venerdì 13 novembre 2015

13 novembre - SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS! NEWSLETTER N. 233 DEL 13/11/15



NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE

LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.6
1
CASSAZIONE: SI’ AL DANNO BIOLOGICO PER DEMANSIONAMENTO ANCHE SENZA MOBBING
5
AMIANTO: RESPONSABILE L’AZIENDA PER LA MORTE DEL LAVORATORE ANCHE SE ALL’EPOCA NON ERA PRESENTE SPECIFICA NORMATIVA
6
INFORTUNIO SUL LAVORO: LA NEGLIGENZA DEL LAVORATORE NON ESCLUDE LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO
8
SANITA’: I RISCHI DELL’INVECCHIAMENTO DELLA FORZA LAVORATIVA
9
E’ SANZIONABILE IL MANCATO ADDESTRAMENTO?
12


LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.6

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.
Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

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DOMANDA

Ciao Marco,
sono RLS di una struttura ospedaliera.
Ti pongo a seguire una serie di questioni per le quali chiedo un tuo parere.
Grazie in anticipo.
Formazione del personale
Manca la squadra del primo soccorso e molti (soprattutto gli infermieri che firmano impropriamente le bolle dei pasti che arrivano in struttura) non hanno l’HACCP. In queste bolle figurano delle spuntature a voci del tutto false: igiene, scadenza, sigillatura...arriva tutto in contenitori aperti!!!
Qualifiche del personale
Vorrei sapere se posso richiedere la visione e la verifica delle qualifiche di alcuni operatori che sono stati spostati di mansione, ma che non dimostrano di possedere i requisiti.
Visite mediche
Nessuno ha fatto le analisi e le nostre idoneità stanno, tutte insieme aperte e non in busta chiusa, dentro un raccoglitore nell’ufficio del coordinatore.
Documento di Valutazione del Rischi
Il DVR non esiste e noi, con questo caldo, siamo senza condizionatori che non possono essere accesi perché non viene fatta la manutenzione ai filtri (pericolo legionella). Il clima è asfissiante e gli utenti sono in continua crisi respiratoria.

RISPOSTA
Ciao,
a seguire le risposte alle tue domande.
Marco
Formazione del personale
Si tratta di due inadempienze che comportano il reato penale.
Il primo secondo il D.Lgs.81/08 (articolo 18, comma 1, lettera b), secondo cui il datore di lavoro deve “designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza”, sanzionabile).
Il secondo secondo la normativa di igiene degli alimenti. Se pensi di avere le spalle coperte, puoi fare tranquillamente richiesta di intervento degli ispettori (ufficiali di polizia giudiziaria) dell’ASL, nei due distinti servizi: salute e sicurezza sul lavoro e igiene degli alimenti.
Qualifiche del personale
Secondo l’articolo 18, comma 1, lettera c) del D.Lgs.81/08, il datore di lavoro deve “nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza” (obbligo sanzionabile). Tu come RLS puoi richiedere all’azienda di dimostrare l’adempimento di tale obbligo che comporta la dimostrazione che i lavoratori sono idonei al lavoro da svolgere (secondo giudizio del medico competente) e adeguatamente informati e formati sui rischi della mansione specifica e su come comportarsi per eliminare o ridurre i rischi. Infatti l’articolo 18, comma 1, lettera n) stabilisce che il datore dio lavoro deve “consentire ai lavoratori di verificare, mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, l’applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute(obbligo sanzionabile). Anche in questo caso puoi richiedere l’intervento dell’ASL.
Visite mediche
Si tratta ancora di due obblighi sanzionabili: mancata esecuzione delle visite mediche (articolo 18, comma 1, lettera g) del D.Lgs.81/08, secondo cui il datore di lavoro deve “inviare i lavoratori alla visita medica entro le scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria e richiedere al medico competente l’osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel decreto”) e mancata consegna dei giudizi di idoneità al lavoratore (articolo 41, 6-bis D.Lgs.81/08 secondo cui “il medico competente esprime il proprio giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro”).
Documento di Valutazione del Rischi
Anche la mancata redazione del DVR (richiesto dagli articoli 17, comma 1, lettera a), 28, 29 del D.Lgs.81/08) è ovviamente sanzionato (con sanzioni particolarmente elevate).
Il DVR deve certamente tenere conto dei parametri microclimatici (requisiti dei luoghi di lavoro) e del rischio legionella (rischio biologico), tra l’altro aggravato dalla presenza di pazienti con difficoltà specifiche.

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DOMANDA
Ciao Marco!
Sono RLS di un grande magazzino alimentare.
Una domanda: rientra fra i diritti/doveri del RLS fare denuncia ai NAS dei Carabinieri per della merce deperibile parcheggiata sistematicamente (non tutta, però) fuori dalla cella?
Nella fattispecie si tratta di latticini e formaggi e anche merce della frutta e verdura.
Grazie.

RISPOSTA
Ciao,
occorre subito distinguere tra la normativa che tutela la salute (e la sicurezza) dei lavoratori (il Decreto Legislativo n.81 del 2008 “Testo Unico” nel seguito Decreto) e quella che tutela la salute dei consumatori di prodotti alimentari, sia nella vendita che nella ristorazione (che fa invece riferimento alle procedure HACCP).
Ti posso solo rispondere relativamente alla prima normativa, visto che dell’altra conosco molto poco.
Preciso poi, che ai sensi del Decreto, il RLS ha solo diritti (le cosiddette “attribuzioni” di cui all’articolo 50), ma non doveri o obblighi legali, se non gli obblighi morali nei confronti dei lavoratori che li hanno designati o eletti.
Secondo il Decreto, il RLS ha il ruolo di verificare la politica attuata dalla sua azienda in merito alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, con potere consultivo nei confronti di datore di lavoro e dirigenti e con potere propositivo in merito a tale politica.
Tra le attribuzioni del RLS stabilite dal Decreto vi è anche quello di ricorso alla autorità competente in caso che l’azienda non attui o attui in maniera incompleta gli obblighi a suo carico.
Infatti l’articolo 50, comma 1, lettera o) specifica che:
Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro o dai dirigenti e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro”.
Come vedi però tale facoltà è relativa alla tutela dei lavoratori (“la sicurezza e la salute durante il lavoro”) e non alla tutela di terzi che potrebbero essere danneggiati dal comportamento dell’azienda all’interno del quale opera il RLS.
A tale proposito occorre notare che, ai sensi dell’articolo 13, comma 1 del Decreto, le autorità competenti per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori (quelle a cui il RLS si può rivolgere) sono i Servizi di Prevenzione della Sicurezza negli Ambienti di Lavoro (SPRESAL) delle ASL e, per quanto di competenza, i Vigili del Fuoco e quindi non i servizi di Igiene Alimentare delle ASL.
L’articolo 13, comma 1 stabilisce infatti che:
La vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è svolta dalla Azienda Sanitaria Locale competente per territorio e, per quanto di specifica competenza, dal Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco”.
Pertanto da questo punto di vista il RLS non ha il potere di denunciare la mancata applicazione della normativa sulla conservazione degli alimenti, in quanto tale inadempienza non comporta rischi per la salute del lavoratori.
Tale denuncia potrebbe essere comunque fatta dal RLS, ma solo se, a seguito del mancato rispetto delle norme di conservazione degli alimenti, derivasse non solo un rischio per gli acquirenti o i consumatori, ma anche un rischio biologico per i lavoratori, se cioè l’inadempienza comportasse la formazione di agenti patogeni (batteri) che potrebbero trasmettersi per contatto o inalazione ai lavoratori incaricati della movimentazione degli alimenti. Infatti per il rischio biologico, il datore di lavoro e i dirigenti devono adempiere agli obblighi di cui al Titolo X del Decreto, tra cui quello di limitarne la formazione.
Tieni poi conto che qualunque cittadino (RLS o meno) che venga a conoscenza di un reato (e il mancato rispetto delle normative di conservazione degli alimenti si configura come reato) ha il diritto di farne denuncia formale all’autorità competente (nel caso da te citato, i NAS dei Carabinieri, la Polizia Municipale, la ASL Igiene degli Alimenti).
Tale diritto deriva dall’articolo 333 “Denuncia da parte di privati” del Codice di Procedura Penale che stabilisce che Ogni persona che ha notizia di un reato perseguibile di ufficio può farne denuncia. La legge determina i casi in cui la denuncia è obbligatoria. La denuncia è presentata oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, al Pubblico Ministero o a un Ufficiale di Polizia Giudiziaria [agente dei NAS o della polizia municipale, ispettore ASL Igiene degli alimenti]; se è presentata per iscritto, è sottoscritta dal denunciante o da un suo procuratore speciale. Delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso [...]”.
L’unico limite posto da tale articolo è quello che la denuncia non può essere fatta in forma anonima.
Saluti.
Marco

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DOMANDA
Ciao Marco,
per la valutazione dello stress lavoro correlato, l’ufficio del personale ha distribuito a tutti i lavoratori dei questionari di tre sole pagine.
Mi sembrano un po’ poche per valutare tale tipo di rischio.
Che ti risulti, sono solo questi i questionari per lo stress?

RISPOSTA
Ciao,
i questionari che vi hanno distribuito sono quelli contenuti all’interno del documento ISPESL “La valutazione e gestione dello stress lavoro-correlato - Approccio integrato secondo il Management Standard HSE contestualizzato alla luce del D.Lgs.81/2009 e s.m.i.” del maggio 2010, il cui testo completo trovi al link:
Tale documento però è antecedente alla Circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 18/11/10 che ufficializza il parere della Commissione Consultiva Permanente relativa alle metodiche da utilizzare in caso di valutazione di SLC che trovi al link:
Tale parere è diretta emanazione degli articolo 28, comma 1-bis e 6, comma 8, lettera m-quater) del D.Lgs.81/08.
Invece a oggi la maggior parte delle aziende utilizza il successivo documento INAIL “Valutazione e Gestione del Rischio da Stress Lavoro-Correlato - Manuale ad uso delle aziende in attuazione del D.Lgs. 81/08 e s.m.i.” del maggio 2011, che trovi al link:
Questo documento è allineato al parere della Commissione Consultiva Permanente di cui sopra e che prevede un maggior numero di domande a cui rispondere, suddivise per indicatori aziendali, di contesto e di contenuto del lavoro.
In ogni caso, qualunque sia il metodo che il datore di lavoro, il RSPP e il medico competente decidono di adottare, esso deve rispettare i requisiti di cui all’articolo 28, comma 2, lettera a) del D.Lgs.81/08 il documento di valutazione deve contenere “una relazione sulla valutazione [...], nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa. La scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”.
Pertanto il datore di lavoro (l’unico responsabile della stesura del documento di valutazione del rischio, anche da SLC, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a) del Decreto) deve fare in modo che i criteri usati garantiscano “la completezza e l’idoneità” del documento.
Inoltre, ti ricordo che a carico del datore di lavoro vige l’obbligo (articolo 18, comma 1, lettera s) del Decreto) di “consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo 50” e quindi (articolo 50, comma 1, lettera b) del Decreto) lo deve consultare “preventivamente e tempestivamente in ordine alla valutazione dei rischi [...]”.
Pertanto il RLS ha il diritto (obbligo del datore di lavoro) di essere consultato prima (“preventivamente”) dell’inizio del processo di valutazione dei rischi in generale e del rischio da SLC in particolare, sulle metodologie che il datore di lavoro intende applicare e ha il diritto di dire la sua.
Poi il datore di lavoro deciderà di fare quello che crede, ma il RLS sarà informato su come verrà gestita la valutazione e potrà eventualmente rivolgersi alla ASL (articolo 50, comma 1, lettera o) del Decreto) se ritiene l’operato dell’azienda non adeguato (come nel tuo caso).
Se hai bisogno di altri chiarimenti fammi sapere.
Marco

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NOTA
Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i seguenti acronimi e termini:
ASL = Azienda Sanitaria Locale
CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DVR = Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto
RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)



CASSAZIONE: SI’ AL DANNO BIOLOGICO PER DEMANSIONAMENTO ANCHE SENZA MOBBING

Da Studio Cataldi
09 novembre 2015
di Valeria Zeppilli

La Suprema Corte ribadisce che il mobbing è una figura complessa. Quando uno dei suoi elementi manca, gli altri possono essere valutati giuridicamente anche da soli

Con la sentenza numero 22635/2015, depositata il 5 novembre, la Corte di Cassazione ha chiarito che, anche laddove non venga accolta una domanda di mobbing, è comunque possibile riconoscere al lavoratore un danno biologico derivante dal suo demansionamento.

Nel caso di specie, la ricorrente lamentava una presunta incoerenza della sentenza di merito che, in presenza di una domanda di mobbing e di conseguente risarcimento danni da parte di un lavoratore suo dipendente, ne aveva escluso la fondatezza ma aveva comunque condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno biologico e alla professionalità.

Per la Cassazione, però, il ragionamento effettuato dalla Corte d’Appello deve ritenersi corretto.

Infatti, ricordano i giudici, il mobbing è una figura complessa, composta da molteplici atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo e guidati da un intento di persecuzione ed emarginazione.
In sostanza, affinché esso si configuri, è necessario che vi sia una serie di comportamenti persecutori, che vi sia una lesione della salute, della personalità o della dignità della vittima, che tali due elementi siano in rapporto di causalità e che sussista il suindicato elemento soggettivo.

Quindi, anche laddove uno di tali elementi manchi e il mobbing non possa di conseguenza ritenersi integrato, è comunque possibile valutare giuridicamente altri fatti singolarmente rilevanti.

Così, correttamente la Corte territoriale, una volta esclusa la sussistenza dell’intento vessatorio e persecutorio, ha comunque ravvisato l’esistenza di un danno biologico derivante dalla condotta di radicale e sostanziale esautoramento del lavoratore dalle sue mansioni.

La Sentenza numero 22635/2015 della Corte di Cassazione è scaricabile (previa registrazione gratuita) all’indirizzo:



AMIANTO: RESPONSABILE L’AZIENDA PER LA MORTE DEL LAVORATORE ANCHE SE ALL’EPOCA NON ERA PRESENTE SPECIFICA NORMATIVA

Da Studio Cataldi
09 novembre 2015
di Lucia Izzo

L’azienda deve risarcire la famiglia del lavoratore deceduto per colpa dell’amianto, anche se all’epoca del rapporto lavorativo non erano state ancora introdotte specifiche norme per il trattamento dei materiali, quali quelle contenute nel D.Lgs.277/91, successivamente abrogato dal D.Lgs.81/08, che ne ha recepito al suo interno i disposti.
Spetta al datore di lavoro dover fornire la prova liberatoria dimostrando di aver adottato le opportune misure di prevenzione atte a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore nel luogo di lavoro.

Con la sentenza n. 22710/2015 la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, accoglie il ricorso proposto dagli eredi di un uomo deceduto per mesotelioma pleurico, contratto nell’esercizio dell’attività lavorativa svolta dal 1955 al 1982.
Contestano i ricorrenti la decisione della Corte d’Appello che ha escluso l’elemento soggettivo necessario per configurare la responsabilità del datore di lavoro: per i giudici di merito, all’epoca in cui l’uomo aveva contratto il male, non era ancora nota l’insidiosità dell’amianto e la sua idoneità a innescare malattie.
Per gli Ermellini invece, il richiamo al “fatto notorio” non può esimere la società.

La pericolosità della lavorazione dell’amianto era nota da epoca ben anteriore all’inizio del rapporto de quo: già il Regio Decreto 442 del 1909 includeva la filatura e tessitura dell’amianto tra i lavori insalubri o pericolosi, vietandolo a donne e fanciulli e richiedendo speciali cautele per quanto riguarda il pronto allontanamento del pulviscolo; anche il Regio Decreto 530del 1927 conteneva disposizioni relative all’areazione dei luoghi di lavoro, mentre l’asbestosi, malattia provocata da inalazione da amianto, era conosciuta fin sai primi del ‘900 e fu inserita tra le malattie professionali nel 1943.

Pertanto, all’epoca dei fatti di cui è causa, si imponeva l’adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all’impiego di materiale contenente amianto in relazione alla norma di chiusura di cui all’articolo 2087 del Codice Civile, che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nel’esercizio delle impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare la loro integrità fisica.

Nel caso in esame, rileva anche quanto disposto dall’articolo 21 del D.P.R.303/56 (anch’esso oggi integrato nel D.Lgs.81/08) che stabiliva che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polvere di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro, soggiungendo che le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione, avendo quindi caratteristiche adeguate alla pericolosità.

Lo sostanze nocive, come disposto dallo stesso D.P.R.303/56, non devono entrare a contatto con i lavoratori e accumularsi negli ambienti, per cui tra le altre cose è necessario predisporre locali per le lavorazioni insalubri e utilizzare di aspiratori.

L’onere della prova, nel caso di specie, gravava dunque sul datore di lavoro che avrebbe dovuto prestare prova liberatoria circa l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle suddette norme, essendo incontestato il nesso causale tra l’evento e l’attività svolta dal lavoratore in ambienti a contatto con l’amianto.

L’insussistenza dell’elemento psicologico a cui è pervenuta la Corte territoriale non può essere condivisa: trattandosi di responsabilità contrattuale per omessa adozione, ex articolo 2087 del Codice Civile, delle opportune misure di prevenzione, spetta all’azienda dimostrare il contrario, essendo irrilevante che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme sul trattamento dei materiali contenenti amianti.
La causa torna alla Corte d’Appello per definire nel merito la controversia.

La sentenza numero 22710/2015 della Corte di Cassazione Sezione Lavoro è scaricabile (previa registrazione gratuita) all’indirizzo:



INFORTUNIO SUL LAVORO: LA NEGLIGENZA DEL LAVORATORE NON ESCLUDE LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO

Da: Studio Cassone
6 novembre 2015

Con sentenza n. 22413 del 3 novembre scorso, la Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema della sicurezza sul luogo di lavoro e, in particolare, sulle conseguenze dell’inosservanza delle norme antinfortunistiche.

Il caso di specie riguardava un lavoratore, operaio di un cantiere edile, deceduto a seguito di una caduta da una scarpata nei pressi della quale stava operando, privo della fune di trattenuta.

La Corte territoriale aveva ritenuto che il mancato utilizzo, da parte del lavoratore, di tale fune, che pure era disponibile alla sommità della scarpata, rappresentava un comportamento anomalo e imprevedibile tale da escludere la sussistenza di un nesso causale tra l’obbligo datoriale di vigilanza e l’evento mortale accaduto.
La Corte, perciò, dando rilievo all’omissione colpevole del lavoratore deceduto, costituita dal fatto di non avere il medesimo utilizzato la fune di trattenuta, rigettava la domanda di risarcimento dei danni avanzata nei confronti della società datrice e dei suoi preposti alla sicurezza.

In sede di ricorso per Cassazione, la difesa del ricorrente contestava che non poteva essere considerata imprevedibile o anomala l’imprudenza del lavoratore che aveva omesso di indossare il presidio di sicurezza, essendo tale comportamento del tutto prevedibile dal datore di lavoro e comunque non assumeva rilievo il concorso di colpa dello stesso, essendo il datore di lavoro tenuto a proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza.

La Corte, nell’accogliere tali argomentazioni, ha chiarito che “In materia di tutela dell’integrità fisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell’abnormità, dell’imprevedibilità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute. Ne consegue che, qualora non ricorrano detti caratteri della condotta del lavoratore, l’imprenditore è integralmente responsabile dell’infortunio che sia conseguenza dell’inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione dell’obbligo di sicurezza integra l’unico fattore causale dell’evento, non rilevando in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza”.

Pertanto, l’omissione di cautele da parte dei lavoratori, non è idonea di per sé a escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del datore di lavoro che non abbia provveduto, pur avendone la possibilità, all’adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro o non abbia adeguatamente vigilato, anche tramite suoi preposti, sul rispetto della loro osservanza.

Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, infatti, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza e imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente.

In definitiva, l’eventuale concorso di colpa del lavoratore non ha alcun effetto esimente per l’imprenditore.

La Sentenza numero 22413/2015 della Corte di Cassazione è consultabile all’indirizzo:

SANITA’: I RISCHI DELL’INVECCHIAMENTO DELLA FORZA LAVORATIVA

Da: PuntoSicuro
09 novembre 2015

Un intervento si sofferma sul progressivo invecchiamento della forza lavorativa con particolare riferimento al comparto sanitario. Le cause dell’invecchiamento, la riduzione della capacità mentali e fisiche e le soluzioni integrate.

L’Enciclopedia della Salute e Sicurezza nel Lavoro dell’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) segnala che l’invecchiamento della popolazione è un fenomeno abbastanza lento e prevedibile per poter adottare le misure adeguate a ridurne l’impatto sul lavoro. Ma purtroppo a volte non è solo la mancanza di tempo a impedire una risposta adeguata a questo cambiamento della forza lavoro. E’ necessaria anche la consapevolezza che se in un ambiente lavorativo non si tiene conto delle esigenze dell’organismo umano aumenteranno irrimediabilmente nel tempo il numero di lavoratori con disturbi e malattie lavoro correlate; i problemi per chi ha già impedimenti dovuti all’età o ad altre cause; le ripercussioni sulla produttività dell’azienda.

Per parlare dei problemi correlati all’invecchiamento nel mondo del lavoro, con particolare riferimento al settore sanitario, si è tenuto il 30 settembre 2015 a Milano presso il “Centro per la Cultura della Prevenzione nei luoghi di lavoro e di vita” (nato dalla collaborazione tra Comune di Milano, ASL Milano, INAIL Lombardia, Consulta CIIP, DTL e Vigili del Fuoco di Milano) il Convegno di studio e confronto “Invecchiamento e lavoro in sanità”.

Per parlare di invecchiamento della forza lavorativa ci soffermiamo sugli atti del Convegno pubblicati sul sito dell’ Azienda Sanitaria Locale di Milano e in particolare su un intervento dal titolo “Dati e prospettive” e a cura di Angelo d’Errico (Servizio Sovrazonale di Epidemiologia ASL TO3, Regione Piemonte).

L’intervento sottolinea che nei prossimi anni si continua a prevedere un invecchiamento della popolazione lavorativa dovuto a:
-         bassa fertilità: in Italia 1,1 figli per coppia;
-         aumento dell’aspettativa di vita: 79,4 anni per gli uomini, 84,8 per le donne (CIA World Factbook, 2014);
-         invecchiamento della popolazione generale: in Europa dal 2010 al 2030 il rapporto tra soggetti in età maggiore di 65 anni e quelli tra i 20 e i 65 anni salirà dal 29% al 39% (in Italia dal 34% al 50%);
-         riforma pensionistica Fornero: innalza l’età minima per la pensione di vecchiaia a 67 anni e per quella di anzianità a 42 anni di contribuzione.

Le slide dell’intervento, che vi invitiamo a leggere direttamente e che sono ricche di tabelle e grafici, si soffermano poi sulle caratteristiche e specificità del lavoratore anziano:
-         le richieste lavorative generalmente non si riducono con l’età, ma si riduce la capacità lavorativa;
-         esiste un’ampia variabilità individuale in questa riduzione della capacità lavorativa;
-         possibile incompatibilità tra la capacità funzionale del lavoratore anziano e il livello di richieste sul lavoro.

In particolare si distinguono due aspetti principali della capacità lavorativa: capacità mentale e capacità fisica.

Riguardo alla capacità mentale nell’invecchiamento i cambiamenti fisiologici che generalmente avvengono nella percezione, nell’elaborazione delle informazioni e nel controllo motorio riducono la capacità di lavoro mentale:
-         l’attività psicomotoria è più lenta e quella cognitiva è ridotta;
-         la memoria recente diminuisce;
-         i tempi di reazione sono più lenti;
-         anche l’apprendimento di temi complessi può essere più lento;
-         in particolare bisognerebbe valutare la capacità di comprendere e svolgere il lavoro, seguire istruzioni, comunicare e interagire con gli altri, garantire la propria sicurezza.

Riguardo invece alla capacità di lavoro fisico si indica che:
-         la capacità di lavoro fisico di un lavoratore di 65 anni è circa la metà di quella di uno di 25 anni;
-         una riduzione marcata della capacità fisica comincia dopo i 50 anni, con una riduzione del 20% tra i 40 e i 60 anni;
-         il declino della forma fisica è minore tra le donne, in parte per un più basso livello iniziale di capacità fisica massimale (2/3 rispetto agli uomini);
-         l’invecchiamento è associato a un progressivo deterioramento di diverse componenti dell’organismo, tra cui: capacità aerobica e cardiovascolare (riduzione della gittata cardiaca; riduzione della capacità vitale forzata); forza e resistenza muscolare (elasticità; equilibrio; composizione).

La relazione si sofferma poi su cosa dicono gli studi sulla capacità lavorativa dei lavoratori anziani:
-         le revisioni disponibili sull’argomento lamentano la carenza di studi su lavoratori anziani o di risultati relativi alle classi di età più anziane (anche per scarso numero di lavoratori);
-         in molti paesi solo una minoranza di lavoratori continua a lavorare dopo i 55-60 anni e questi sono in media più sani di quelli che vanno in pensione (healthy worker effect);
-         per questo motivo in vari studi la prevalenza di molte malattie o disturbi risulta tra i lavoratori oltre 60 anni artificiosamente più bassa di quella osservabile in lavoratori più giovani;
-         in generale, il declino delle capacità mentali e sociali pare più lento e più tardivo di quello delle capacità fisiche, anche se con l’età aumenta la prevalenza di disturbi mentali comuni, soprattutto ansia e depressione;
-         lavoratori anziani in occupazioni con impegno fisico mostrano in alcuni studi alte prevalenze di disturbi muscoloscheletrici.

Il relatore si sofferma poi in particolare sull’invecchiamento progressivo nel comparto sanitario, del personale dipendente del Sistema Sanitario Nazionale, con una quota, per i lavoratori oltre i 55 anni, che è tuttavia ancora sotto il 25%.

Sono anche ricordati principali fattori di rischio dei lavoratori della sanità:
-         fattori ergonomici: sollevamento e movimentazione di pazienti; posture scomode o dolorose;
-         fattori psicosociali: ritmi di lavoro elevati o carico di lavoro eccessivo; richieste psicologiche di tipo emotivo; minacce e violenza fisica; lavoro a turni; conciliazione casa-lavoro;
-         fattori biologici: rischio di esposizione a liquidi biologici;
-         rischio infortunistico: cadute accidentali; lesioni da ago e taglienti.
Viene poi presentata l’esposizione ai fattori di rischio dei lavoratori della sanità, con riferimento anche ai movimenti ripetitivi, e sono riportate diverse tabelle commentate sui fattori di rischio correlati all’età dei lavoratori.

In definitiva l’invecchiamento dei lavoratori della sanità conseguente alla riforma delle pensioni darà luogo nei prossimi 5-10 anni a una situazione in cui una rilevante quota di lavoratori (probabilmente il 15-20%) non riuscirà a svolgere i propri compiti o ci riuscirà incontrando forti difficoltà, peggiorando il proprio stato di salute e la qualità dell’assistenza, e rischiando il licenziamento per non-idoneità o assenze per malattia.

E’ dunque necessario trovare soluzioni integrate, ad esempio:
-         migliorare l’adattamento dell’ambiente di lavoro (ad esempio migliorare procedure, organizzazione dei turni, stato di attrezzature, illuminazione, spazi e pavimenti) e del contenuto della mansione per i lavoratori anziani, soprattutto quelli con limitazioni funzionali o disturbi mentali (ad esempio aumentare lavoro in squadra, ridurre movimentazione carichi, lavoro in pronto soccorso o in sala operatoria, lavoro a turni, ecc.);
-         migliorare la “work ability” dei lavoratori (anziani e non) mediante interventi di promozione della salute (soprattutto su abitudine al fumo, dieta e attività fisica);
-         favorire l’accesso ai prepensionamenti per disabilità, poco utilizzati in Italia, abbassandone le soglie e garantendo ai lavoratori indennità non troppo inferiori al salario o alla pensione;
-         favorire l’accesso a indennità di disoccupazione e aumentarne la durata per i lavoratori anziani non sufficientemente disabili da ottenere un prepensionamento, ma diventati non idonei alla propria mansione e non collocabili in un’altra;
-         favorire l’anticipazione del pensionamento per i lavoratori addetti ai turni notturni, allargando le maglie della legge sui lavori usuranti (61 anni di età e 35 di contribuzione).

Il documento “Dati e prospettive”, a cura di Angelo d’Errico, intervento al Convegno “Invecchiamento e lavoro in sanità” è scaricabile all’indirizzo:



E’ SANZIONABILE IL MANCATO ADDESTRAMENTO?

Da: PuntoSicuro
11 novembre 2015

Sulla sanzionabilità per il mancato addestramento dei lavoratori in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Il D.Lgs.81/08 definisce, all’articolo 2 (Definizioni), comma 1, lettera cc), l’addestramento come il “complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro”.
Con l’articolo 18 (Obblighi del datore di lavoro e del dirigente), comma 1, lettera l), indica poi che il datore di lavoro e i dirigenti debbano “adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37”.

In realtà, è solo l’articolo 37 (Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti) a richiamare l’obbligo addestrativo, ai commi 4 e 5:
“4 La formazione e, ove previsto, l’addestramento specifico devono avvenire in occasione:
a) della costituzione del rapporto di lavoro o dell’inizio dell’utilizzazione qualora si tratti di somministrazione di lavoro;
b) del trasferimento o cambiamento di mansioni;
c) della introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi.
5 L’addestramento viene effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro”.
In quanto rappresentanti disposizioni descrittive di carattere generale, i commi 4 e 5 non conoscono sanzione.

Peraltro, nel D.Lgs.81/08, diversi articoli contenuti nei titoli speciali successivi al primo richiamano l’obbligo generale di addestramento senza che, perciò, sia prevista direttamente sanzione.
Sanzioni sono però previste in relazione a specifici obblighi di addestramento. Si tratta allora di verificare quali siano queste norme specifiche, talvolta rappresentate, per rinvio di legge, anche da Accordi Stato-Regioni e decretazioni.
Al proposito vale ricordare che è il comma 3 dell’articolo 37 a decidere che:
“Il datore di lavoro assicura, altresì, che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in merito ai rischi specifici di cui ai titoli del presente Decreto successivi al primo.
Ferme restando le disposizioni già in vigore in materia, la formazione di cui al periodo che precede è definita mediante l’Accordo di cui al comma 2”.
Il comma 2 specifica poi che “La durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione di cui al comma 1 sono definiti mediante Accordo in sede di Conferenza permanente (Stato Regioni)”; Accordo intervenuto il 21 dicembre 2011.

L’Accordo Stato Regioni sulla formazione dei lavoratori del 21 dicembre 2011, specifica , al suo punto 4, che: “i rischi specifici di cui ai Titoli del D.Lgs.81/08 successivi al primo costituiscono oggetto della formazione” specifica, di cui al qui considerato Accordo.
Ciò, però, dopo aver posto in “Premessa”, al secondo capoverso, che “la formazione di cui al presente Accordo è distinta da quella prevista dai titoli successivi al primo del D.Lgs.81/08 o da altre norme, relative a mansioni o ad attrezzature particolari”.

Tornando alla riportata definizione di “addestramento”, nell’articolo 2, comma 1, lettere cc), come “complesso delle attività dirette a fare apprendere...”, abbiamo rilevato come l’articolo 36 (Informazione ai lavoratori) mai riferisca esplicitamente all’addestramento.
Anzi, pur richiamando i “rischi specifici cui [il lavoratore] è esposto in relazione all’attività svolta” (articolo 36, comma 2, lettera a)), non fa alcun riferimento ad “attrezzature, macchine, impianti...” di cui alla definizione di “addestramento” nell’articolo.
Tutto ciò, se da un lato sembra convogliare l’addestramento nell’alveo generale di informazione e formazione, dall’altro mostra di privilegiare la formazione come “contenitore” dell’eventuale necessario addestramento.
Non è inutile a tale proposito ricordare che il D.Lgs.626/94, all’articolo 22 (Formazione dei lavoratori), “ignorava” l’addestramento; con ciò, evidentemente, ritenendolo connaturato, laddove necessario, alla formazione medesima.
Personalmente, ho sempre sostenuto (forse senza gran fantasia) essere la formazione l’alveo naturale entro il quale vada ad esplicarsi, laddove previsto, l’addestramento. Ciò, ora, anche secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione, la quale ben chiarisce come “L’attività di informazione si distingue da quella formativa perché ha a oggetto il trasferimento di conoscenza, senza che ciò implichi necessariamente la costruzione di un saper fare. Tuttavia è evidente che quest’ultima [la formazione] incorpora la prima”.
Di significativo interesse è che qui la Corte specifichi come questo “saper fare” debba concretarsi sia in una capacità di “facere” (essere in grado di operare in condizioni di sicurezza) che di “non facere” (essere in grado di sottrarsi a condizioni di rischio), parlando infatti di “competenze che a seconda dei casi prospettano un facere o un non facere”.
Detto altrimenti, l’obbligo di formazione, quando si tratti di attrezzature di elevata complessità, suscettibili di richiedere operazioni riservate a personale specializzato, non implica unicamente di far conoscere ciò che deve esser fatto, ma anche ciò da cui astenersi, proprio perché ad altri riservato (Sentenza n. 44106 del 23 0ttobre 2014 della Cassazione Penale, Sezione IV).

Per altro verso, se torniamo alla definizione di “addestramento” richiamata in apertura, vediamo come per esso si debba intendere non solo la concreta pratica, guidata, nell’utilizzo di dispositivi e attrezzature, ma, per l’appunto, il “complesso delle attività diretto a far apprendere ai lavoratori l’uso corretto...” (si pensi, ad esempio, al cosiddetto “accostamento” e, per l’apprendistato, alla figura del “tutor”, entrambe funzioni sussidiarie: in questi casi “l’addestramento viene effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro”, secondo quanto disposto dall’articolo 37, comma 4 del D.Lgs.81/08).
In più parti il legislatore usa in tal senso i termini “istruzioni” e “istruzioni precise”.
Le stesse “informazioni” possono essere costituite dalla formazione e dall’addestramento, ricordando che, secondo l’articolo 227, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08, relativo agli agenti chimici “Il datore di lavoro assicura che le informazioni siano fornite in modo adeguato al risultato della valutazione del rischio di cui all’articolo 223. Tali informazioni possono essere costituite da comunicazioni orali o dalla formazione e dall’addestramento individuali con il supporto di informazioni scritte, a seconda della natura e del grado di rischio rivelato dalla valutazione del rischio”.

Ad esemplificazione e conferma di quanto sin qui sostenuto, si richiama il comma 2 dell’articolo 116 del D.Lgs.81/08 relativo agli obblighi dei datori di lavoro concernenti l’impiego di sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi:
“Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori interessati una formazione adeguata e mirata alle operazioni previste, in particolare in materia di procedure di salvataggio”.
Il comma 3 del medesimo articolo specifica che, com’era evidente, “La formazione di cui al comma 2 ha carattere teorico-pratico”, decidendo, alla lettera b) che “l’addestramento specifico [deve essere eseguito] sia su strutture naturali, sia su manufatti”.
Specificazione che sarà presente anche nell’Accordo Stato Regioni intervenuto il 22 febbraio 2012 su mandato e in attuazione del comma 5 dell’articolo 73 (Informazione, formazione e addestramento) all’interno del Titolo III (Uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuali) del D.Lgs.81/08, che chiarisce che “In sede di Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, le Regioni e le provincie autonome di Trento e di Bolzano sono individuate le attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione”.

Il medesimo Accordo Stato Regioni 22 febbraio 2012, concernente l’individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori, nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione in attuazione dell’articolo 73, comma 5 del D.Lgs.81/08 specifica infatti al punto 3.2 che:
“Il percorso formativo è finalizzato all’apprendimento di tecniche operative adeguate per utilizzare in condizioni di sicurezza le attrezzature di che trattasi. Il percorso formativo è strutturato in moduli teorici e pratici [...]. la Metodologia didattica prevedere dimostrazioni e prove pratiche, nonché simulazione di gestione autonoma da parte dell’allievo dell’attrezzatura nelle condizioni di utilizzo normali e anormali prevedibili (ad esempio guasto), comprese quelle straordinarie e di emergenza”.

Similmente l’articolo 136 del D.Lgs.81/08, relativo al montaggio e allo smontaggio dei ponteggi, chiarisce al comma 6 che:
“Il datore di lavoro assicura che i ponteggi siano montati, smontati o trasformati sotto la diretta sorveglianza di un preposto, a regola d’arte e conformemente al PiMUS [Piano di Montaggio Utilizzo e Smontaggio dei ponteggi], ad opera di lavoratori che hanno ricevuto una formazione adeguata e mirata alle operazioni previste”.
Anche in questo caso il comma immediatamente successivo stabilisce che:
“La formazione di cui al comma 6 ha carattere teorico-pratico”.

Quanto pratico sia tale carattere pratico, lo decide l’allegato XXI del D.Lgs.81/09: “al termine del modulo pratico [di 14 ore] avrà luogo una prova pratica di verifica finale”.
Il mancato rispetto dei contenuti dell’allegato XXI è sanzionato, per gli aspetti corrispondenti, dall’articolo 159, (Sanzioni per i datori di lavoro e i dirigenti), comma 2, lettera b), relativamente alla violazione dell’articolo 136, comma 6 con l’ arresto da due a quattro mesi mesi o ammenda da 1.096 a 5.260,80 euro.

Riportiamo infine, sebbene un po’ involuto, l’esempio dell’articolo 294-bis del D.Lgs.81/08.
Nel Titolo XI (Protezione da atmosfere esplosive) al Capo II, che definisce gli obblighi del datore di lavoro, l’articolo 294-bis (Informazione e formazione dei lavoratori) prevede al suo comma 1 che:
“Nell’ambito degli obblighi di cui agli articoli 36 e 37, il datore di lavoro provvede affinché i lavoratori esposti al rischio di esplosione e i loro rappresentanti vengano informati e formati in relazione al risultato della valutazione dei rischi, con particolare riguardo:
[...]
g) agli eventuali rischi connessi alla presenza di sistemi di prevenzione delle atmosfere esplosive, con particolare riferimento all’asfissia;
h) all’uso corretto di adeguati dispositivi di protezione individuale e alle relative indicazioni e controindicazioni all’uso”.

Si vede qui come il combinato disposto tra le lettere g) e h), riferisca all’utilizzo di DPI di terza categoria e dunque all’obbligo di addestramento, previsto dall’articolo 77, comma 5, nel Titolo III (Uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuali). Non a caso, allora, i due articoli, il 294-bis, comma 1, e il 77, comma 5, conoscono l’identica sanzione: arresto da tre a sei mesi o ammenda da 2.740 a 7.014 euro; il primo, sulla base dell’articolo 297 (Sanzioni a carico dei datori di lavoro e dei dirigenti), comma 2; il secondo, sulla base dell’articolo 87 (Sanzioni a carico del datore di lavoro, del dirigente, del noleggiatore e del concedente in uso), comma 2, lettera d).

Giova ricordare che l’articolo 77 (Obblighi del datore di lavoro) prevede al comma 5 che:
“In ogni caso l’addestramento è indispensabile:
-         per ogni DPI che, ai sensi del Decreto Legislativo 4 dicembre 1992, n. 475, appartenga alla terza categoria;
-         per i dispositivi di protezione dell’udito”.
Tale obbligo è sanzionato dall’articolo 87, comma 2, lettera d) del D.Lgs.81/08 con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.740 a 7.014 euro.

Sottolineiamo che, ogni qualvolta una disposizione speciale del D.Lgs.81/08 stabilisca l’obbligo di utilizzo dei DPI, si dovrà concretamente verificare se questi rientrino nel novero di quelli previsti dall’articolo 4 del D.Lgs.475/92 come DPI di terza categoria.
In caso affermativo dovrà sempre svolgersi, in quanto “indispensabile”, l’addestramento stabilito dall’articolo 77, comma 5 del D.Lgs.81/08.

Stabilisce l’articolo 4, commi 5 e 6, del D.Lgs.247/92 (Attuazione della direttiva 89/686/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1989, in materia di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai dispositivi di protezione individuale) che:
“5. Appartengono alla terza categoria i DPI di progettazione complessa destinati a salvaguardare da rischi di morte o di lesioni gravi e di carattere permanente. Nel progetto deve presupporsi che la persona che usa il DPI non abbia la possibilità di percepire tempestivamente la verificazione istantanea di effetti lesivi.
6. Rientrano esclusivamente nella terza categoria:
-         gli apparecchi di protezione respiratoria filtranti contro gli aerosol solidi, liquidi e contro i gas irritanti, pericolosi, tossici o radiotossici;
-         gli apparecchi di protezione isolanti;
-         i DPI che assicurano una protezione limitata nel tempo contro le aggressioni chimiche e contro le radiazioni ionizzanti;
-         i DPI per attività in ambienti con condizioni equivalenti a una temperatura d’aria non inferiore a 100°C con o senza radiazioni infrarosse, fiamme o materiali in fusione;
-         i DPI destinati a salvaguardare dalle cadute dall’alto;
-         i DPI destinati a salvaguardare dai rischi connessi ad attività che espongono a tensioni elettriche pericolose o utilizzati come isolanti per alte tensioni elettriche”.

Serrando il ragionamento, dovrà dirsi allora che la violazione dell’obbligo di addestramento espone a sanzioni il datore di lavoro e il dirigente, sulla base delle corrispondenti disposizioni speciali (per l’appunto, “l’addestramento specifico” ove previsto, di cui all’articolo 37, comma 4 del D.Lgs.81/08).

Opera infatti, in quanto applicabile, il principio di specialità rappresentato nell’articolo 298 del D.Lgs. 81/08, secondo il quale:
“Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione prevista dal Titolo I del presente Decreto e da una o più disposizioni previste dagli altri titoli del medesimo Decreto, si applica la disposizione speciale”.

A conclusione, e nel tentativo di ampliare lo spettro, vorremo ulteriormente considerare il rischio fascinoso dell’utilizzo di norme “generaliste” per imputazioni che, invece, vanno riferite a disposizioni speciali.
Porto ad esempio la problematica del permanere di imputazioni sulla base dell’articolo 18, comma 1, lettera l):
“Il datore di lavoro [...] e i dirigenti [...] devono adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37”.

Non essendo questa norma presidiata da sanzione penale, in quanto, chiarisce la Suprema Corte, “norma generale e programmatica”, è inevitabile che la Cassazione ogni qualvolta si trovi a dover giudicare una condanna sulla base di tale contestazione rilevi “la violazione del principio di legalità perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” (Sentenza della Cassazione Penale Sezione III n.3145 del 23 gennaio 2014), mandando assolto l’imputato per riconosciuta “irrilevanza penale della condotta” (Sentenza della Cassazione Penale Sezione III n.10023 del 10 marzo 2015).

Sul perché gli organi di vigilanza abbiano proceduto alla contestazione sulla base dell’articolo 18, comma 1, lettera l), si possono avanzare due ipotesi:
-         la prima si lega alla possibilità di svarioni nell’individuare la fattispecie incriminatrice da parte degli ispettori in funzione di Ufficiali di Polizia Giudiziaria;
-         la seconda, a mio avviso preminente, ha una sua giustificazione storico-giuridica: essa è data dal lasso temporale necessario a che il giudicato approdi in Cassazione; vale ricordare che nel periodo intercorrente tra l’emanazione del D.Lgs.81/08 (aprile 2008) e quella del Decreto integrativo e correttivo D.Lgs.106/09 (agosto 2009), la norma considerata prevedeva la sanzione penale: arresto da quattro a otto mesi o ammenda da 2.000 a 4.000 euro (articolo 55, comma 4, lettera e) del D.Lgs.81/08).

Tale seconda ipotesi, esplicitamente confermata nella Sentenza della Cassazione Penale n.28577 del 6 luglio 2015, è destinata perciò a risolversi spontaneamente in un tempo ormai breve. Va cioè ad esaurirsi il riferimento, nella imputazione, alla norma penalmente sanzionata del 2008.
Così come, per il medesimo motivo, andrà tra breve a risoluzione spontanea il problema della continuità normativa del D.Lgs.81/08 rispetto a precedente legislazione prevenzionale; problema pur già cristallizzato in principio positivo dalla Corte di Cassazione; anzi, in alcune sentenze risulta già risolto.

Permane, semmai, un problema di puntuale individuazione della fattispecie incriminatrice, sulla base del principio di specialità. I giudici di legittimità hanno, ad esempio, riconosciuto l’errore del Tribunale, consistito nella (provo a dirla così) duplice imputazione della medesima condotta colposa (imputazione rivelatasi peraltro insussistente, su entrambi i capi, al vaglio di legittimità).
Nella circostanza, il Tribunale aveva condannato l’imputato per violazione dell’articolo 18, comma 1, lettera l) e dell’articolo 71, comma 7 per “non aver impartito, al lavoratore infortunato, una formazione adeguata circa l’impiego delle attrezzature”.
L’articolo 71, comma 7, lettera a), recita:
“Qualora le attrezzature richiedano per il loro impiego conoscenze o responsabilità particolari in relazione ai loro rischi specifici, il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché l’uso dell’attrezzatura di lavoro sia riservato ai lavoratori allo scopo incaricati che abbiano ricevuto una informazione, formazione ed addestramento adeguati”.
La Cassazione accoglie come fondato il ricorso del rappresentante legale della azienda e articola poi, naturalmente, il giudizio sulla inconsistenza penale della enunciazione di cui all’articolo 18, comma 1, lettera l), oltre che sull’insussistenza del fatto relativamente alla presunta violazione dell’art. 71, comma 7, non essendo stato, nel caso, il lavoratore vittima dell’infortunio incaricato all’uso dell’attrezzatura. (Sentenza della Cassazione Penale Sezione III n.3145 del 23 gennaio 2014).

Pietro Ferrari
Commissione salute e sicurezza sul lavoro
FILCAMS CGIL Brescia

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