INDICE
Tonino
Innocenti tonino.innocenti@email.it
SUL TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA DEL 01/01/14
Alfonso Navarra alfonsonavarra@virgilio.it
COP 21: DIETRO IL TRIONFALISMO, NIENTE
Mario Murgia info@associazioneespostiamiantovalbasento.it
I FONDI EUROPEI PER RIMUOVERE L’AMIANTO
Mario Murgia info@associazioneespostiamiantovalbasento.it
ITALIA BACCHETTATA SULL’AMIANTO: DEVE RISARCIRE LE VITTIME
Mario Murgia info@associazioneespostiamiantovalbasento.it
“BUCHI PER TERRA”: IL CENTRO OLIO VAL D’AGRI
Posta
Resistenze posta@resistenze.org
COP 21: NESSUNA AZIONE A FAVORE DEL CLIMA
Posta Resistenze posta@resistenze.org
COP21: METE E GEOINGEGNERIA
Posta Resistenze posta@resistenze.org
SETTIMANA DI 30 ORE IN SVEZIA: UNA PRIMA VALUTAZIONE MOLTO
PROMETTENTE
Luigi Di Noia ilfokista@gmail.com
LA CRISI UCCIDE COME IN UNA “NUOVA GUERRA”
Riccardo Antonini erreemmea@libero.it
INCENDIO IN FERROVIA
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From: Tonino
Innocenti tonino.innocenti@email.it
To:
Sent:
Saturday, December 12, 2015 9:16 PM
Subject: SUL TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA DEL 01/01/14
Negli ultimi anni le politiche economiche europee e le
scelte dei governi che si sono succeduti hanno colpito sistematicamente il
mondo del lavoro, rendendo sempre più precari i lavoratori, devastando i salari
e i diritti di lavoratrici e lavoratori.
Con il Testo Unico sulla rappresentanza del 01/01/14 (di
recente attuazione) e con l’attacco al diritto di sciopero, si tenta di
chiudere il cerchio per escludere dai luoghi di lavoro ogni forma di dissenso e
democrazia, ogni possibilità di libera organizzazione.
In particolare, con il Testo Unico, siglato il 10
gennaio 2014 da CGIL, CISL, UIL e Confindustria, estremo tentativo corporativo
di associazioni in crisi che cercano di confermare il proprio ruolo e funzione,
l’intervento sindacale nei posti di lavoro è reso oltremodo subalterno al grado
di asservimento nei confronti delle politiche economiche dei datori di lavoro,
che azzera la democrazia sindacale nelle aziende private, estendendo (e
peggiorando!) il modello Fiat Pomigliano a tutte le aziende private.
Con un assurda imposizione del peggior centralismo
burocratico, che desterebbe scandalo in qualsiasi altro settore della società
civile, viene inibita ogni possibile pratica di dissenso organizzato.
Cosa prevede questo accordo?
Soltanto i sindacati che “accettino espressamente,
formalmente e integralmente i contenuti del presente accordo” e i conseguenti
regolamenti elettorali possono:
-
concorrere
senza veti e limitazioni alle RSU/RSA;
-
partecipare
(se considerati “rappresentativi” di almeno il 5% dei lavoratori di un settore)
alla contrattazione collettiva e aziendale;
-
essere
riconosciuti dalle aziende come sindacati rappresentativi ed aver diritto alle trattenute in busta paga.
In cambio di questo, i sindacati firmatari del Testo
Unico sulla Rappresentanza devono rinunciare al diritto di indire liberamente
lo sciopero e si impegnano a moderare l’ostilità contro le aziende, rinunciando
di fatto alla lotta.
I sindacati firmatari, infatti, non potranno più
organizzare iniziative di sciopero o di contrasto contro un contratto/accordo
(aziendale o nazionale) sottoscritto dal 50% + 1 delle RSU/RSA o dai sindacati
maggioritari di categoria, salvo incorrere nella soppressione dei diritti
sindacali e in sanzioni economiche che possono ricadere anche sui lavoratori.
Addirittura, i sindacati firmatari non potranno organizzare proteste o scioperi
durante le fasi di trattativa!
Firmare questo accordo significa contribuire alla
distruzione del sindacato come strumento di lotta a difesa dei lavoratori e
delle lavoratrici!
Si tratta di un grave attacco ai diritti dei
lavoratori e delle lavoratrici!
Il Testo Unico attacca soprattutto i diritti dei
lavoratori e delle lavoratrici, a cui sarà negata la possibilità di scegliere
liberamente i propri rappresentanti sindacali nei posti di lavoro e che,
soprattutto, rischiano di dover subire in silenzio accordi al ribasso, sia sul
piano salariale che dei diritti.
Si tratta di un accordo liberticida che obbliga tutti
i sindacati firmatari alla concertazione, cancella la democrazia della
rappresentanza e il diritto di dissenso dei lavoratori, priva lavoratori e
lavoratrici dei principali strumenti a loro disposizione per respingere gli
attacchi dei padroni e del governo: gli scioperi e l’azione sindacale conflittuale.
Troppi sindacati lo hanno firmato!
Purtroppo, dopo una forte iniziale mobilitazione
unitaria contro il Testo Unico (che ha coinvolto numerosi sindacati, dalla FIOM
ai sindacati di base) e nonostante il successo della campagna contro la firma dell’accordo
vergogna, promossa dal Coordinamento No Austerity e sostenuta da varie sigle
sindacali e comitati di lotta, persino alcuni sindacati conflittuali hanno
deciso di firmare il testo unico.
La FIOM si sta presentando nella maggioranza delle elezioni RSU
e RSA sottoscrivendo i contenuti dell’accordo, dopo che la direzione nazionale FIOM
ha abbandonato la battaglia contro la firma all’interno della CGIL. Persino le
direzioni nazionali di Cobas Lavoro Privato, Snater, Orsa e recentemente di USB
hanno deciso di cedere al ricatto padronale, firmando questo accordo
vergognoso.
Si tratta di un accordo liberticida, che cancella i
più elementari diritti, come quello di scioperare contro accordi che non si
condividono.
Sopprimere i diritti sulle libertà sindacali
evidentemente per avvallare peggioramenti economici e normativi sulle
condizioni di lavoro, è una necessità che Confindustria e CGIL, CISL, UIL,
hanno partorito come prevenzione, all’inevitabile inasprimento della
conflittualità tra capitale e lavoro.
Noi pensiamo che quanti più sindacati firmano questo
accordo vergognoso tanto più si indebolisce la lotta contro il Jobs Act, contro
i licenziamenti, contro il razzismo e contro tutte le misure governative di
austerity e privatizzazione.
I dirigenti sindacali che firmano l’accordo rinunciano
di fatto a lottare per respingerlo e aprono la strada a una nuova legge contro
il diritto di sciopero, di rappresentanza e di libera espressione: una legge
già annunciata dal governo, che, come dimostrano le sempre più frequenti
dichiarazioni di ministri e parlamentari, tenterà di cancellare ogni minimale
diritto di dissenso.
Secondo i disegni padronali e delle sigle sindacali
che hanno avallato tale progetto antidemocratico, le forze organizzate che
dissentono dalle politiche economiche e sociali dominanti, debbono adeguarsi e
sottoscrivere il Testo Unico, per garantirsi la sopravvivenza, rassegnandosi
alla marginalità e all’impotenza.
In questo contesto è necessario ed irrinunciabile
porsi alcune domande:
-
è possibile cercare soluzioni alternative
o bisogna rassegnarsi e adeguarsi supinamente a svolgere l’attività sindacale
che “serve” ai padroni ?
-
ci può essere futuro democratico per un
Paese che concede l’azione sindacale solo se subalterna ai poteri finanziari e
padronali ?
La CUB non ha sottoscritto l’adesione al Testo Unico e si
batte contro i divieti all’esercizio libero del diritto di sciopero.
La CUB ritiene indispensabile cercare soluzioni che
restituiscano dignità e ruolo alle lavoratrici e ai lavoratori, nel libero e
democratico esercizio dell’attività sindacale.
Rilanciamo la campagna contro l’accordo della vergogna
e per la difesa del diritto di sciopero!
Contro lo sfruttamento di padroni e governo i
lavoratori devono organizzarsi autonomamente attraverso rappresentanti che
siano espressione delle lotte e non con finti delegati, servi dei diktat
aziendali, con le mani legate e privi di concreti strumenti di opposizione
sindacale.
E’ necessario e urgente rilanciare la battaglia contro
l’accordo della vergogna sulla rappresentanza, parallelamente alla campagna
contro la repressione delle lotte e del dissenso.
Difendere il sindacalismo conflittuale e il diritto di
sciopero è un primo fondamentale passo per una mobilitazione unitaria e
coordinata contro le politiche di austerity imposte dal governo (tra cui il
Jobs Act) e contro la privatizzazione di Sanità, Trasporti, Scuola (la
cosiddetta “Buona Scuola”), che speculano sul costo del lavoro e dismettono i
servizi pubblici essenziali.
FLM Uniti CUB Campania
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To:
Sent:
Monday, December 14, 2015 12:39 AM
Subject:
COP 21: DIETRO IL TRIONFALISMO, NIENTE
Eccolo
finalmente, in ritardo di un giorno, e con un rinvio anche stamattina (dalle
9.00 annunciate si è passati alle quasi 19.00 di stasera), da Le Bourget di
Parigi, il famoso, storico, “sospirato” (dalla elite mediatica e politica),
accordo sul clima. Quello che, a modesto parere del sottoscritto, ispirato
dalle critiche di Hermann Sheee al “minimalismo organizzato” delle conferenze,
e alle pretese di mercificazione dell’aria (con il sistema della compravendita
dei crediti di inquinamento), anche se rispettato, ci rovinerà comunque.
Quello che
consente di suonare le trombe della vittoria, a Hollande, a Ban Ki-moon,
praticamente a tutti i capi di Stato, ma anche alle associazioni ambientaliste
come WWF e Greenpeace, è l’obiettivo ufficialmente raggiunto dopo tredici
giorni di negoziati: “L’aumento della temperatura sarà mantenuto ben sotto i
due gradi”, è il titolone che sarà sparato sui giornali.
Ciò che è
ufficiale, che sta davanti agli occhi di tutti, e quindi mi interessa come “problema
da indagare”, da “antigiornalista” che usa il cervello e non le gambe per
inseguire i pettegolezzi di corridoio, è che si tratta non di lotta al
riscaldamento climatico, ma di mitigazione e adattamento. A riflettere bene su
questa realtà palese si dovrebbe, a mio parere, capire meglio il senso delle cose.
All’inizio c’è
la questione dei tagli delle emissioni di CO2 e delle quote in cui devono
essere distribuiti; ma si parla anche di un futuribile percorso verso le zero
emissioni, per il quale viene fissato un orizzonte “nella seconda metà del
secolo”, che però non stabilisce passaggi né scadenze precise.
Ma a ben
vedere gli stessi tagli non hanno una scadenza di partenza. Quindi si resterà
fermi per anni, con obiettivi proclamati, ma non attuati, prima di iniziare
davvero (forse) la cura alla “febbre del Pianeta”. Il buon senso comune non
osserverebbe che il paziente, vale a dire l’ecosistema globale che ci permette
di vivere, in questo modo potrebbe tirare le cuoia?
L’ipocrisia
di fondo del circo mediatico-diplomatico della COP 21, con contorno, ripeto,
delle grandi ONG accreditate a “spingere”, al sottoscritto appare evidente.
Spiegatemi come si può conciliare la stabilizzazione del clima con il via
libera via libera alle trivelle nell’Artico e ovunque e con il mantenimento dei
500 miliardi di dollari anni per incentivare i combustibili fossili (di cui a
Parigi non si fa quasi menzione)!
Questa la
situazione in cui l’ambientalismo mediatico delle grandi ONG si inserisce con
il +1 (ad esempio più soldi al Fondo per i Paesi in via di sviluppo) sostanzialmente
all’interno degli stessi parametri: OXFAM, Greenpeace, WWF, etc., fatemi il
piacere!
Non si
coglie il principio di fondo: è il momento, questo, non della transizione, ma
della rivoluzione energetica, che ciascun Paese può e deve (grazie alla
pressione popolare) iniziare a percorrere da subito, senza stare ad aspettare
gli altri, l’accordo di tutti, perché il 100% rinnovabili subito si basa
(riprendo Hermann Sheer) su tre azioni semplicissime:
-
chiudere il
rubinetto dei finanziamenti pubblici ai combustibili fossili (in Italia 15
miliardi di euro all’anno);
-
stabilire la
priorità delle FER nel dispacciamento in rete;
-
garantire,
con le municipalizzate e le aziende locali, l’infrastruttura adeguata.
Non
servirebbe altro e misure come queste produrrebbero più trasformazioni di
sistema di tutte le chiacchiere sull’ “abbattimento del capitalismo” e il “superamento
della logica del profitto”, magari con contorno di convinzioni più o meno
dichiarate sull’inevitabile necessità dell’insurrezione armata.
Molti “anticapitalisti”
che non fanno l’analisi concreta della situazione concreta, che non si sforzano
di esaminare, alla Luciano Gallino, ad esempio, come funzionano effettivamente
le cose, sono i primi a credere alle favole che raccontano i veri “capitalisti”.
Veramente credono che se l’ENI potesse fare più profitti col “sole”
abbandonerebbe subito l’estrazione di gas e petrolio? Che esista un qualcosa
che, sui grandi beni e servizi, possa chiamarsi “concorrenza economica sul
libero mercato”?
E’ la favola
a cui crede, per esempio, lo scienziato James Hansen, intervistato oggi sul
sito di Repubblica, che pure giudica l’accordo “una frode, un falso”. Ecco le
sue motivazioni: “E’ una sciocchezza dire: abbiamo l’obiettivo dei 2 gradi e
cercheremo di fare un po’ meglio ogni 5 anni. Sono solo parole senza senso. Non
c’è nessuna azione, solo promesse. Fino a che i carburanti fossili saranno i
più economici, continueranno a essere bruciati”. Quello che dimentichi anche
tu, caro Hansen, è che i fossili sono economici in quanto spropositatamente
sovvenzionati. E dimentichi anche di chiederti perché ciò si verifica. E’ un
fatto casuale?
Gli
anticapitalisti ideologici, come Hansen, insomma non si rendono conto che
esiste un rapporto organico tra appoggio dello Stato, orientato dalla logica
della potenza, e certe scelte economiche e tecniche, che devono essere coerenti
con la realtà di una grande organizzazione economica che, anche grazie all’accesso
alle casse dello Stato, concentra risorse e tecnologia.
L’ENI
investirà come core business nel sole solo se si troverà il modo, conservando
il rapporto con l’elite burocratica di Stato, di recintarlo e di sfruttarlo con
tecnologie molto complesse e non liberamente disponibili: il profitto (la
differenza tra costi e ricavi, che tra l’altro si misura in valori monetari ed
è quindi legato alla complessa tecnologia sociale e politica della moneta) da
solo non c’entra un beneamato tubo!
Ma
rientriamo nel merito di ciò di cui tutti parlano sui media.
L’accordo
della COP 21 in
questione è il primo firmato subito da 195 Paesi, e la presidenza francese,
come ci tocca sentire, se ne fa un gran vanto.
Lo scoglio
più duro che si è dovuto superare nella fase finale è stato quello della “differenziazione
di responsabilità” tra Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo, con l’India in
particolare a puntare platealmente i piedi (ma anche la Cina dietro le quinte).
A tirare la
coperta dal punto di vista dell’”ambizione” degli obiettivi (il famoso tetto di
1,5°C di
aumento al posto di 2°C)
abbiamo trovato invece Stati come Nigeria, Grenada o l’arcipelago polinesiano
di Palau, mobilitati attivamente per difendere “passaggi chiave” dell’accordo
sulla tutela delle aree vulnerabili (in particolare quelle che i mari stanno
per sommergere).
Sui temi più
spinosi si sono trovate formule di compromesso, ad esempio sui “loss and
damages”, il supporto ai paesi “vulnerabili” per affrontare i cambiamenti “permanenti
e irreversibili”, che vengono dati per scontati, visto che appunto ci si deve
adattare al riscaldamento climatico, che, “repetita iuvant”, può solo essere
contenuto, non evitato.
I
climatologi fissano i 2° C come “linea rossa” da non superare per evitare un
precipizio catastrofico (ed è dubbio che gli scienziati stessi sappiano bene
cosa intendono con questa espressione). La realtà, stando ai loro stesi
calcoli, è che la traiettoria reali verso cui portano gli impegni presi dagli
Stati portati alla Conferenza è di 3 - 3,5° C: un disastro di grandi, forse
irrimediabili, proporzioni!
Mi fermo
qui.
Sui dettagli
dell’accordo basta il lavoro dei “giornalisti”. Cioè potete benissimo leggere (con
attenzione critica) quanto comunica l’ANSA con il dispaccio che riporto sotto.
Da www.ansa.it
STORICO
ACCORDO SUL CLIMA
La scheda
sui punti principali dell’accordo la si trova alla URL:
http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2015/12/12/scheda-clima-i-punti-principali-dellaccordo-di-parigi_fd6ee519-89ff-4852-8489-a0dc227d02b4.html
Ecco i punti principali dell’accordo finale della COP21 e della decisione che lo accompagna.
Ecco i punti principali dell’accordo finale della COP21 e della decisione che lo accompagna.
RISCALDAMENTO
GLOBALE
L’articolo 2
dell’accordo fissa l’obiettivo di restare “ben al di sotto dei 2 gradi rispetto
ai livelli pre-industriali”, con l’impegno a “portare avanti sforzi per
limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi”.
OBIETTIVO A
LUNGO TERMINE SULLE EMISSIONI
L’articolo 3
prevede che i Paesi “puntino a raggiungere il picco delle emissioni di gas
serra il più presto possibile”, e proseguano “rapide riduzioni dopo quel
momento” per arrivare a “un equilibrio tra le emissioni da attività umane e le
rimozioni di gas serra nella seconda metà di questo secolo”.
IMPEGNI
NAZIONALI E REVISIONE
In base all’articolo
4, tutti i Paesi “dovranno preparare, comunicare e mantenere” degli impegni
definiti a livello nazionale, con revisioni regolari che “rappresentino un
progresso” rispetto agli impegni precedenti e “riflettano ambizioni più elevate
possibile”. I paragrafi 23 e 24 della decisione sollecitano i Paesi che hanno
presentato impegni al 2025 “a comunicare entro il 2020 un nuovo impegno, e a
farlo poi regolarmente ogni 5 anni” e chiedono a quelli che già hanno un
impegno al 2030 di “comunicarlo o aggiornarlo entro il 2020”. La prima verifica dell’applicazione
degli impegni è fissata al 2023, i cicli successivi saranno quinquennali.
LOSS AND
DAMAGE
L’accordo
prevede un articolo specifico, l’8, dedicato ai fondi destinati ai Paesi
vulnerabili per affrontare i cambiamenti irreversibili a cui non è possibile
adattarsi, basato sul meccanismo sottoscritto durante la COP19, a Varsavia, che “potrebbe
essere ampliato o rafforzato”. Il testo “riconosce l’importanza” di interventi
per “incrementare la comprensione, l’azione e il supporto”, ma non può essere
usato, precisa il paragrafo 115 della decisione, come “base per alcuna
responsabilità giuridica o compensazione”.
FINANZIAMENTI
L’articolo 9
chiede ai Paesi sviluppati di “fornire risorse finanziarie per assistere”
quelli in via di sviluppo, “in continuazione dei loro obblighi attuali”. Più in
dettaglio, il paragrafo 115 della decisione “sollecita fortemente” questi Paesi
a stabilire “una roadmap concreta per raggiungere l’obiettivo di fornire
insieme 100 miliardi di dollari l’anno da qui al 2020”, con l’impegno ad
aumentare “in modo significativo i fondi per l’adattamento”.
TRASPARENZA
L’articolo
13 stabilisce che, per “creare una fiducia reciproca” e “promuovere l’implementazione”
è stabilito “un sistema di trasparenza ampliato, con elementi di flessibilità
che tengano conto delle diverse capacità”.
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To:
Sent:
Wednesday, December 16, 2015 5:58 PM
Subject: I FONDI EUROPEI PER RIMUOVERE L’AMIANTO
Da: http://www.beppegrillo.it
Comuni e Regioni hanno un’occasione d’oro.
I fondi europei
possono essere usati per bonificare l’amianto dagli edifici pubblici. Come
denunciato dal Movimento 5 Stelle l’amianto non è stato ancora rimosso dal 98%
degli edifici pubblici e dei luoghi di lavoro in cui è presente. Tetti, tegole,
pavimento dei cortili, protezioni da calore sono una minaccia alla salute degli
italiani. Negli ultimi 20 anni le vittime di mesotelioma (il cancro dell’amianto)
sono state 21.463. Considerando i tumori a polmoni, laringe, esofago e
testicoli i decessi totali superano le 30 mila unità. Solo le bonifiche possono
salvare le vite umane.
L’Europa adesso
tende una mano a Comuni e Regioni. Nell’accordo di partenariato Italia-UE per
la programmazione dei fondi 2014-2020 si prevede la possibilità di smaltire l’amianto e ristrutturare il patrimonio edilizio,
anche con finalità di risparmio energetico.
Tutti gli enti
locali e regionali devono attivarsi per sfruttare questa possibilità che finora
era stata esplorata solo in minima parte. Il disco verde è arrivato dalla
Commissione europea che, in risposta a una interrogazione presentata dal
portavoce Ignazio Corrao, ha aperto all’uso dei Fondi strutturali e d’investimento
europei, in gestione concorrente, per sostenere la rimozione di amianto dagli
edifici, purché, dice la
Commissaria Cretu, sussistano evidenti legami con le priorità
di investimento elencate nei programmi nazionali o regionali.
Nonostante, dunque,
sia stato concesso all’Italia di prevedere la rimozione dell’amianto tramite
bandi appositi nei diversi Programmi Operativi a valere sul FESR, sono ancora
pochissimi i Comuni in cui la mappatura degli edifici con amianto è stata
completata. Un uso intelligente ed ecosostenibile dei fondi è un mezzo per
arginare i rischi legati alla salute, ma anche per favorire la crescita
occupazionale e ridurre il consumo di suolo.
Il Parlamento
europeo, lo scorso 25 novembre, grazie a due emendamenti presentati dai
portavoce del Movimento 5 Stelle (Laura Agea, Tiziana Beghin, Rosa D’Amato e
Piernicola Pedicini) ha bacchettato l’Italia che dell’amianto se ne frega.
Nel primo, si
chiede alla Commissione europea di finanziare con fondi adeguati i piani d’azione
nazionale e la rimozione dell’amianto.
Nel secondo, si
chiede che tutti gli Stati membri facciano un censimento vero, conformemente
alla direttiva europea approvata nel 2009, e
risarciscano i lavoratori vittime dell’esposizione all’amianto.
Se non fosse
chiaro, ci sono i soldi per rimuovere l’amianto. Basta solo volerlo.
Il video “I portavoce al Parlamento europeo Ignazio Corrao e Rosa D’Amato spiegano come cogliere l’opportunità dei fondi europei. Per l’amianto, ma non solo” è visibile al link:
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To:
Sent:
Wednesday, December 16, 2015 5:59 PM
Subject: ITALIA BACCHETTATA SULL’AMIANTO: DEVE RISARCIRE LE VITTIME
Da: http://www.beppegrillo.it
C’è chi sfila alla Prima della Scala e chi invece
lotta per i diritti dei cittadini. A Milano all’esterno della Scala, durante la Prima del teatro scaligero,
alcuni lavoratori hanno protestato portando in piazza sette croci, simbolo dei loro colleghi vittime dell’esposizione
all’amianto. Nessuno è andato fuori ad ascoltarli, nessuno ha detto loro che si
farà di tutto per rimuovere l’amianto da edifici e luoghi di lavoro perché,
forse il Presidente del Consiglio non lo sa, ma di amianto
si muore ancora oggi, 23 anni dopo la legge che lo rendeva
illegale.
Negli ultimi 20
anni in Italia le vittime di mesotelioma sono state 21.463. Per capire quanto grave sia la sottovalutazione
dell’esposizione all’amianto bisogna però aggiungere, a questi drammatici dati,
anche i 3.000 decessi per tumore ai polmoni e i 6.000 per quello alla laringe,
all’esofago e ai testicoli. Questi numeri sono relativi ai soli casi
certificati, dunque sono sottostimati.
In Italia solo il
2% dell’amianto presente negli edifici e luoghi di lavoro è stato bonificato.
Il piano nazionale per lo smaltimento dell’amianto è lettera morta, poiché la Conferenza Stato-Regioni
non lo ha reso esecutivo. Queste inadempienze non passano inosservate in
Europa. E adesso, grazie al Movimento 5 Stelle, arriva la bacchettata del
Parlamento europeo che, in una risoluzione approvata in plenaria, bacchetta l’Italia
e tutti i Paesi che hanno messo il problema sotto il tappeto.
Il Movimento 5 Stelle Europa, tramite i portavoce Laura
Agea, Tiziana Beghin, Rosa D’Amato e Piernicola Pedicini, ha presentato due
fondamentali emendamenti che poi sono stati approvati dall’aula.
Nel primo si chiede
alla Commissione europea di finanziare con fondi adeguati i piani d’azione
nazionale e la rimozione dell’amianto.
Nel secondo si
chiede che tutti gli Stati membri facciano un censimento vero, conformemente
alla direttiva europea approvata nel 2009, e risarciscano
i lavoratori vittime dell’esposizione all’amianto.
In Italia sono
pochissimi i Comuni in cui la mappatura degli edifici con amianto è stata
completata. A Carpi, per esempio, ci sono ben 2.000 tetti in amianto, ma i
cittadini non lo sanno perché le notifiche con le comunicazioni sono
addirittura bloccate. L’Osservatorio italiano amianto denuncia l’inadempimento
da parte dello Stato italiano dell’obbligo di tutela della salute e dell’ambiente
in ordine al rischio amianto. Lo ha fatto in un convegno
organizzato al Parlamento europeo dalla portavoce Tiziana
Beghin.
Il video “Ecco le croci portate in piazza della Scala dai
lavoratori del teatro durante la
Prima. Solo il Movimento 5 Stelle lotta per i diritti delle
vittime” è visibile al link:
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To:
Sent:
Wednesday, December 16, 2015 5:45 PM
Subject: “BUCHI
PER TERRA”: IL CENTRO OLIO VAL D’AGRI
”BUCHI PER TERRA”: IL
CENTRO OLIO VAL D’AGRI
UN REPORTAGE DI MAURIZIO
BOLOGNETTI
Il cuore delle attività di estrazione idrocarburi in
Basilicata è rappresentato dal Centro Olio Val d’Agri (COVA), uno stabilimento
a rischio incidente rilevante ubicato nella zona industriale di Viggiano (PZ),
dove affluisce il greggio che la Joint Venture ENI Shell estrae dai 27 pozzi della
concessione di coltivazione idrocarburi “Val D’Agri”.
Nel COVA il greggio subisce un primo trattamento, che
consiste nella separazione della miscela di idrocarburi, gas naturale e acque
di strato proveniente dalle aree pozzo.
Uno dei prodotti che residuano dal trattamento subito
dall’oro nero all’interno del
Centro Olio è rappresentato dalle cosiddette acque di strato, che “contengono
composti organici (idrocarburi e non, additivi chimici utilizzati per migliorare
il processo estrattivo) ed inorganici (sali, metalli pesanti)”.
E proprio sullo smaltimento delle acque di strato si è
concentrata l’attenzione della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di
Potenza, che da mesi indaga sulle attività estrattive in Val d’Agri.
Un’inchiesta, quella della DDA, articolata in più
filoni e che ruota proprio attorno alle attività del COVA e all’impatto sull’ambiente
e sulla salute umana esercitato da queste attività.
Tra le ipotesi di reato formulate dagli inquirenti il disastro ambientale e il traffico illecito di rifiuti.
Tra le ipotesi di reato formulate dagli inquirenti il disastro ambientale e il traffico illecito di rifiuti.
L’inchiesta, che sta facendo tremare i Palazzi della
politica lucana, ha avuto un ulteriore sviluppo nella giornata di martedì 2
dicembre, quando i Carabinieri del Nucleo Operativo
Ecologico (NOE) dei Carabinieri hanno bussato nuovamente alle
porte del Centro Olio, questa volta per indagare sull’impatto esercitato dagli
inquinanti emessi dallo stabilimento.
Ironia della sorte, venerdì 5 dicembre, proprio mentre
presso il comune di Viggiano era in corso un vertice sulla sicurezza, la sirena
del COVA ha squarciato il silenzio della Valle dell’Agri, segnalando l’ennesimo
incidente e seminando il panico tra la popolazione.
Il reportage
di Maurizio Bolognetti è visibile al link:
Al 16esimo minuto del reportage, Bolognetti intervista
il medico Giambattista Mele, esponente dell’ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente),
che pone l’accento sulla forte presenza nell’ambiente circostante di
idrocarburi non metanici, quali benzene H2S ed altri, con picchi di oltre 3.000
microgrammi per metro cubo, oltre 10 volte la concentrazione registrata nella
città di Taranto. Rimarca che, con prova provata, anche respirare soglie minime
di 6÷7 ppm di H2S giornalmente, causa il cancro polmonare.
In merito agli effetti derivanti dalla presenza di
inquinanti nell’ambiente, l’intervista al medico Agostino Di Ciaula di ISDE è
visionabile al link:
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From: Posta
Resistenze posta@resistenze.org
To:
Sent: Thursday, December 17,
2015 1:15 AM
Subject: COP 21: NESSUNA AZIONE A FAVORE DEL CLIMA
In concomitanza con gli incontri regolari tra i rappresentanti delle multinazionali per lo sfruttamento dei combustibili fossili e del settore finanziario, che fingono di affrontare il cambiamento climatico, e qualche gruppo delle loro vittime, attualmente COP21, Oxfam ha pubblicato un’analisi che sostiene che “la disuguaglianza” è una causa centrale della crisi climatica.
Di fronte al
valore in senso ampio di quest’affermazione, la replica tecnocratica
occidentale è che se emettono tutti circa la stessa quantità di anidride
carbonica, a risolvere la questione sarà un “democratico” suicidio di massa. Il
contingente “sviluppato” in COP21 fa di questa formulazione il principio
motivante: diffondere il consumismo occidentale nel mondo vista l’impossibilità
di un consumo “pulito”.
L’intuizione
di base del rapporto di Oxfam, che profila la catastrofe ambientale quale
prodotto del consumismo occidentale, colpisce quasi il bersaglio. La questione
della genesi del consumismo punta agli ampi sforzi di considerare l’acquisto
capitalista come fatto naturale, mentre l’atto medesimo di vendere crea una
contraddizione: perché consumare energia vendendo ciò che è naturale?
Prima del XIX
secolo la storia era colma di disuguaglianza nella ricchezza, cosa che però ha
contribuito molto poco in termini di emissioni di gas serra. La disuguaglianza
nella distribuzione economica è l’impianto del capitalismo. Il colpevole della
crisi ambientale è la disuguaglianza associata alla produzione economica
capitalistica.
Consapevolmente
o no, il rapporto fa rivivere un’analisi di classe marxiana globale applicata
alla distruzione dell’ambiente. Rinunciando alla pretesa “antropogenica”
universalistico-umanista che “tutti” siano responsabili del riscaldamento
globale, degli oceani morti e del cibo geneticamente modificato, Oxfam
identifica chiaramente il pezzo di umanità maggiormente responsabile, ossia le “nazioni”
ricche. Ciò che unisce queste “nazioni”, come se esistessero nazioni senza il
loro essere costituente e le loro istituzioni, sono le prassi economiche
direttamente riconducibili allo sviluppo economico capitalistico. La “ricchezza”
in questione è chiaramente la ricchezza capitalistica misurata in palazzi e
conti bancari, non in acqua pulita, aria pulita e in numero di relazioni
sociali intrecciate strettamente dalle persone.
In questo
quadro, la produzione economica che causa il riscaldamento globale è entropica
senza che sia considerata tale: le “merci” occidentali sono inesorabilmente
legate ai mali occidentali e non occidentali quali la distruzione ambientale e
sociale. Se le merci potessero essere prodotte senza i mali, dove sarebbero le
prove? Qui entra in campo la storia delle COP (Conferenza delle Parti): 21
conferenze e confronti con le emissioni di gas serra che continuano a crescere
dopo ogni singolo incontro. Anche la cornice del “cambiamento climatico” è
progettata per sottovalutare l’ampiezza della devastazione ambientale: quale
teoria dell’isolamento ambientale suggerisce che gli oceani morti e morenti e
la continua perdita di ecosistemi interconnessi siano meno pressanti rispetto
al riscaldamento globale?
Oxfam
scatena le dinamiche di classe sia all’interno che tra i vari paesi. Gli
interessi nazionali nell’ambito delle COP sono arbitrari e fuorvianti in quanto
il capitalismo e la produzione capitalistica di Stato è transnazionale.
Dalla fine
degli anni 1980, la produzione sporca occidentale è stata spostata prima nelle maquiladoras in Messico, poi nel
neo/post-coloniale Oriente e nel Sud globale. Come la vulgata dominante indica
nella “tecnologia” la causa della riduzione dei salari nell’Occidente
sviluppato, così la produzione “pulita” viene propagandata per spiegare il
declino delle emissioni di gas serra delle nazioni sviluppate, mentre in realtà
i flussi commerciali attestano lo spostamento della produzione sporca dagli
Stati Uniti e dall’Europa alla Cina, all’origine di qualsiasi calo effettivo.
Legando la distruzione ambientale alla ricchezza, e con essa le divisioni di
classe intra e internazionali, il riflettore viene puntato dove dovrebbe: sui
beneficiari delle calamità ambientali.
Aggiunge
complessità al ruolo della politica economica in questo processo, la creazione
di denaro quasi-privato del sistema bancario capitalista, che usa la “ricchezza”
intercambiabile come leva del controllo sociale sui mezzi di produzione
economica occidentali. In questo caso, l’entropia economica fornisce una scala
utile data la natura contestuale della catastrofe ambientale: è la scala della
produzione capitalistica che si è aggregata al riscaldamento globale. Lo
scarico “efficiente” delle conseguenze indesiderate di questa produzione
produce profitti. La finanza facilita la mobilità e con essa la capacità di
scaricare le scorie della produzione capitalistica su quelli meno in grado di
resistere. Con riferimento alle inferenze malthusiane sull’entropia economica,
la storia delle emissioni di gas serra seguono lo sviluppo capitalistico troppo
da vicino per essere considerate accidentali.
Lo scopo
della conferenza COP21, in quanto riferita agli interessi delle nazioni “sviluppate”,
è quello di fornire la parvenza di azioni per il clima, senza fatti. Speranze
puntate su “leader” che rappresentano gli interessi economici alla base del
loro potere e della loro posizione, sono fuori luogo.
Correlato e
analogo è il trattamento da parte dei “leader” occidentali dei finanzieri che
così recentemente hanno schiantato l’economia globale attraverso il self-dealing [benefici monetari
facilmente trasferibili, cioè originati dal trasferimento di risorse economiche
dell’azienda].
Questo self-dealing “locale” che è la
quotidianità del capitalismo a livello globale, diventa catastrofica attraverso
l’aggregazione dei “non voluto” individuali che portano alle crisi ricorrenti.
La relazione tra azioni individuali e istituzionali alla crisi sistemica è
socialmente gravosa quando applicata agli affari, ma potenzialmente
catastrofica se applicata all’ambiente.
La
disuguaglianza in materia di cambiamenti climatici si trova con uno
sproporzionato potere sociale grazie a strumenti di coercizione politica e al
loro legame storico con la produzione capitalistica.
I rapporti
Stato-mercato del primo capitalismo britannico sono stati un modello
approssimativo per lo sviluppo economico cinese, con la produzione per l’esportazione,
distruttiva per l’ambiente, a tenere “su” la catena dell’approvvigionamento
globale. Il governo cinese sta cercando attivamente di aumentare i consumi
interni, con la premessa che una economia di consumo autosufficiente fornirà
stabilità politica. Questo insieme dinamico in movimento è la proverbiale “gara-al-ribasso”,
dove le esigenze di breve termine hanno continuamente la precedenza sullo
sviluppo eco-sostenibile. Qualunque siano gli impegni ambientali, le minacce e
le crisi ricorrenti li terranno perennemente nel cassetto.
Il
passato-presente-futuro dell’ideologia capitalista si muove senza soluzione di
continuità da un passato rozzo e distruttivo per l’ambiente a un “migliorato”
seppur imperfetto presente, verso un futuro scintillante e prospero. Un futuro
che non arriva mai. La produzione sporca non è mai stata lasciata alle spalle e
il capitalismo di mercato “emergente” servirà come luogo della distruzione
ambientale in “outsourcing” per
tutto il tempo che i popoli lo sopporteranno. Gli impegni ambientali non sono
che una crisi del capitalismo guardata alla rovescia per via di una
disperazione indotta. L’attenta analisi di queste crisi, viste come incidenti
estranei ai normali meccanismi del capitalismo, fornisce una copertura alle
macchinazioni imperialiste, facendole passare come fatti naturali. Nelle crisi
il discorso politico si sposta su compromessi egoistici mentre gli economisti
si sforzano di trovare il modo migliore per ripulire i guai inspiegabili che la
natura ha compiuto.
Recenti
accordi “commerciali” come il TPP (Partenariato transpacifico) e il TTIP
(Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti) rappresentano
i tentativi di vincolare le istituzioni statali al sostegno dell’impresa “privata”,
mentre restano precluse azioni statali nel pubblico interesse che ledano il “potere
economico privato”. Attraverso i tribunali dell’ISDS (Investor-State Dispute
Settlement, vale a dire la “regolamentazione delle controversie tra Stato e
investitore”) le corporation quantificano l’entropia della produzione
capitalistica come loro risarcimento per danni non causati. La strategia del “pagherete
o vi bruceremo la casa” è sepolta, è una mitologia sociale e teoria economica
poco considerata. Tuttavia, l’estorsione resta estorsione, indipendentemente
dalla complessità degli accordi istituzionali che l’accompagnano.
La mitologia
dello sviluppo capitalistico mette a confronto regioni come l’Appalachia,
distrutta dalle miniere di carbone nel XVIII secolo, al capitalismo “pulito”
degli “hedge fund” quando il
confronto più rilevante è quello con regioni della Cina, dell’Africa e delle
Filippine distrutte nel presente per produrre le merci da esportare negli Stati
Uniti e in Europa. La concezione capitalistica delle conseguenze della
produzione economica è più precisamente la contabilità del giocatore d’azzardo,
dove solo i crediti vengono segnati. Aria respirabile, acqua potabile e terre
coltivabili sono considerati alla stregua di servizi igienici industriali, la
componente “gratuita” utilizzata per dare ai prodotti un valore economico. Il “paradosso”
di questi beni di prima necessità senza valore opposti al valore dei beni non
di prima necessità è una conseguenza imperiale imposta come teoria di vita:
sono “gratuiti” solo una volta che le persone che dipendono da loro per la loro
esistenza sono state rimosse dalla considerazione.
Il
differenziale di potere al lavoro, “la disuguaglianza”, contrappone il mito
occidentale che “noi tutti” beneficiamo della produzione capitalistica contro
il fatto che i ricchi possono, mentre la povera gente no. Anche se le
conseguenze della distruzione ambientale fossero equamente distribuite,
rappresenterebbero ancora una questione economica, perché la loro sorgente è la
produzione della “ricchezza” occidentale. Che tali conseguenze cadano in
maniera sproporzionata sui popoli che vedono poco o niente del beneficio di
tale produzione, definisce una chiara dinamica di classe. Le soluzioni
occidentali uniscono giochi delle tre carte come la delocalizzazione della
produzione sporca con le promesse perpetue che in futuro saranno intraprese
azioni concrete. Le uniche certezze sono che i capitalisti e i loro apologeti
sono in procinto di rendere il pianeta inabitabile e le eventuali soluzioni
reali si trovano a dispetto degli incontri “ufficiali” e non per loro merito.
Rob Urie
Artista ed economista politico.
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From: Posta
Resistenze posta@resistenze.org
To:
Sent: Thursday, December 17,
2015 1:15 AM
Subject: COP21: METE E GEOINGEGNERIA
Uno dei temi più importanti della riunione globale della Convenzione delle Nazioni Unite sul cambio climatico che è terminata a Parigi il 12 dicembre (COP21) è stato la definizione di una nuova meta del riscaldamento globale che non si potrebbe oltrepassare. Paesi insulari e altri del Terzo Mondo da anni affermano di non poter sopravvivere a un riscaldamento globale superiore ad 1,5 gradi centigradi, visto che il loro territorio sparirebbe per l’aumento del livello del mare e per altri disastri. Ragioni più che attendibili, che si aggiungono al fatto che quei paesi non sono responsabili di aver causato il cambio climatico.
La
temperatura media globale è aumentata di 0,85 gradi centigradi
nell’ultimo secolo, la maggior parte dei quali durante gli ultimi 40 anni, a
causa delle emissioni di gas serra di diossido di carbonio (CO2) e di altri gas
causati dall’uso di combustibili fossili (petrolio, gas, carbone), in maggior
parte per la produzione di energia, per il sistema agro-industriale, le
urbanizzazioni e i trasporti. Se continua il corso attuale, la temperatura aumenterà
fino a 6 gradi
centigradi a fine secolo XXI, con impatti tanto catastrofici
che non è possibile prevederli.
Nel processo
verso la COP21 e
fino al suo inizio, la bozza di base del negoziato prevedeva di fissare una
meta di aumento globale del CO2 fino all’anno 2100, cifra che in ogni modo
veniva combattuta dai paesi emissori principali.
Sorprendentemente
alcuni paesi del Nord, che sono i principali colpevoli del caos climatico (tra
cui Stati Uniti e Canada, così come l’Unione Europea) hanno annunciato durante la COP21 che avrebbero appoggiato
una meta globale di massimi 1,5 gradi centigradi.
Secondo stime scientifiche, questo implicherebbe ridurre le loro emissioni di
più dell’80% antro il 2030, cosa che i governi dei paesi del Nord si rifiutano
decisamente di fare.
Perchè ora
dicono di accettare una meta di 1,5 gradi centigradi?
Com’era
prevedibile, le loro ragioni non sono pulite e nascondono scenari che
aggraveranno il caos climatico: si tratta di legittimare l’appoggio e i sussidi
pubblici a tecnologie di geoingegneria e altre ad alto rischio, come il
nucleare, come l’aumento del mercato del carbone e altre false soluzioni.
Qualunque
sia la meta fissata nel cosiddetto Accordo di Parigi, questa non avrà costi per
coloro che continueranno a contaminare. La Convenzione ha
accettato, da prima della COP21, che i piani di riduzione dei gas non siano
vincolanti. Si tratta di contributi previsti e determinati a livello nazionale,
per i quali ogni paese dichiara le intenzioni, non accordi obbligatori. La
somma dei contributi che ogni paese ha dichiarato fino ad ottobre 2015 porta già
ad un aumento della temperatura da 3
a 3,5 gradi centigradi entro l’anno 2100. E
questo non è neppure quello che faranno realmente (che può essere molto peggio),
ma solo quello che dichiarano. Quindi, per quanto la meta fissata sia bassa, i
piani reali sono chiaramente visibili e la catastrofe continua la sua marcia.
Partecipare
a parole ad una meta apparentemente bassa non cambia i piani presentati, ma dà
a quei governi argomenti per affermare che si devono appoggiare tecniche di
geoingegneria, come l’immagazzinamento e la captazione del carbonio (CCS la
sigla in inglese), tecnica che proviene dall’industria petrolifera e che essi
presentano come capace di assorbire il CO2 dall’atmosfera ed iniettarlo a
pressione a grande profondità nei fondali geologici terrestri o marini dove,
secondo quanto afferma l’industria del petrolio, rimarrebbe per sempre.
Questa
tecnologia era già nota sotto il nome di “recupero migliorato di petrolio” o,
in inglese, Enhanced Oil Recovery.
Serviva ad aumentare le riserve profonde di petrolio, ma non è stata sviluppata
perchè non era fattibile né economicamente né tecnicamente. Ribattezzata CCS
(captazione del carbonio), ora viene rivenduta come soluzione al cambio
climatico.
Così i
governi dovranno sovvenzionare le installazioni (per realizzare le mete della
Convenzione), le imprese potranno estrarre e bruciare ancor più petrolio e
oltretutto guadagnare crediti sul carbonio con l’apparente scopo di “catturare”
e immagazzinare gas ad effetto serra.
Il CCS in
realtà non funziona; ci sono solo tre basi operative nel mondo fortemente
sostenute da fondi pubblici, oltre ad alcune altre progettate e altre chiuse
per perdite del gas o rotture.
Ciò
nonostante, i governi e le industrie che lo promuovono assicurano che potranno
compensare con queste tecniche l’aumento delle emissioni, per arrivare ad
emissioni nette zero: non per ridurre emissioni, ma per compensarle con CCS,
cosicché la somma sarebbe zero.
Assicurano
anche che, se a questo si aggiunge lo sviluppo della bioenergia su grande scala,
con immense monocoltivazioni di alberi e piante per produrre bioenergia e il
sotterramento del carbonio prodotto (chiamato BECCS, bioenergia con CCS), le
emissioni saranno negative, con il che potrebbero anche vendere la differenza
ad altri.
Un affare molto
lucroso perchè coloro che hanno provocato il cambio climatico continuino a
emettere gas, con maggiori sussidi pubblici.
David Hone
della Shell dichiara apertamente sul suo blog alla COP21 la necessità di
raggiungere una meta di 1,5 gradi centigradi per appoggiare lo sviluppo
di CCS, CECCS e di altre tecniche di geoingegneria (http://tinyurl.com/nkaqbcv).
Visto che
queste tecnologie non funzioneranno ma causeranno un aumento del cambio climatico,
tra pochi anni ci proporranno altre tecnologie di bioingegneria ancor più
rischiose, come la gestione della radiazione solare. Dobbiamo, fin da ora, smantellare
il loro discorso. Non si tratta di ridurre, non si tratta di mete basse, non si
tratta di affrontare il cambio climatico.
Non sono false soluzioni. Sono menzogne.
Non sono false soluzioni. Sono menzogne.
Silvia Ribeiro
“Investigadora” del grupo ETC La Jornada
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From: Posta
Resistenze posta@resistenze.org
To:
Sent:
Thursday, December 17, 2015 1:15 AM
Subject: SETTIMANA DI 30 ORE IN SVEZIA: UNA PRIMA
VALUTAZIONE MOLTO PROMETTENTE
Combinare
senza stress, lavoro, vita di famiglia, impegno sociale e tempo libero, è
possibile. Lavorando 30 ore alla settimana, come mostra un progetto pilota
svedese.
Tutto è
cominciato non più di sei mesi fa, quando il personale infermieristico della
casa di riposo e di cura Svartedalen a Göteborg è passato alla
settimana di 30 ore. Dal febbraio scorso, infermieri e operatori sanitari
lavorano 6 ore al giorno e 30 ore alla settimana. La casa di cura contava 64
infermieri a tempo pieno e 16 part time. Ora, tutti sono passati alle 30
ore settimanali.
Questo
progetto pilota è stato avviato al fine di poter osservare gli effetti di una
vera e propria diminuzione dell’orario di lavoro sulla salute e sulla qualità
della vita del personale e anche sulla qualità del lavoro e il benessere dei
residenti.
Il progetto
è stato elaborato in modo scientifico ed inquadrato come tale. Un gruppo
multidisciplinare di specialisti, rappresentanti di datori di lavoro, di
sindacati e di membri del personale, segue minuziosamente l’esperienza.
Contemporaneamente
a Svartedalen, il gruppo di ricercatori osserva un gruppo professionale simile
nella casa di riposo e di cura “Solängen”, dove nulla è stato modificato, per
stabilire un raffronto pertinente. Un primo rapporto di valutazione è appena
stato pubblicato su quest’esperienza innovativa. E i risultati sono
sorprendenti.
A settembre
di quest’anno, Janneke Ronse e altri due collaboratori di “Médecine pour le
peuple” hanno visitato Svartedalen.
“Molti
infermieri erano spesso e/o a lungo malati a causa del sovraccarico di
lavoro, spiegava Monica Sörenssen, uno dei responsabili dell’istituzione. Tra
noi, si diceva spesso che avremmo dovuto pianificare un po’ più di sport o di
relax. Ma molti non avevano il tempo o l’energia. Quando si ritorna dopo 8 ore
di lavoro, spesso si è stanchi da non renderlo possibile. Possiamo solo
addormentarci sul divano”.
In sei mesi
la situazione è cambiata, con grande sorpresa dei ricercatori. Il numero
delle assenze per malattia fra i lavoratori a tempo pieno si è abbassato
da 6,4 a 5,3 %.
Quest’effetto
è inesistente nell’altra casa di riposo e di cura: a Solängen, la cifra è
rimasta stabile. Il calo è ancora più evidente se si guarda il numero di
assenze per malattia di oltre 15 giorni. A Svartedalen questa cifra è diminuita
da 3,23 a 2,68 %. Nell’altra istituzione di cura, il numero delle assenze
per malattia a lungo termine, è aumentato.
L’introduzione
della settimana di 30 ore ha permesso a tutti gli infermieri part-time di
lavorare nella nuova formula a tempo pieno. Oltre a ciò, Svartedalen ha assunto
14 infermieri a tempo pieno.
Il rapporto
mostra che la settimana di 30 ore permette una migliore continuità, più
regolarità e meno stress sul lavoro.
“Prima, c’erano
sei infermieri per 8 ricoverati. Ora sono otto infermieri, ogni ricoverato ha
il suo infermiere fisso e ciò migliora la qualità delle cure. Si possono
infatti stabilire molte più routine, punti di riferimento, cosa che è
importante per gli anziani e ancora più per le persone affette da demenza
senile” sottolineava già Monica Sörensson nel giugno scorso.
In sei mesi,
la direzione ha pagato 5.750 euro in meno di straordinari, mentre quest’importo
è aumentato a Solängen. La stabilità negli orari di lavoro ha permesso la
diminuzione di un terzo del numero degli interinali a Svartedalen, mentre
è aumentato di un terzo a Solängen.
Prima dell’inizio
del progetto pilota, il personale ha risposto a un questionario
dettagliato sulla sua salute. Due terzi del personale addetto alle cure ha
dichiarato di soffrire di sintomi da stress, problemi di stomaco, insonnia, mal
di testa...
Tra gli
operatori sanitari part-time questa percentuale era più bassa, cioè il 55%. Il
59% del personale addetto alle cure a tempo pieno ha anche dichiarato di aver
avuto problemi fisici. Tra i part time la percentuale era del 51%. Tutte queste
cifre si sono abbassate in seguito all’introduzione della giornata
lavorativa di 6 ore.
Nel
complesso il personale registra oggi un miglioramento della qualità della vita,
ma anche più possibilità di prendersi cura di sé. La settimana di 30 ore libera
infatti molto più tempo. Per fare sport, essere in migliore forma fisica e
sentirsi più felici. O per passare più tempo di qualità con famiglia. Il
personale ha più tempo per respirare. Non devono più “recuperare” quando
arrivano a casa.
Il comune di
Göteborg ha deciso di prolungare l’esperienza almeno fino alla fine del 2016.
L’esempio di
Göteborg ispira. Numerose proposte nel mondo associativo e sindacale del paese
hanno recentemente rimesso all’onore del dibattito la riduzione collettiva dell’orario
di lavoro.
Il personale
di Femma, associazione di donne nelle Fiandre, proverà nel 2016 questa nuova
organizzazione del lavoro.
E le cose
iniziano a muoversi anche da parte del mondo politico. Il ministro regionale di
Bruxelles Didier Gosuin, ha appena annunciato che vorrebbe provare la settimana
di 4 giorni (32 ore) a Bruxelles-Propreté.
Ciò permetterebbe
la creazione di 500 posti di lavoro. Speriamo che non si tratti soltanto di un
annuncio a effetto. In ogni caso, la dinamica del dibattito sulla riduzione
collettiva dell’orario di lavoro sembra ben rilanciata. Si vedrà.
Benjamin Pestieau, Maartje De Vries
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To:
Sent: Friday,
December 25, 2015 8:16 PM
Subject: LA CRISI UCCIDE COME IN UNA “NUOVA GUERRA”
MORTALITA’,
IMPENNATA MISTERIOSA NEL 2015: “QUEI 45MILA SCOMPARSI COME IN UNA GUERRA”
L’ISTAT:
DECESSI AUMENTATI DELL’11%, AI LIVELLI DEGLI ANNI QUARANTA. E GLI ESPERTI SI
INTERROGANO: CI AMMALIAMO DI PIÙ O CI CURIAMO PEGGIO?
Come durante
la guerra, ma senza la guerra. Come se vivessimo sotto i bombardamenti. Uno
studio interroga e preoccupa esperti in mezza Italia: nel 2015 il numero di
morti nel nostro Paese è salito dell’11,3%. In un anno significherebbe 67.000
decessi in più rispetto al 2014 (ad agosto sono già 45.000), per un incremento
che davvero non si vedeva da decenni.
I dati del
bilancio demografico mensile dell’ISTAT raccontano qualcosa di abnorme, che già
impegna i demografi e presto, quando saranno note le fasce di età e le cause,
darà molto da lavorare anche agli esperti della sanità. Le schede appena
pubblicate sul sito dell’Istituto di statistica arrivano fino all’agosto scorso
e dicono che nei primi otto mesi sono stati registrati 445.000 decessi, contro
i 399.000 nello stesso periodo dell’anno precedente. Si è passati cioè da una
media di meno di 50.000 al mese a una di oltre 55.000.
“Il numero è
impressionante. Ma ciò che lo rende del tutto anomalo è il fatto che per
trovare un’analoga impennata della mortalità, con ordini di grandezza
comparabili, si deve tornare indietro sino al 1943 e, prima ancora, occorre
risalire agli anni tra il 1915 e il 1918” - scrive sul sito di demografia Neodemos
il professor Gian Carlo Blangiardo.
“Certo, si
tratta di dati provvisori, ma negli anni scorsi l’ISTAT ha sempre confermato
alla fine dell’anno i numeri pubblicati mensilmente. Magari ci saranno
correzioni, ma nell’ordine di alcune centinaia di casi. L’unità di grandezza
che ci aspetta è quella” - chiarisce il docente.
Nel 2013 e
nel 2014, tra l’altro, il numero dei morti era calato, ma sempre di poco: mai
si erano raggiunte percentuali in doppia cifra.
Che cosa sta
succedendo? Non è ancora chiaro. Anche AGENAS, l’Agenzia Sanitaria delle
Regioni, ha deciso di avviare un approfondimento. “Stiamo lavorando per dare
una spiegazione a questo fenomeno” - dice il direttore Francesco Bevere.
I
ricercatori raccolgono i dati dei decessi negli ospedali, perché in quel modo è
più semplice risalire alle cause. Sono già state contattate alcune Regioni, tra
le quali l’Emilia Romagna e la
Lombardia, che avrebbero confermato tassi di crescita dei
decessi in corsia in linea con quelli registrati dall’ISTAT sulla popolazione
generale.
Per ora si
può lavorare solo sui numeri mensili, ma anche quelli possono essere comunque
utili. Intanto, gli incrementi maggiori si sono avuti a gennaio, febbraio e
marzo (+6.000, +10.000 e +7.000 morti rispetto all’anno precedente). Si tratta
dei mesi più freddi, quelli in cui colpisce l’influenza. Come noto, l’anno
scorso la vaccinazione è calata molto a causa di un allarme, poi rivelatosi
falso, riguardo ai vaccini.
Difficile
però che la malattia stagionale da sola abbia prodotto effetti di quelle
dimensioni. La conta dell’Istituto Superiore di Sanità si è fermata a quota 8.000
morti provocati dal problema con la vaccinazione. E la crescita dei decessi non
si giustifica neanche con l’invecchiamento della popolazione, che secondo
Blangiardo può essere responsabile di un incremento di circa 15.000 morti l’anno.
Un altro mese che ha segnato una differenza importante (circa 10.000 casi) è
luglio. Ma il caldo quest’anno non è stato particolarmente pesante.
Insomma, il
giallo delle morti in Italia non è risolto. E sullo sfondo c’è un timore,
sollevato sempre su Neodemos. Che la crisi economica e i tagli al Welfare c’entrino
qualcosa. Ci vorranno mesi di studio per capire se davvero tra le cause della “nuova
guerra” ci sono anche queste.
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From: Riccardo
Antonini erreemmea@libero.it
To:
Sent:
Friday, December 25, 2015 8:43 AM
Subject: INCENDIO
IN FERROVIA
Ponte a Elsa,
Comune di Empoli (Fi).
Martedì 22
dicembre, sulla linea Empoli-Firenze, un treno regionale ha preso fuoco. Per
buona sorte, come fortunatamente è avvenuto numerose altre volte, non vi è
stata alcuna conseguenza per gli oltre 100 passeggeri pendolari del treno
regionale.
A causa dell’incendio,
alcuni treni sono stati soppressi, altri hanno subito forti ritardi.
Immediata la
reazione del Comitato Pendolari Valdelsa: “E’ il terzo episodio che accade
sulla nostra tratta. La verità è che viaggiamo su mezzi molto vecchi...”.
Ogni
commento è superfluo.
La realtà è
che la politica di abbandono della sicurezza del trasporto ferroviario supera
la più nera immaginazione.
Ovviamente,
la notizia è stata relegata, anche da parte della stampa regionale, a pagina...esima.
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