, e nel 1997 è nato formalmente il Comitato per la Difesa
della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio che, da allora, si
sta battendo per ottenere giustizia per i lavoratori morti, i loro familiari, i
malati e quanti si ammaleranno, purtroppo, nel futuro. Negli anni il Comitato
si è allargato ai lavoratori delle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni che
avevano produzioni similari e ai cittadini che a Sesto vivono.
Noi
lavoratori siamo stati per anni confinati in reparti "mattatoi",
costretti a respirare i fumi e le polveri, esposti alle sostanze nocive e
cancerogene, alle radiazioni delle saldature con protezioni
"antinfortunistiche" fatte di coperte e lenzuola d'amianto che si
frantumavano, disperdendosi nell'aria e poi entrando nei polmoni dei lavoratori.
Più volte,
insieme coi nostri compagni di lavoro, abbiamo protestato per la mancanza
d'aspiratori e delle condizioni di sicurezza, denunciando che, mentre tutti
parlavano di robotica o di fabbrica automatizzata, in fabbrica ci si ammalava e
si moriva.
Ogni volta,
davanti alle proteste, la direzione aziendale minacciava la chiusura della
fabbrica e i sindacati si appellavano al senso di responsabilità dei lavoratori
affinché la produzione e l'estrazione del profitto non fossero interrotte.
I
"sacrifici" non hanno evitato lo smembramento della fabbrica, la
cassa integrazione e la chiusura della Breda.
Lo stesso
processo è avvenuto nelle altre fabbriche sestesi, con la chiusura della Falck,
dell'Ercole Marelli, della Magneti Marelli, dell'Ansaldo, della Pirelli e di
tutte le altre grandi fabbriche.
Molti
lavoratori, oltre a quelli della Breda, hanno avuto la salute rovinata, hanno
perso la vita.
Ogni anno
muoiono nel mondo per cause legate all'attività lavorativa 2 milioni di
persone, mentre gli infortuni totali sono 270 milioni.
Nella"
civile" Italia gli infortuni sul lavoro sono un milione (molti infortuni
di lavoratori in nero non sono conteggiati dalle statistiche) e circa 1.000 i
morti (forse anche di più considerati quelli in itinere che muoiono sulle
strade e la cui morte spesso non è riconosciuta come infortunio mortale, e
viene riconosciuta solo dopo lunghi processi).
A questi
dati agghiaccianti vanno aggiunti i morti per malattie asbesto-correlate che
ogni anno uccidono più di 4.000 esseri umani.
E' in questa
situazione che si colloca la nostra lotta.
Per anni
nella nostra ricerca della verità siamo stati ostacolati, derisi, repressi, in
fabbrica dal padrone e dal sindacato e nella società dalle istituzioni che ci
facevano passare in un primo tempo per pazzi e in seguito per terroristi,
dicendo che ci inventavamo tutto, che ingigantivamo i rischi derivanti
dall'esposizione delle fibre d'amianto e di altre sostanze cancerogene e che
per questo spaventavamo la popolazione.
Dopo anni di
battaglie, 19 denunce archiviate e 84 lavoratori uccisi dal killer amianto, in
un primo processo che siamo riusciti a far istruire, terminato il 12 febbraio
2003, i dirigenti Breda furono assolti perché " il fatto non sussiste
" come se le 84 morti fino a quel momento accertati dal nostro Comitato
non fossero mai esistiti.
Le
testimonianze degli operai nel corso del processo invece avevano accertato
altri fatti: l'amianto c'era, era utilizzato in modo massiccio, l'azienda era
informata (dal Servizio di Medicina del lavoro, nei rapporti che questo fece
nel corso di una decina di anni) dei rischi mortali che gli operai correvano
(rischi puntualmente verificatisi), ma l'economia aziendale e i profitti
venivano prima.
Questa è la
verità storica emersa dalle testimonianze, ma ancora una volta la "verità
giuridica" ha continuato per anni ad affermare il contrario, perché
riconoscere questi fatti, avrebbe significato mettere sotto accusa un intero
sistema industriale basato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo perché
fondato sulla logica del profitto.
Nel
settembre 2003 abbiamo portato sul banco degli imputati altri 12 dirigenti
della Breda Ferroviaria/Ansaldo per rispondere dell'omicidio colposo di un
operaio morto di mesotelioma della pleura. L'accusa al termine del processo
chiese la condanna a 18 mesi di reclusione per 9 dei 12 dirigenti processati.
Il 5 gennaio
2005, il giudice, pur riconoscendo valide le nostre tesi e la colpa di 9 dei 12
dirigenti (tre sono stati assolti), concedendo "le attenuanti generiche, perché, incensurati, e anziani, avanti negli
anni" sentenziò il "non
doversi procedere per intervenuta prescrizione". Così pur essendo
stati riconosciuti colpevoli di questa morte, nessuno di loro ha mai pagato
perché è intervenuta la prescrizione, anche
se in seguito (nel 2006) riuscimmo a costringere la Breda/Ansaldo a risarcire la
famiglia pochi giorni prima che fosse votato dal parlamento (in modo bipartisan dal centrosinistra e
centrodestra), su proposta del governo Prodi, l'indulto che graziava le pene
fino a tre anni e metteva fra i reati indultati l'omicidio colposo dei datori
di lavoro che avevano mandato consapevolmente a morte i lavoratori.
Per anni un
muro di omertà e di complicità da parte di Confindustria, Istituzioni, governi,
partiti e sindacati ha ignorato il dolore dei lavoratori ammalati, dei loro
famigliari, degli operai che nelle fabbriche e nel territorio si battevano
perché la salute non fosse considerata una merce e non fosse fonte di profitto,
soffocando la loro voglia di giustizia, anche se alla fine, nel nostro caso, i
lavoratori non si sono arresi.
In questi
anni migliaia di lavoratori italiani, i loro familiari e intere famiglie sono
state sterminate dal pericoloso e silenzioso killer (amianto) e molti aspettano
invano da molto tempo giustizia. In molti casi le cause si trascinano per anni,
e per i processi penali questo significa prescrizione e quindi impunità per i
datori di lavoro e i dirigenti responsabili della morte di centinaia di
lavoratori, a parte pochi episodi in cui sono stati riconosciuti colpevoli.
L'unico
diritto riconosciuto è quello di fare profitti, a questo sono subordinati tutti
gli altri "diritti umani". Le leggi, le norme, una giustizia che
protegge in ogni modo i padroni, un intero sistema economico, politico e
sociale fa sì che la salute e la vita umana, davanti ai profitti, passino in
secondo piano.
Da anni
combattiamo il killer che per noi si chiama amianto. Ma in altri luoghi si
chiama PVC, si chiama diossina, si chiama disastro ferroviario (strage di
Viareggio) e ha tanti altri nomi ancora, veleni delle “Terre dei fuochi” in
Campania, TAV in Val di Susa, ecc.
Tuttavia,
anche se le situazioni sono diverse, la causa principale è una sola: il sistema
capitalista dove la logica del profitto prevale su tutto.
Il diritto
alla salute è disatteso e va peggiorando sempre di più, sia nei luoghi di
lavoro che in generale nella società perché, con la scusa della crisi, i primi
tagli che vengono fatti sono quelli legati alla sicurezza sui luoghi di lavoro
e del territorio. Lo stesso avviene a livello sociale: stanno privatizzando
tutto, in primo luogo la sanità.
La verità è
che oggi non esiste una Costituzione che tuteli i lavoratori, esiste una
Costituzione che sancisce il diritto al lavoro, il diritto allo studio, alla
salute, il ripudio della guerra, come l'articolo 11, che però viene smentita
ogni giorno nella pratica da chi santifica e difende il profitto, da padroni,
governi e istituzioni, da chi chiude fabbriche trasferendole all'estero,
licenzia, taglia scuole e ospedali e questi interessi privati o di casta
vengono prima di tutti gli altri diritti.
Fino al 1992 l'amianto non era
fuorilegge (è stato messo fuorilegge nel 1992, dopo dure lotte) e ai padroni
conveniva pagare una multa irrisoria invece che bonificare i reparti, le
fabbriche e i luoghi di lavoro.
Quindi
padroni e dirigenti sapevano di mandare a morte i lavoratori, ma il problema
della competitività aziendale, il problema della logica del profitto, veniva
prima della pelle dei lavoratori. Quando noi lavoratori abbiamo scoperto che di
questo erano complici tutti, perché c'era un sistema sociale, economico,
politico, giuridico, che legittimava lo sfruttamento degli esseri umani e
metteva in conto che noi dovevamo morire per ingrassare i padroni ecco che,
allora, la paura è diventata prima rabbia e poi coscienza e organizzazione.
Quando si
scopre che tutti sapevano e non hanno fatto niente per impedire queste morti
annunciate, allora chiunque capisce che se sono tutti d'accordo è perché tutti
hanno i loro vantaggi dallo sfruttamento dei lavoratori ed è a questo sistema
che bisogna opporsi.
La nostra
lotta ci ha fatto comprendere che non esistono istituzioni neutrali.
Ha
dimostrato a molti lavoratori che la frase, scritta nelle aule dei tribunali
italiani "La legge è uguale per
tutti" non corrisponde a verità. In questa società chi non ha
soldi difficilmente può far valere le sue ragioni.
Noi comunque
non ci arrendiamo. Anche se molti tribunali hanno emesso sentenze assolutorie
verso i padroni, sostenendo che "uccidere i lavoratori in nome del
profitto non è reato", continueremo a lottare, fuori e dentro le aule dei
tribunali, perché vogliamo e pretendiamo giustizia.
Per noi la
verità storica è ormai stata accertata dai fatti: per quella giuridica
continueremo a batterci.
La lotta per
ottenere giustizia contro lo Stato Italiano e l'INAIL, che hanno permesso che
migliaia di operai subissero gravi malattie a causa del lavoro, tutelando in
nome del profitto la produzione di morte, è stata oggetto anche di una causa
presentata alla Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo dalle associazioni
(fra cui la nostra) che da anni si battono per la difesa della salute e della
vita umana, per ottenere giustizia per tutte le vittime dell'amianto per
tutelare la salute quale fondamentale diritto dell'individuo, per il diritto
alla vita, perché crediamo che ogni persona abbia diritto a un'equa e pubblica
udienza entro un termine ragionevole.
Cause
lunghissime di anni, che spesso terminano per la sopraggiunta morte dei
lavoratori già minati nel fisico. Processi penali che durano decenni e che,
anche in casi di condanna dei datori di lavoro per omicidio colposo, con la
prescrizione concedono l'impunità ai responsabili della morte di centinaia di
migliaia di lavoratori.
La nostra
esperienza ci ha però insegnato che non basta avere ragione. Bisogna avere la
forza e i numeri per farla valere.
Quando in
questi anni la magistratura ci archiviava continuamente i processi, abbiamo
continuato a lottare, aprendo nuovi fronti.
Il fronte politico-sindacale, cercando di dimostrare che la lotta dei lavoratori
della Breda Fucine e delle altre fabbriche contro l'amianto e le sostanze
nocive faceva parte della lotta del movimento dei lavoratori per la difesa
della salute e che interessava tutti quelli che vivevano e vivono condizioni
simili alla nostra.
Il fronte sociale,
raccogliendo dati che dimostravano che l'amianto e le altre sostanze nocive
uscendo dalle fabbriche si disperdevano nell'aria, nelle falde acquifere,
avvelenando tutto il territorio, e traducendoli in lotta che riguardava tutta
la società.
Abbiamo così
stabilito relazioni e costruito momenti di dibattito e di lotta con molti
comitati che si muovevano su problemi simili ai nostri, riuscendo a coinvolgere
il quartiere e la città intorno alla fabbrica e ottenendo il sostegno degli
abitanti, costringendo l'amministrazione comunale di Sesto San Giovanni a
costituirsi parte civile nel processo contro i dirigenti della fabbrica Breda
Fucine.
Il fronte giudiziario, inviando lettere di protesta con centinaia di firme ai magistrati che
archiviavano i processi, organizzando assemblee e picchettaggi in tribunale con
cartelli e striscioni, inviando migliaia di cartoline alla Procura della
Repubblica di Milano con sopra scritto: "La morte sul lavoro non è mai una fatalità! La magistratura non deve
archiviare i morti in Breda", arrivando a occupare per oltre un'ora
l'aula del Tribunale il giorno in cui il giudice ha assolto i 2 dirigenti della
Breda imputati della morte di 6 lavoratori e lesioni gravissime di un settimo.
IL FRONTE CONTRO L'INAIL
Per anni
quest'istituto si è comportato peggio di qualsiasi assicurazione privata. Non
solo non ha riconosciuto ai lavoratori ex esposti all'amianto, i cosiddetti
"benefici pensionistici" accampando pretestuose motivazioni, ma è
arrivato a negare molte volte il riconoscimento di malattia professionale
previsto dalla legge anche a quelli con placche pleuriche diagnosticate dalla
Clinica del Lavoro di Milano. Solo negli ultimi anni grazie alle lotte e alle
sentenze vinte dai lavoratori esposti ed ex esposti all'amianto, siamo riusciti
a far valere le nostre ragioni e ad avere un briciolo di giustizia, anche se,
per molti, tardiva.
DELEGA E AUTO-ORGANIZZAZIONE
Noi ci siamo
autorganizzati, non abbiamo delegato a nessuno la difesa dei nostri diritti.
Abbiamo fondato il Comitato per la Difesa della Salute nei
Luoghi di Lavoro e nel Territorio proprio perché noi siamo le vittime
che vogliono e pretendono giustizia e vogliono impedire che episodi simili
continuino a ripetersi in altri posti.
Non permettiamo
a nessuno di parlare in nome e per conto nostro. Noi interloquiamo con
chiunque, ma siamo indipendenti dal punto di vista teorico, politico,
sindacale, organizzativo ed economico da tutti. Non abbiamo mai chiesto soldi a
Comuni, Provincia, Regione, come fanno molte associazioni, per un semplice
fatto: perché abbiamo capito che, se fossimo stati dipendenti economicamente,
politicamente o altro, nella misura in cui fossimo entrati in contraddizione,
saremmo stati ricattabili.
In questi
anni abbiamo assistito impotenti alla morte di tanti compagni, versato lacrime
di dolore senza poter far nulla per aiutarli, se non stargli vicino fino alla
fine con la nostra presenza, ma questo ha aumentato la nostra rabbia, e la
voglia di giustizia. Siamo cresciuti nella lotta, perché è cresciuta la
determinazione di chi lottava.
La lotta per
la giustizia si è scontrata sempre con tutte le istituzioni e questo ha fatto
comprendere a molti che il problema non era dovuto solo all'amianto, ma che
questo era il problema di una società che trasforma la salute e la vita umana
in una fonte di profitto, che privatizza tutto compreso la salute. Una
privatizzazione della sanità dove solo chi ha i soldi può permettersi cure
adeguate.
Anche con il
sindacato CGIL/CISL/UIL siamo entrati in conflitto.
Eravamo
iscritti in maggioranza alla Federazione Impiegati Operai Metallurgici (FIOM) e
quando abbiamo scoperto che c'erano questi rapporti dei Servizi di Medicina
Ambientale e del Lavoro (SMAL) e che FIOM/FIM/UILM e la stessa Federazione dei
Lavoratori Metalmeccanici (FLM) ne erano da tempo a conoscenza e che lo
sapevano tutti meno gli operai, siamo entrati in contrasto anche con il
sindacato e molti di noi sono stati espulsi, ma ci siamo auto-organizzati e
siamo andati avanti.
IL PROFITTO PRIMA DI TUTTO
Per questo
sistema sociale è normale che gli operai muoiano in nome del profitto, l'unico
problema è che il numero dei morti ogni anno sia contenuto.
Da due anni
Confindustria, INAIL, governi, il Capo dello Stato gridano vittoria perché gli
infortuni sono scesi sotto il milione e i morti sul lavoro sono passati da 1.200 a poco meno di 1.000,
dimenticando spesso di dire che nel frattempo oltre 3 milioni di persone sono
stati espulsi dai posti di lavoro, licenziati o cassintegrati.
Per i
padroni e le istituzioni che i morti sul lavoro stiano sotto quota mille è un
limite accettabile, è tollerabile.
Per noi non
è tollerabile neanche un morto sul lavoro, perché lo consideriamo un crimine
contro l'umanità, per questo chiediamo che sui morti sul lavoro e sui morti di
lavoro o da lavoro, venga abolita la prescrizione.
Oggi per
questi crimini la legislazione prevede, per l'omicidio colposo, un massimo di
pena di tre anni. Non si è mai visto un padrone andare in galera in Italia, al
limite lo mettono agli arresti domiciliari, come padron Riva, ma agli arresti
domiciliari nelle loro ville che sono grandi come una cittadina, per cui
pensate un po' che fatica che fanno a scontare la pena.
Il nostro
Comitato da sempre si batte per ottenere giustizia per i lavoratori morti e
ammalati: per questo nei processi in cui si presenta parte civile, chiede un
euro di risarcimento (1 euro).
Pur
comprendendo che i famigliari delle parti offese possano accettare un
risarcimento economico per il danno subito, noi consideriamo molto grave che le
istituzioni (INAIL, ASL, Regione, sindacati) accettino transazioni economiche
mercanteggiando sulle malattie e sulla vita umana come si fosse al mercato
delle vacche. I cavilli legali e le trattative private fra istituzioni e
padroni responsabili degli assassini di lavoratori servono solo ad avvicinare
la prescrizione garantendo l'impunità ai colpevoli.
Per noi la
salute e la vita umana non sono in vendita e non hanno prezzo.
Gli
assassini devono subire condanne e sanzioni esemplari che servano da monito a
chi non rispetta le norme di sicurezza, perché sulla salute e la vita non si
tratta.
Noi siamo da
sempre contro la monetizzazione della salute e della nocività. Per noi la
salute non si paga, ma si tutela e la nocività e le sostanze cancerogene si
eliminano dalle fabbriche, dai luoghi di lavoro e dalla società.
Noi non
vogliamo solo giustizia per i lavoratori e i cittadini morti e malati, ma
vogliamo una società civile, dove la salute e la vita umana e l'ambiente siano
salvaguardati mettendoli prima del profitto.
Se i
lavoratori e i cittadini vogliono affermare e difendere il loro diritto alla
salute, alla giustizia, alla tutela dell'ambiente e della natura, non devono
più delegare a nessuno la difesa dei loro interessi. Dobbiamo lavorare per
costruire un grande movimento che unifichi tutte le lotte operaie e popolari,
nella battaglia contro lo sfruttamento, per la difesa della salute e della vita
umana. Bisogna lottare per imporre condizioni di sicurezza sui posti di lavoro
e nel territorio, perché altri non debbano subire e patire quello che hanno
subito i nostri compagni e i loro familiari.
Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio
via Magenta
88
20099 Sesto
San Giovanni (Mi)
Fax: 02 26 22
40 99
Mail: cip.mi@tiscali.it
Nota: Alcuni
spunti del presente scritto sono inseriti nel libro "Operai, carne da macello" di Michelino-Trollio
e nel libro "1970 - 1983 la lotta
di classe nelle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni" di Michele
Michelino e sono reperibili gratuitamente in internet.
---------------------
From:
AIEA Onlus - Newsletter newsletter@associazioneitalianaespostiamianto.org
To:
Sent:
Saturday, May 28, 2016 11:50 PM
Subject: UN
CONTRIBUTO ALLA LOTTA ALL'AMIANTO: VERSA IL TUO 5X1.000 AD AIEA ONLUS
Cari
amici,soci e professionisti,
quest'anno
sono diventata Presidente Nazionale della Associazione Italiana Esposti Amianto
AIEA Onlus, la Onlus
che da 20 anni combatte sul territorio italiano per l'eliminazione dell'amianto
e la tutela dei lavoratori ex esposti e dei malati di patologie correlate
all'amianto.
Da quando è
morto mio babbo di mesotelioma peritoneale questa è diventata la mia lotta
personale e vi chiedo, se non avete già altre preferenze di Onlus, di devolvere
il vostro 5x1.000 a AIEA, che costituisce uno dei nostri pochissimi
finanziamenti alla Onlus, oltre il tesseramento dei soci.
Il 5x1.000
non è né una donazione, né un imposta. E’ semplicemente la destinazione di una
parte dell’imposta sul reddito. Non comporta infatti nessun aggravio economico
per il contribuente e se non versato alla Onlus resta nelle casse dello stato.
L'anno
scorso con il 5x1.000 ottenuto AIEA ha realizzato il film documentario “I
Vajont” che parla di alcune tragedie italiane dove i valori della salute e
della sicurezza sono stati messi al secondo posto e che girerà l'Italia nei
prossimi mesi.
Il prossimo
anno con il 5x1.000 vorremmo lanciare una campagna di informazione attraverso
una carovana che girerà l'Italia e che si fermerà nelle principali piazze di
alcune città italiane per sensibilizzare e informare sui pericoli dell'amianto.
Per donare
il vostro 5x1.000 basta inserire nel settore volontariato della vostra
dichiarazione il nostro
CODICE 97430780151.
Grazie mille
e un abbraccio.
Maura
Crudeli
Presidente
AIEA Onlus
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