NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
LE
“FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS! - N.6
Nella
mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro,
spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a
svolgere delle vere e proprie “consulenze” (ovviamente del tutto gratuite) di
ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella
mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di
Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi
pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche
risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso
diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked
Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia
newsletter.
Ovviamente,
per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i
lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto
il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.
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DOMANDA
Ciao
Marco,
sono
RLS di una struttura ospedaliera.
Ti
pongo a seguire una serie di questioni per le quali chiedo un tuo parere.
Grazie
in anticipo.
Formazione
del personale
Manca la
squadra del primo soccorso e molti (soprattutto gli infermieri che firmano
impropriamente le bolle dei pasti che arrivano in struttura) non hanno l’HACCP.
In queste bolle figurano delle spuntature a voci del tutto false: igiene,
scadenza, sigillatura...arriva tutto in contenitori aperti!!!
Qualifiche
del personale
Vorrei
sapere se posso richiedere la visione e la verifica delle qualifiche di alcuni
operatori che sono stati spostati di mansione, ma che non dimostrano di
possedere i requisiti.
Visite
mediche
Nessuno ha
fatto le analisi e le nostre idoneità stanno, tutte insieme aperte e non in
busta chiusa, dentro un raccoglitore nell’ufficio del coordinatore.
Documento di
Valutazione del Rischi
Il DVR non
esiste e noi, con questo caldo, siamo senza condizionatori che non possono
essere accesi perché non viene fatta la manutenzione ai filtri (pericolo
legionella). Il clima è asfissiante e gli utenti sono in continua crisi
respiratoria.
RISPOSTA
Ciao,
a seguire le
risposte alle tue domande.
Marco
Formazione
del personale
Si tratta di
due inadempienze che comportano il reato penale.
Il primo
secondo il D.Lgs.81/08 (articolo 18, comma 1, lettera b), secondo cui il datore
di lavoro deve “designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle
misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di
lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso
e, comunque, di gestione dell’emergenza”, sanzionabile).
Il secondo
secondo la normativa di igiene degli alimenti. Se pensi di avere le spalle
coperte, puoi fare tranquillamente richiesta di intervento degli ispettori
(ufficiali di polizia giudiziaria) dell’ASL, nei due distinti servizi: salute e
sicurezza sul lavoro e igiene degli alimenti.
Qualifiche
del personale
Secondo l’articolo 18, comma 1,
lettera c) del D.Lgs.81/08, il datore di lavoro deve “nell’affidare i compiti ai
lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in
rapporto alla loro salute e alla sicurezza” (obbligo
sanzionabile). Tu come RLS puoi richiedere all’azienda di dimostrare
l’adempimento di tale obbligo che comporta la dimostrazione che i lavoratori
sono idonei al lavoro da svolgere (secondo giudizio del medico competente) e
adeguatamente informati e formati sui rischi della mansione specifica e su come
comportarsi per eliminare o ridurre i rischi. Infatti l’articolo 18, comma 1,
lettera n) stabilisce che il datore dio lavoro deve “consentire ai lavoratori di verificare,
mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, l’applicazione
delle misure di sicurezza e di protezione della salute” (obbligo sanzionabile). Anche in
questo caso puoi richiedere l’intervento dell’ASL.
Visite
mediche
Si tratta ancora di due obblighi
sanzionabili: mancata esecuzione delle visite mediche (articolo 18, comma 1,
lettera g) del D.Lgs.81/08, secondo cui il datore di lavoro deve “inviare i lavoratori alla visita medica entro le
scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria e richiedere al medico
competente l’osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel decreto”) e mancata consegna dei giudizi di idoneità al lavoratore (articolo
41, 6-bis D.Lgs.81/08 secondo cui “il medico competente esprime il proprio giudizio per
iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro”).
Documento di
Valutazione del Rischi
Anche la
mancata redazione del DVR (richiesto dagli articoli 17, comma 1, lettera a),
28, 29 del D.Lgs.81/08) è ovviamente sanzionato (con sanzioni particolarmente
elevate).
Il DVR deve
certamente tenere conto dei parametri microclimatici (requisiti dei luoghi di
lavoro) e del rischio legionella (rischio biologico), tra l’altro aggravato
dalla presenza di pazienti con difficoltà specifiche.
************
DOMANDA
Ciao Marco!
Sono RLS di
un grande magazzino alimentare.
Una domanda:
rientra fra i diritti/doveri del RLS fare denuncia ai NAS dei Carabinieri per
della merce deperibile parcheggiata sistematicamente (non tutta, però) fuori
dalla cella?
Nella
fattispecie si tratta di latticini e formaggi e anche merce della frutta e
verdura.
Grazie.
RISPOSTA
Ciao,
occorre
subito distinguere tra la normativa che tutela la salute (e la sicurezza) dei
lavoratori (il Decreto Legislativo n.81 del 2008 “Testo Unico” nel seguito Decreto)
e quella che tutela la salute dei consumatori di prodotti alimentari, sia nella
vendita che nella ristorazione (che fa invece riferimento alle procedure
HACCP).
Ti
posso solo rispondere relativamente alla prima normativa, visto che dell’altra
conosco molto poco.
Preciso
poi, che ai sensi del Decreto, il RLS ha solo diritti (le cosiddette
“attribuzioni” di cui all’articolo 50), ma non doveri o obblighi legali, se non
gli obblighi morali nei confronti dei lavoratori che li hanno designati o
eletti.
Secondo
il Decreto, il RLS ha il ruolo di verificare la politica attuata dalla sua
azienda in merito alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori,
con potere consultivo nei confronti di datore di lavoro e dirigenti e con
potere propositivo in merito a tale politica.
Tra
le attribuzioni del RLS stabilite dal Decreto vi è anche quello di ricorso alla
autorità competente in caso che l’azienda non attui o attui in maniera
incompleta gli obblighi a suo carico.
Infatti
l’articolo 50, comma 1, lettera o) specifica che:
“Il rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le
misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro o
dai dirigenti e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la
sicurezza e la salute durante il lavoro”.
Come vedi però tale facoltà è relativa alla tutela dei lavoratori (“la sicurezza e la salute durante il lavoro”)
e non alla tutela di terzi che potrebbero essere danneggiati dal comportamento
dell’azienda all’interno del quale opera il RLS.
A tale proposito occorre notare che, ai sensi dell’articolo 13, comma
1 del Decreto, le autorità competenti per la tutela della salute e della
sicurezza dei lavoratori (quelle a cui il RLS si può rivolgere) sono i Servizi
di Prevenzione della Sicurezza negli Ambienti di Lavoro (SPRESAL) delle ASL e,
per quanto di competenza, i Vigili del Fuoco e quindi non i servizi di Igiene
Alimentare delle ASL.
L’articolo 13, comma 1 stabilisce infatti che:
“La vigilanza sull’applicazione
della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è
svolta dalla Azienda Sanitaria Locale competente per territorio e, per quanto
di specifica competenza, dal Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco”.
Pertanto da questo punto di vista il RLS non ha il potere di
denunciare la mancata applicazione della normativa sulla conservazione degli
alimenti, in quanto tale inadempienza non comporta rischi per la salute del
lavoratori.
Tale denuncia potrebbe essere comunque fatta dal RLS, ma solo se, a
seguito del mancato rispetto delle norme di conservazione degli alimenti,
derivasse non solo un rischio per gli acquirenti o i consumatori, ma anche un
rischio biologico per i lavoratori, se cioè l’inadempienza comportasse la formazione
di agenti patogeni (batteri) che potrebbero trasmettersi per contatto o
inalazione ai lavoratori incaricati della movimentazione degli alimenti.
Infatti per il rischio biologico, il datore di lavoro e i dirigenti devono
adempiere agli obblighi di cui al Titolo X del Decreto, tra cui quello di
limitarne la formazione.
Tieni poi conto che qualunque cittadino (RLS o meno) che venga a
conoscenza di un reato (e il mancato rispetto delle normative di conservazione
degli alimenti si configura come reato) ha il diritto di farne denuncia formale
all’autorità competente (nel caso da te citato, i NAS dei Carabinieri, la
Polizia Municipale, la ASL Igiene degli Alimenti).
Tale diritto deriva dall’articolo 333 “Denuncia da parte di privati” del Codice di Procedura
Penale che stabilisce che “Ogni persona che
ha notizia di un reato perseguibile di ufficio può farne denuncia. La legge
determina i casi in cui la denuncia è obbligatoria. La denuncia è presentata
oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, al
Pubblico Ministero o a un Ufficiale di Polizia Giudiziaria [agente dei NAS
o della polizia municipale, ispettore ASL Igiene degli alimenti]; se è presentata per iscritto, è
sottoscritta dal denunciante o da un suo procuratore speciale. Delle denunce
anonime non può essere fatto alcun uso [...]”.
L’unico limite
posto da tale articolo è quello che la denuncia non può essere fatta in forma anonima.
Saluti.
Marco
************
DOMANDA
Ciao
Marco,
per
la valutazione dello stress lavoro correlato, l’ufficio del personale ha
distribuito a tutti i lavoratori dei questionari di tre sole pagine.
Mi
sembrano un po’ poche per valutare tale tipo di rischio.
Che
ti risulti, sono solo questi i questionari per lo stress?
RISPOSTA
Ciao,
i
questionari che vi hanno distribuito sono quelli contenuti all’interno del
documento ISPESL “La valutazione e gestione dello stress lavoro-correlato -
Approccio integrato secondo il Management Standard HSE contestualizzato alla
luce del D.Lgs.81/2009 e s.m.i.” del maggio 2010, il cui testo completo trovi
al link:
Tale documento però
è antecedente alla Circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
del 18/11/10 che ufficializza il parere della Commissione Consultiva Permanente
relativa alle metodiche da utilizzare in caso di valutazione di SLC che trovi
al link:
Tale parere è
diretta emanazione degli articolo 28, comma 1-bis e 6, comma 8, lettera
m-quater) del D.Lgs.81/08.
Invece a oggi la maggior
parte delle aziende utilizza il successivo documento INAIL “Valutazione e
Gestione del Rischio da Stress Lavoro-Correlato - Manuale ad uso delle aziende
in attuazione del D.Lgs. 81/08 e s.m.i.” del maggio 2011, che trovi al link:
Questo documento è
allineato al parere della Commissione Consultiva Permanente di cui sopra e che
prevede un maggior numero di domande a cui rispondere, suddivise per indicatori
aziendali, di contesto e di contenuto del lavoro.
In ogni caso,
qualunque sia il metodo che il datore di lavoro, il RSPP e il medico competente
decidono di adottare, esso deve rispettare i requisiti di cui all’articolo 28,
comma 2, lettera a) del D.Lgs.81/08 il documento di valutazione deve contenere
“una relazione sulla
valutazione [...], nella
quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa. La scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di
lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità,
in modo da garantirne la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di
pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”.
Pertanto il datore di lavoro (l’unico
responsabile della stesura del documento di valutazione del rischio, anche da
SLC, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a) del Decreto) deve fare in
modo che i criteri usati garantiscano “la completezza e l’idoneità” del
documento.
Inoltre, ti ricordo che a carico del datore di
lavoro vige l’obbligo (articolo 18, comma 1, lettera s) del Decreto) di “consultare il
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui
all’articolo 50” e quindi (articolo 50, comma 1, lettera b) del
Decreto) lo deve consultare “preventivamente
e tempestivamente in ordine alla valutazione dei rischi [...]”.
Pertanto il RLS ha il diritto (obbligo del datore di lavoro) di essere
consultato prima (“preventivamente”)
dell’inizio del processo di valutazione dei rischi in generale e del rischio da
SLC in particolare, sulle metodologie che il datore di lavoro intende applicare
e ha il diritto di dire la sua.
Poi il datore di lavoro deciderà di fare quello che crede, ma il RLS
sarà informato su come verrà gestita la valutazione e potrà eventualmente
rivolgersi alla ASL (articolo 50, comma 1, lettera o) del Decreto) se ritiene
l’operato dell’azienda non adeguato (come nel tuo caso).
Se hai bisogno di altri chiarimenti fammi sapere.
Marco
************
NOTA
Nel
testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usati i
seguenti acronimi e termini:
ASL
= Azienda Sanitaria Locale
CCNL
= Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DVR
= Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI
= Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori
in appalto
RSPP
= Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS
= Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08
o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e
integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)
CASSAZIONE: SI’ AL
DANNO BIOLOGICO PER DEMANSIONAMENTO ANCHE SENZA MOBBING
Da
Studio Cataldi
09
novembre 2015
di
Valeria Zeppilli
La
Suprema Corte ribadisce che il mobbing è una figura complessa. Quando uno dei
suoi elementi manca, gli altri possono essere valutati giuridicamente anche da
soli
Con
la sentenza numero 22635/2015, depositata il 5 novembre, la Corte di Cassazione
ha chiarito che, anche laddove non venga accolta una domanda di mobbing, è
comunque possibile riconoscere al lavoratore un danno biologico derivante dal
suo demansionamento.
Nel
caso di specie, la ricorrente lamentava una presunta incoerenza della sentenza
di merito che, in presenza di una domanda di mobbing e di conseguente
risarcimento danni da parte di un lavoratore suo dipendente, ne aveva escluso
la fondatezza ma aveva comunque condannato il datore di lavoro al risarcimento
del danno biologico e alla professionalità.
Per
la Cassazione, però, il ragionamento effettuato dalla Corte d’Appello deve
ritenersi corretto.
Infatti,
ricordano i giudici, il mobbing è una figura complessa, composta da molteplici
atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo e guidati da un intento di
persecuzione ed emarginazione.
In
sostanza, affinché esso si configuri, è necessario che vi sia una serie di
comportamenti persecutori, che vi sia una lesione della salute, della
personalità o della dignità della vittima, che tali due elementi siano in
rapporto di causalità e che sussista il suindicato elemento soggettivo.
Quindi,
anche laddove uno di tali elementi manchi e il mobbing non possa di conseguenza
ritenersi integrato, è comunque possibile valutare giuridicamente altri fatti
singolarmente rilevanti.
Così,
correttamente la Corte territoriale, una volta esclusa la sussistenza
dell’intento vessatorio e persecutorio, ha comunque ravvisato l’esistenza di un
danno biologico derivante dalla condotta di radicale e sostanziale
esautoramento del lavoratore dalle sue mansioni.
La
Sentenza numero 22635/2015 della Corte di Cassazione è scaricabile (previa
registrazione gratuita) all’indirizzo:
AMIANTO:
RESPONSABILE L’AZIENDA PER LA MORTE DEL LAVORATORE ANCHE SE ALL’EPOCA NON ERA
PRESENTE SPECIFICA NORMATIVA
Da
Studio Cataldi
09
novembre 2015
di
Lucia Izzo
L’azienda
deve risarcire la famiglia del lavoratore deceduto per colpa dell’amianto,
anche se all’epoca del rapporto lavorativo non erano state ancora introdotte
specifiche norme per il trattamento dei materiali, quali quelle contenute nel
D.Lgs.277/91, successivamente abrogato dal D.Lgs.81/08, che ne ha recepito al
suo interno i disposti.
Spetta
al datore di lavoro dover fornire la prova liberatoria dimostrando di aver
adottato le opportune misure di prevenzione atte a preservare l’integrità
psico-fisica del lavoratore nel luogo di lavoro.
Con
la sentenza n. 22710/2015 la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, accoglie il
ricorso proposto dagli eredi di un uomo deceduto per mesotelioma pleurico,
contratto nell’esercizio dell’attività lavorativa svolta dal 1955 al 1982.
Contestano
i ricorrenti la decisione della Corte d’Appello che ha escluso l’elemento
soggettivo necessario per configurare la responsabilità del datore di lavoro:
per i giudici di merito, all’epoca in cui l’uomo aveva contratto il male, non
era ancora nota l’insidiosità dell’amianto e la sua idoneità a innescare malattie.
Per
gli Ermellini invece, il richiamo al “fatto notorio” non può esimere la
società.
La
pericolosità della lavorazione dell’amianto era nota da epoca ben anteriore
all’inizio del rapporto de quo: già il Regio Decreto 442 del 1909 includeva la
filatura e tessitura dell’amianto tra i lavori insalubri o pericolosi,
vietandolo a donne e fanciulli e richiedendo speciali cautele per quanto
riguarda il pronto allontanamento del pulviscolo; anche il Regio Decreto 530del
1927 conteneva disposizioni relative all’areazione dei luoghi di lavoro, mentre
l’asbestosi, malattia provocata da inalazione da amianto, era conosciuta fin
sai primi del ‘900 e fu inserita tra le malattie professionali nel 1943.
Pertanto,
all’epoca dei fatti di cui è causa, si imponeva l’adozione di misure idonee a
ridurre il rischio connaturale all’impiego di materiale contenente amianto in
relazione alla norma di chiusura di cui all’articolo 2087 del Codice Civile,
che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nel’esercizio delle impresa tutte
quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai
dipendenti, si rendano necessarie a tutelare la loro integrità fisica.
Nel
caso in esame, rileva anche quanto disposto dall’articolo 21 del D.P.R.303/56
(anch’esso oggi integrato nel D.Lgs.81/08) che stabiliva che nei lavori che
danno normalmente luogo alla formazione di polvere di qualunque specie, il
datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre,
per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro,
soggiungendo che le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della
natura delle polveri e della loro concentrazione, avendo quindi caratteristiche
adeguate alla pericolosità.
Lo
sostanze nocive, come disposto dallo stesso D.P.R.303/56, non devono entrare a
contatto con i lavoratori e accumularsi negli ambienti, per cui tra le altre
cose è necessario predisporre locali per le lavorazioni insalubri e utilizzare
di aspiratori.
L’onere
della prova, nel caso di specie, gravava dunque sul datore di lavoro che
avrebbe dovuto prestare prova liberatoria circa l’adozione di cautele previste
in via generale e specifica dalle suddette norme, essendo incontestato il nesso
causale tra l’evento e l’attività svolta dal lavoratore in ambienti a contatto
con l’amianto.
L’insussistenza
dell’elemento psicologico a cui è pervenuta la Corte territoriale non può
essere condivisa: trattandosi di responsabilità contrattuale per omessa
adozione, ex articolo 2087 del Codice Civile, delle opportune misure di
prevenzione, spetta all’azienda dimostrare il contrario, essendo irrilevante
che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione
di specifiche norme sul trattamento dei materiali contenenti amianti.
La
causa torna alla Corte d’Appello per definire nel merito la controversia.
La
sentenza numero 22710/2015 della Corte di Cassazione Sezione Lavoro è
scaricabile (previa registrazione gratuita) all’indirizzo:
INFORTUNIO SUL LAVORO: LA NEGLIGENZA
DEL LAVORATORE NON ESCLUDE LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO
Da: Studio
Cassone
6 novembre
2015
Con sentenza
n. 22413 del 3 novembre scorso, la Suprema Corte di Cassazione è tornata a
pronunciarsi sul tema della sicurezza sul luogo di lavoro e, in particolare,
sulle conseguenze dell’inosservanza delle norme antinfortunistiche.
Il caso di
specie riguardava un lavoratore, operaio di un cantiere edile, deceduto a
seguito di una caduta da una scarpata nei pressi della quale stava operando,
privo della fune di trattenuta.
La Corte
territoriale aveva ritenuto che il mancato utilizzo, da parte del lavoratore,
di tale fune, che pure era disponibile alla sommità della scarpata,
rappresentava un comportamento anomalo e imprevedibile tale da escludere la
sussistenza di un nesso causale tra l’obbligo datoriale di vigilanza e l’evento
mortale accaduto.
La Corte,
perciò, dando rilievo all’omissione colpevole del lavoratore deceduto,
costituita dal fatto di non avere il medesimo utilizzato la fune di trattenuta,
rigettava la domanda di risarcimento dei danni avanzata nei confronti della
società datrice e dei suoi preposti alla sicurezza.
In sede di
ricorso per Cassazione, la difesa del ricorrente contestava che non poteva
essere considerata imprevedibile o anomala l’imprudenza del lavoratore che
aveva omesso di indossare il presidio di sicurezza, essendo tale comportamento
del tutto prevedibile dal datore di lavoro e comunque non assumeva rilievo il
concorso di colpa dello stesso, essendo il datore di lavoro tenuto a
proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza.
La Corte,
nell’accogliere tali argomentazioni, ha chiarito che “In materia di tutela
dell’integrità fisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di
violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità
soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri
dell’abnormità, dell’imprevedibilità e dell’esorbitanza rispetto al
procedimento lavorativo e alle direttive ricevute. Ne consegue che, qualora non
ricorrano detti caratteri della condotta del lavoratore, l’imprenditore è
integralmente responsabile dell’infortunio che sia conseguenza
dell’inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione
dell’obbligo di sicurezza integra l’unico fattore causale dell’evento, non rilevando
in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di
lavoro è tenuto a proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza e
negligenza”.
Pertanto,
l’omissione di cautele da parte dei lavoratori, non è idonea di per sé a escludere
il nesso causale rispetto alla condotta colposa del datore di lavoro che non
abbia provveduto, pur avendone la possibilità, all’adozione di tutte le misure
di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del
lavoro o non abbia adeguatamente vigilato, anche tramite suoi preposti, sul
rispetto della loro osservanza.
Le norme
dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, infatti, sono
dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua
disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza e
imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre
responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare
le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste
misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente.
In
definitiva, l’eventuale concorso di colpa del lavoratore non ha alcun effetto
esimente per l’imprenditore.
La Sentenza
numero 22413/2015 della Corte di Cassazione è consultabile all’indirizzo:
SANITA’: I RISCHI
DELL’INVECCHIAMENTO DELLA FORZA LAVORATIVA
Da:
PuntoSicuro
09 novembre
2015
Un intervento
si sofferma sul progressivo invecchiamento della forza lavorativa con
particolare riferimento al comparto sanitario. Le cause dell’invecchiamento, la
riduzione della capacità mentali e fisiche e le soluzioni integrate.
L’Enciclopedia
della Salute e Sicurezza nel Lavoro dell’ILO (Organizzazione Internazionale del
Lavoro) segnala che l’invecchiamento della popolazione è un fenomeno abbastanza
lento e prevedibile per poter adottare le misure adeguate a ridurne l’impatto
sul lavoro. Ma purtroppo a volte non è solo la mancanza di tempo a impedire una
risposta adeguata a questo cambiamento della forza lavoro. E’ necessaria anche
la consapevolezza che se in un ambiente lavorativo non si tiene conto delle
esigenze dell’organismo umano aumenteranno irrimediabilmente nel tempo il
numero di lavoratori con disturbi e malattie lavoro correlate; i problemi per
chi ha già impedimenti dovuti all’età o ad altre cause; le ripercussioni sulla
produttività dell’azienda.
Per parlare
dei problemi correlati all’invecchiamento nel mondo del lavoro, con particolare
riferimento al settore sanitario, si è tenuto il 30 settembre 2015 a Milano
presso il “Centro per la Cultura della Prevenzione nei luoghi di lavoro e di
vita” (nato dalla collaborazione tra Comune di Milano, ASL Milano, INAIL
Lombardia, Consulta CIIP, DTL e Vigili del Fuoco di Milano) il Convegno di
studio e confronto “Invecchiamento e lavoro in sanità”.
Per parlare
di invecchiamento della forza lavorativa ci soffermiamo sugli atti del Convegno
pubblicati sul sito dell’ Azienda Sanitaria Locale di Milano e in particolare
su un intervento dal titolo “Dati e prospettive” e a cura di Angelo d’Errico
(Servizio Sovrazonale di Epidemiologia ASL TO3, Regione Piemonte).
L’intervento
sottolinea che nei prossimi anni si continua a prevedere un invecchiamento
della popolazione lavorativa dovuto a:
-
bassa
fertilità: in Italia 1,1 figli per coppia;
-
aumento
dell’aspettativa di vita: 79,4 anni per gli uomini, 84,8 per le donne (CIA
World Factbook, 2014);
-
invecchiamento
della popolazione generale: in Europa dal 2010 al 2030 il rapporto tra soggetti
in età maggiore di 65 anni e quelli tra i 20 e i 65 anni salirà dal 29% al 39%
(in Italia dal 34% al 50%);
-
riforma
pensionistica Fornero: innalza l’età minima per la pensione di vecchiaia a 67
anni e per quella di anzianità a 42 anni di contribuzione.
Le slide
dell’intervento, che vi invitiamo a leggere direttamente e che sono ricche di
tabelle e grafici, si soffermano poi sulle caratteristiche e specificità del
lavoratore anziano:
-
le richieste
lavorative generalmente non si riducono con l’età, ma si riduce la capacità lavorativa;
-
esiste
un’ampia variabilità individuale in questa riduzione della capacità lavorativa;
-
possibile
incompatibilità tra la capacità funzionale del lavoratore anziano e il livello
di richieste sul lavoro.
In
particolare si distinguono due aspetti principali della capacità lavorativa:
capacità mentale e capacità fisica.
Riguardo
alla capacità mentale nell’invecchiamento i cambiamenti fisiologici che
generalmente avvengono nella percezione, nell’elaborazione delle informazioni e
nel controllo motorio riducono la capacità di lavoro mentale:
-
l’attività
psicomotoria è più lenta e quella cognitiva è ridotta;
-
la memoria
recente diminuisce;
-
i tempi di
reazione sono più lenti;
-
anche
l’apprendimento di temi complessi può essere più lento;
-
in
particolare bisognerebbe valutare la capacità di comprendere e svolgere il
lavoro, seguire istruzioni, comunicare e interagire con gli altri, garantire la
propria sicurezza.
Riguardo invece
alla capacità di lavoro fisico si indica che:
-
la capacità
di lavoro fisico di un lavoratore di 65 anni è circa la metà di quella di uno
di 25 anni;
-
una
riduzione marcata della capacità fisica comincia dopo i 50 anni, con una
riduzione del 20% tra i 40 e i 60 anni;
-
il declino
della forma fisica è minore tra le donne, in parte per un più basso livello
iniziale di capacità fisica massimale (2/3 rispetto agli uomini);
-
l’invecchiamento
è associato a un progressivo deterioramento di diverse componenti dell’organismo,
tra cui: capacità aerobica e cardiovascolare (riduzione della gittata cardiaca;
riduzione della capacità vitale forzata); forza e resistenza muscolare
(elasticità; equilibrio; composizione).
La relazione
si sofferma poi su cosa dicono gli studi sulla capacità lavorativa dei
lavoratori anziani:
-
le revisioni
disponibili sull’argomento lamentano la carenza di studi su lavoratori anziani
o di risultati relativi alle classi di età più anziane (anche per scarso numero
di lavoratori);
-
in molti
paesi solo una minoranza di lavoratori continua a lavorare dopo i 55-60 anni e
questi sono in media più sani di quelli che vanno in pensione (healthy worker
effect);
-
per questo
motivo in vari studi la prevalenza di molte malattie o disturbi risulta tra i
lavoratori oltre 60 anni artificiosamente più bassa di quella osservabile in
lavoratori più giovani;
-
in generale,
il declino delle capacità mentali e sociali pare più lento e più tardivo di
quello delle capacità fisiche, anche se con l’età aumenta la prevalenza di
disturbi mentali comuni, soprattutto ansia e depressione;
-
lavoratori
anziani in occupazioni con impegno fisico mostrano in alcuni studi alte
prevalenze di disturbi muscoloscheletrici.
Il relatore
si sofferma poi in particolare sull’invecchiamento progressivo nel comparto
sanitario, del personale dipendente del Sistema Sanitario Nazionale, con una
quota, per i lavoratori oltre i 55 anni, che è tuttavia ancora sotto il 25%.
Sono anche
ricordati principali fattori di rischio dei lavoratori della sanità:
-
fattori
ergonomici: sollevamento e movimentazione di pazienti; posture scomode o dolorose;
-
fattori
psicosociali: ritmi di lavoro elevati o carico di lavoro eccessivo; richieste
psicologiche di tipo emotivo; minacce e violenza fisica; lavoro a turni; conciliazione
casa-lavoro;
-
fattori
biologici: rischio di esposizione a liquidi biologici;
-
rischio
infortunistico: cadute accidentali; lesioni da ago e taglienti.
Viene poi
presentata l’esposizione ai fattori di rischio dei lavoratori della sanità, con
riferimento anche ai movimenti ripetitivi, e sono riportate diverse tabelle
commentate sui fattori di rischio correlati all’età dei lavoratori.
In
definitiva l’invecchiamento dei lavoratori della sanità conseguente alla
riforma delle pensioni darà luogo nei prossimi 5-10 anni a una situazione in
cui una rilevante quota di lavoratori (probabilmente il 15-20%) non riuscirà a
svolgere i propri compiti o ci riuscirà incontrando forti difficoltà,
peggiorando il proprio stato di salute e la qualità dell’assistenza, e rischiando
il licenziamento per non-idoneità o assenze per malattia.
E’ dunque
necessario trovare soluzioni integrate, ad esempio:
-
migliorare
l’adattamento dell’ambiente di lavoro (ad esempio migliorare procedure, organizzazione
dei turni, stato di attrezzature, illuminazione, spazi e pavimenti) e del
contenuto della mansione per i lavoratori anziani, soprattutto quelli con
limitazioni funzionali o disturbi mentali (ad esempio aumentare lavoro in
squadra, ridurre movimentazione carichi, lavoro in pronto soccorso o in sala
operatoria, lavoro a turni, ecc.);
-
migliorare
la “work ability” dei lavoratori (anziani e non) mediante interventi di
promozione della salute (soprattutto su abitudine al fumo, dieta e attività
fisica);
-
favorire
l’accesso ai prepensionamenti per disabilità, poco utilizzati in Italia,
abbassandone le soglie e garantendo ai lavoratori indennità non troppo
inferiori al salario o alla pensione;
-
favorire
l’accesso a indennità di disoccupazione e aumentarne la durata per i lavoratori
anziani non sufficientemente disabili da ottenere un prepensionamento, ma
diventati non idonei alla propria mansione e non collocabili in un’altra;
-
favorire
l’anticipazione del pensionamento per i lavoratori addetti ai turni notturni,
allargando le maglie della legge sui lavori usuranti (61 anni di età e 35 di
contribuzione).
Il documento
“Dati e prospettive”, a cura di Angelo d’Errico, intervento al Convegno “Invecchiamento
e lavoro in sanità” è scaricabile all’indirizzo:
E’ SANZIONABILE IL MANCATO
ADDESTRAMENTO?
Da:
PuntoSicuro
11 novembre
2015
Sulla
sanzionabilità per il mancato addestramento dei lavoratori in materia di salute
e sicurezza sul lavoro.
Il
D.Lgs.81/08 definisce, all’articolo 2 (Definizioni), comma 1, lettera cc),
l’addestramento come il “complesso delle attività dirette a fare apprendere ai
lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze,
dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro”.
Con
l’articolo 18 (Obblighi del datore di lavoro e del dirigente), comma 1, lettera
l), indica poi che il datore di lavoro e i dirigenti debbano “adempiere agli
obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e
37”.
In realtà, è
solo l’articolo 37 (Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti) a
richiamare l’obbligo addestrativo, ai commi 4 e 5:
“4 La
formazione e, ove previsto, l’addestramento specifico devono avvenire in
occasione:
a) della
costituzione del rapporto di lavoro o dell’inizio dell’utilizzazione qualora si
tratti di somministrazione di lavoro;
b) del
trasferimento o cambiamento di mansioni;
c) della
introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove
sostanze e preparati pericolosi.
5
L’addestramento viene effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro”.
In quanto
rappresentanti disposizioni descrittive di carattere generale, i commi 4 e 5
non conoscono sanzione.
Peraltro,
nel D.Lgs.81/08, diversi articoli contenuti nei titoli speciali successivi al
primo richiamano l’obbligo generale di addestramento senza che, perciò, sia
prevista direttamente sanzione.
Sanzioni
sono però previste in relazione a specifici obblighi di addestramento. Si
tratta allora di verificare quali siano queste norme specifiche, talvolta
rappresentate, per rinvio di legge, anche da Accordi Stato-Regioni e
decretazioni.
Al proposito
vale ricordare che è il comma 3 dell’articolo 37 a decidere che:
“Il datore
di lavoro assicura, altresì, che ciascun lavoratore riceva una formazione
sufficiente ed adeguata in merito ai rischi specifici di cui ai titoli del
presente Decreto successivi al primo.
Ferme
restando le disposizioni già in vigore in materia, la formazione di cui al
periodo che precede è definita mediante l’Accordo di cui al comma 2”.
Il comma 2
specifica poi che “La durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione
di cui al comma 1 sono definiti mediante Accordo in sede di Conferenza
permanente (Stato Regioni)”; Accordo intervenuto il 21 dicembre 2011.
L’Accordo
Stato Regioni sulla formazione dei lavoratori del 21 dicembre 2011, specifica ,
al suo punto 4, che: “i rischi specifici di cui ai Titoli del D.Lgs.81/08
successivi al primo costituiscono oggetto della formazione” specifica, di cui
al qui considerato Accordo.
Ciò, però,
dopo aver posto in “Premessa”, al secondo capoverso, che “la formazione di cui
al presente Accordo è distinta da quella prevista dai titoli successivi al
primo del D.Lgs.81/08 o da altre norme, relative a mansioni o ad attrezzature
particolari”.
Tornando
alla riportata definizione di “addestramento”, nell’articolo 2, comma 1,
lettere cc), come “complesso delle attività dirette a fare apprendere...”,
abbiamo rilevato come l’articolo 36 (Informazione ai lavoratori) mai riferisca
esplicitamente all’addestramento.
Anzi, pur
richiamando i “rischi specifici cui [il lavoratore] è esposto in relazione
all’attività svolta” (articolo 36, comma 2, lettera a)), non fa alcun
riferimento ad “attrezzature, macchine, impianti...” di cui alla definizione di
“addestramento” nell’articolo.
Tutto ciò,
se da un lato sembra convogliare l’addestramento nell’alveo generale di
informazione e formazione, dall’altro mostra di privilegiare la formazione come
“contenitore” dell’eventuale necessario addestramento.
Non è
inutile a tale proposito ricordare che il D.Lgs.626/94, all’articolo 22
(Formazione dei lavoratori), “ignorava” l’addestramento; con ciò,
evidentemente, ritenendolo connaturato, laddove necessario, alla formazione
medesima.
Personalmente,
ho sempre sostenuto (forse senza gran fantasia) essere la formazione l’alveo
naturale entro il quale vada ad esplicarsi, laddove previsto, l’addestramento.
Ciò, ora, anche secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione, la quale ben
chiarisce come “L’attività di informazione si distingue da quella formativa
perché ha a oggetto il trasferimento di conoscenza, senza che ciò implichi
necessariamente la costruzione di un saper fare. Tuttavia è evidente che
quest’ultima [la formazione] incorpora la prima”.
Di
significativo interesse è che qui la
Corte specifichi come questo “saper fare” debba concretarsi
sia in una capacità di “facere” (essere in grado di operare in condizioni di
sicurezza) che di “non facere” (essere in grado di sottrarsi a condizioni di
rischio), parlando infatti di “competenze che a seconda dei casi prospettano un
facere o un non facere”.
Detto
altrimenti, l’obbligo di formazione, quando si tratti di attrezzature di
elevata complessità, suscettibili di richiedere operazioni riservate a
personale specializzato, non implica unicamente di far conoscere ciò che deve
esser fatto, ma anche ciò da cui astenersi, proprio perché ad altri riservato
(Sentenza n. 44106 del 23 0ttobre 2014 della Cassazione Penale, Sezione IV).
Per altro
verso, se torniamo alla definizione di “addestramento” richiamata in apertura,
vediamo come per esso si debba intendere non solo la concreta pratica, guidata,
nell’utilizzo di dispositivi e attrezzature, ma, per l’appunto, il “complesso
delle attività diretto a far apprendere ai lavoratori l’uso corretto...” (si
pensi, ad esempio, al cosiddetto “accostamento” e, per l’apprendistato, alla
figura del “tutor”, entrambe funzioni sussidiarie: in questi casi
“l’addestramento viene effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro”,
secondo quanto disposto dall’articolo 37, comma 4 del D.Lgs.81/08).
In più parti
il legislatore usa in tal senso i termini “istruzioni” e “istruzioni precise”.
Le stesse
“informazioni” possono essere costituite dalla formazione e dall’addestramento,
ricordando che, secondo l’articolo 227, comma 1, lettera a) del D.Lgs.81/08,
relativo agli agenti chimici “Il datore di lavoro assicura che le informazioni
siano fornite in modo adeguato al risultato della valutazione del rischio di
cui all’articolo 223. Tali informazioni possono essere costituite da
comunicazioni orali o dalla formazione e dall’addestramento individuali con il
supporto di informazioni scritte, a seconda della natura e del grado di rischio
rivelato dalla valutazione del rischio”.
Ad
esemplificazione e conferma di quanto sin qui sostenuto, si richiama il comma 2
dell’articolo 116 del D.Lgs.81/08 relativo agli obblighi dei datori di lavoro
concernenti l’impiego di sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi:
“Il datore
di lavoro fornisce ai lavoratori interessati una formazione adeguata e mirata
alle operazioni previste, in particolare in materia di procedure di
salvataggio”.
Il comma 3
del medesimo articolo specifica che, com’era evidente, “La formazione di cui al
comma 2 ha
carattere teorico-pratico”, decidendo, alla lettera b) che “l’addestramento
specifico [deve essere eseguito] sia su strutture naturali, sia su manufatti”.
Specificazione
che sarà presente anche nell’Accordo Stato Regioni intervenuto il 22 febbraio
2012 su mandato e in attuazione del comma 5 dell’articolo 73 (Informazione,
formazione e addestramento) all’interno del Titolo III (Uso delle attrezzature
di lavoro e dei dispositivi di protezione individuali) del D.Lgs.81/08, che
chiarisce che “In sede di Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, le
Regioni e le provincie autonome di Trento e di Bolzano sono individuate le
attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione
degli operatori nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione,
i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di
validità della formazione”.
Il medesimo
Accordo Stato Regioni 22 febbraio 2012, concernente l’individuazione delle
attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione
degli operatori, nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione,
i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di
validità della formazione in attuazione dell’articolo 73, comma 5 del
D.Lgs.81/08 specifica infatti al punto 3.2 che:
“Il percorso
formativo è finalizzato all’apprendimento di tecniche operative adeguate per
utilizzare in condizioni di sicurezza le attrezzature di che trattasi. Il
percorso formativo è strutturato in moduli teorici e pratici [...]. la Metodologia didattica
prevedere dimostrazioni e prove pratiche, nonché simulazione di gestione
autonoma da parte dell’allievo dell’attrezzatura nelle condizioni di utilizzo
normali e anormali prevedibili (ad esempio guasto), comprese quelle straordinarie
e di emergenza”.
Similmente
l’articolo 136 del D.Lgs.81/08, relativo al montaggio e allo smontaggio dei
ponteggi, chiarisce al comma 6 che:
“Il datore
di lavoro assicura che i ponteggi siano montati, smontati o trasformati sotto
la diretta sorveglianza di un preposto, a regola d’arte e conformemente al
PiMUS [Piano di Montaggio Utilizzo e Smontaggio dei ponteggi], ad opera di
lavoratori che hanno ricevuto una formazione adeguata e mirata alle operazioni
previste”.
Anche in
questo caso il comma immediatamente successivo stabilisce che:
“La
formazione di cui al comma 6 ha
carattere teorico-pratico”.
Quanto
pratico sia tale carattere pratico, lo decide l’allegato XXI del D.Lgs.81/09:
“al termine del modulo pratico [di 14 ore] avrà luogo una prova pratica di
verifica finale”.
Il mancato
rispetto dei contenuti dell’allegato XXI è sanzionato, per gli aspetti
corrispondenti, dall’articolo 159, (Sanzioni per i datori di lavoro e i
dirigenti), comma 2, lettera b), relativamente alla violazione dell’articolo
136, comma 6 con l’ arresto da due a quattro mesi mesi o ammenda da 1.096 a 5.260,80 euro.
Riportiamo
infine, sebbene un po’ involuto, l’esempio dell’articolo 294-bis del
D.Lgs.81/08.
Nel Titolo
XI (Protezione da atmosfere esplosive) al Capo II, che definisce gli obblighi
del datore di lavoro, l’articolo 294-bis (Informazione e formazione dei
lavoratori) prevede al suo comma 1 che:
“Nell’ambito
degli obblighi di cui agli articoli 36 e 37, il datore di lavoro provvede
affinché i lavoratori esposti al rischio di esplosione e i loro rappresentanti
vengano informati e formati in relazione al risultato della valutazione dei
rischi, con particolare riguardo:
[...]
g) agli
eventuali rischi connessi alla presenza di sistemi di prevenzione delle
atmosfere esplosive, con particolare riferimento all’asfissia;
h) all’uso
corretto di adeguati dispositivi di protezione individuale e alle relative
indicazioni e controindicazioni all’uso”.
Si vede qui
come il combinato disposto tra le lettere g) e h), riferisca all’utilizzo di
DPI di terza categoria e dunque all’obbligo di addestramento, previsto
dall’articolo 77, comma 5, nel Titolo III (Uso delle attrezzature di lavoro e
dei dispositivi di protezione individuali). Non a caso, allora, i due articoli,
il 294-bis, comma 1, e il 77, comma 5, conoscono l’identica sanzione: arresto
da tre a sei mesi o ammenda da 2.740
a 7.014 euro; il primo, sulla base dell’articolo 297
(Sanzioni a carico dei datori di lavoro e dei dirigenti), comma 2; il secondo,
sulla base dell’articolo 87 (Sanzioni a carico del datore di lavoro, del
dirigente, del noleggiatore e del concedente in uso), comma 2, lettera d).
Giova
ricordare che l’articolo 77 (Obblighi del datore di lavoro) prevede al comma 5
che:
“In ogni
caso l’addestramento è indispensabile:
-
per ogni DPI
che, ai sensi del Decreto Legislativo 4 dicembre 1992, n. 475, appartenga alla
terza categoria;
-
per i
dispositivi di protezione dell’udito”.
Tale obbligo
è sanzionato dall’articolo 87, comma 2, lettera d) del D.Lgs.81/08 con
l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 2.740 a 7.014 euro.
Sottolineiamo
che, ogni qualvolta una disposizione speciale del D.Lgs.81/08 stabilisca
l’obbligo di utilizzo dei DPI, si dovrà concretamente verificare se questi
rientrino nel novero di quelli previsti dall’articolo 4 del D.Lgs.475/92 come DPI
di terza categoria.
In caso
affermativo dovrà sempre svolgersi, in quanto “indispensabile”, l’addestramento
stabilito dall’articolo 77, comma 5 del D.Lgs.81/08.
Stabilisce
l’articolo 4, commi 5 e 6, del D.Lgs.247/92 (Attuazione della direttiva
89/686/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1989, in materia di
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai dispositivi di
protezione individuale) che:
“5.
Appartengono alla terza categoria i DPI di progettazione complessa destinati a
salvaguardare da rischi di morte o di lesioni gravi e di carattere permanente.
Nel progetto deve presupporsi che la persona che usa il DPI non abbia la
possibilità di percepire tempestivamente la verificazione istantanea di effetti
lesivi.
6. Rientrano
esclusivamente nella terza categoria:
-
gli
apparecchi di protezione respiratoria filtranti contro gli aerosol solidi,
liquidi e contro i gas irritanti, pericolosi, tossici o radiotossici;
-
gli
apparecchi di protezione isolanti;
-
i DPI che
assicurano una protezione limitata nel tempo contro le aggressioni chimiche e
contro le radiazioni ionizzanti;
-
i DPI per
attività in ambienti con condizioni equivalenti a una temperatura d’aria non
inferiore a 100°C
con o senza radiazioni infrarosse, fiamme o materiali in fusione;
-
i DPI destinati
a salvaguardare dalle cadute dall’alto;
-
i DPI
destinati a salvaguardare dai rischi connessi ad attività che espongono a
tensioni elettriche pericolose o utilizzati come isolanti per alte tensioni
elettriche”.
Serrando il
ragionamento, dovrà dirsi allora che la violazione dell’obbligo di
addestramento espone a sanzioni il datore di lavoro e il dirigente, sulla base
delle corrispondenti disposizioni speciali (per l’appunto, “l’addestramento
specifico” ove previsto, di cui all’articolo 37, comma 4 del D.Lgs.81/08).
Opera
infatti, in quanto applicabile, il principio di specialità rappresentato
nell’articolo 298 del D.Lgs. 81/08, secondo il quale:
“Quando uno
stesso fatto è punito da una disposizione prevista dal Titolo I del presente
Decreto e da una o più disposizioni previste dagli altri titoli del medesimo
Decreto, si applica la disposizione speciale”.
A
conclusione, e nel tentativo di ampliare lo spettro, vorremo ulteriormente
considerare il rischio fascinoso dell’utilizzo di norme “generaliste” per
imputazioni che, invece, vanno riferite a disposizioni speciali.
Porto ad
esempio la problematica del permanere di imputazioni sulla base dell’articolo
18, comma 1, lettera l):
“Il datore
di lavoro [...] e i dirigenti [...] devono adempiere agli obblighi di
informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37”.
Non essendo
questa norma presidiata da sanzione penale, in quanto, chiarisce la Suprema
Corte, “norma generale e programmatica”, è inevitabile che la Cassazione ogni
qualvolta si trovi a dover giudicare una condanna sulla base di tale
contestazione rilevi “la violazione del principio di legalità perché il fatto
non è previsto dalla legge come reato” (Sentenza della Cassazione Penale
Sezione III n.3145 del 23 gennaio 2014), mandando assolto l’imputato per riconosciuta
“irrilevanza penale della condotta” (Sentenza della Cassazione Penale Sezione
III n.10023 del 10 marzo 2015).
Sul perché
gli organi di vigilanza abbiano proceduto alla contestazione sulla base
dell’articolo 18, comma 1, lettera l), si possono avanzare due ipotesi:
-
la prima si
lega alla possibilità di svarioni nell’individuare la fattispecie
incriminatrice da parte degli ispettori in funzione di Ufficiali di Polizia
Giudiziaria;
-
la seconda,
a mio avviso preminente, ha una sua giustificazione storico-giuridica: essa è
data dal lasso temporale necessario a che il giudicato approdi in Cassazione;
vale ricordare che nel periodo intercorrente tra l’emanazione del D.Lgs.81/08
(aprile 2008) e quella del Decreto integrativo e correttivo D.Lgs.106/09
(agosto 2009), la norma considerata prevedeva la sanzione penale: arresto da
quattro a otto mesi o ammenda da 2.000 a 4.000 euro (articolo 55, comma 4,
lettera e) del D.Lgs.81/08).
Tale seconda
ipotesi, esplicitamente confermata nella Sentenza della Cassazione Penale
n.28577 del 6 luglio 2015, è destinata perciò a risolversi spontaneamente in un
tempo ormai breve. Va cioè ad esaurirsi il riferimento, nella imputazione, alla
norma penalmente sanzionata del 2008.
Così come,
per il medesimo motivo, andrà tra breve a risoluzione spontanea il problema
della continuità normativa del D.Lgs.81/08 rispetto a precedente legislazione
prevenzionale; problema pur già cristallizzato in principio positivo dalla
Corte di Cassazione; anzi, in alcune sentenze risulta già risolto.
Permane,
semmai, un problema di puntuale individuazione della fattispecie
incriminatrice, sulla base del principio di specialità. I giudici di
legittimità hanno, ad esempio, riconosciuto l’errore del Tribunale, consistito nella
(provo a dirla così) duplice imputazione della medesima condotta colposa
(imputazione rivelatasi peraltro insussistente, su entrambi i capi, al vaglio
di legittimità).
Nella
circostanza, il Tribunale aveva condannato l’imputato per violazione dell’articolo
18, comma 1, lettera l) e dell’articolo 71, comma 7 per “non aver impartito, al
lavoratore infortunato, una formazione adeguata circa l’impiego delle
attrezzature”.
L’articolo
71, comma 7, lettera a), recita:
“Qualora le
attrezzature richiedano per il loro impiego conoscenze o responsabilità
particolari in relazione ai loro rischi specifici, il datore di lavoro prende
le misure necessarie affinché l’uso dell’attrezzatura di lavoro sia riservato
ai lavoratori allo scopo incaricati che abbiano ricevuto una informazione,
formazione ed addestramento adeguati”.
La
Cassazione accoglie come fondato il ricorso del rappresentante legale della
azienda e articola poi, naturalmente, il giudizio sulla inconsistenza penale
della enunciazione di cui all’articolo 18, comma 1, lettera l), oltre che
sull’insussistenza del fatto relativamente alla presunta violazione dell’art.
71, comma 7, non essendo stato, nel caso, il lavoratore vittima dell’infortunio
incaricato all’uso dell’attrezzatura. (Sentenza della Cassazione Penale Sezione
III n.3145 del 23 gennaio 2014).
Pietro
Ferrari
Commissione
salute e sicurezza sul lavoro
FILCAMS CGIL
Brescia
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