domenica 23 marzo 2014

23 marzo: Verso la costruzione di una manifestazione nazionale a Prato, un promemoria per rinfrescare la memoria..



sette operai bruciati vivi a Prato.
Il giorno dopo nessuno sapeva, e invece tutti sapevano.
Persino il Comune di Prato. Che chiedeva la tassa rifiuti sui loculi di cartongesso abitati dagli operai del tessile. «È emerso che i tecnici della municipalizzata Asm rilevavano ai fini del conteggio la presenza di una zona soppalcata adibita a dormitorio, addirittura quantificandone i metri quadri…». Non era un segreto. Non erano fantasmi. C’era il soppalco. C’erano le brande. Gli operai lavoravano chiusi all’interno del capannone fino a 17 ore al giorno. Guadagnavano due euro l’ora. Dormivano e mangiavano lì, fra i tessuti accatastati per la produzione, al Macrolotto. Dove la notte del 1° dicembre scorso, un incendio innescato da una stufetta difettosa li ha uccisi. Si chiamavano Dong Wenqiu, Su Qifu, Wang Chuntao, Xue Kaiqing, Yaochengjing, Lin Zheng, Xiuping. Tre mesi dopo, molte cose si capiscono meglio.  L’inchiesta della squadra mobile di Prato, coordinata dal procuratore capo Pietro Tony e dal sostituto Lorenzo Gestri, mette a fuoco un quadro impressionante. Al punto che il gip arriva a scrivere: «Le violazioni accertate nel capannone di via Toscana sono così gravi e numerose che non vi è da chiedersi quali norme siano state violate, piuttosto quante ne siano state rispettate». Ieri mattina sono state eseguite cinque misure di custodia cautelare. I tre gestori cinesi di Teresa Moda – Lin Youli, Lin You Lan e Xu Xiaoping – sono stati portati in carcere. Mentre i fratelli Massimo e Giacomo Pellegrini, proprietari del capannone, titolari della società immobiliare Mgf, sono agli arresti domiciliari. Secondo il giudice, sussisteva pericolo di fuga e inquinamento delle prove. Tutti sono accusati di omicidio colposo plurimo. Perché tutti, secondo il gip, sapevano. Gli abusi edilizi all’interno del capannone risalgono al 2008. La situazione è rimasta inalterata negli anni, anche dopo diversi passaggi di gestione. Perché spesso a Prato si fa così: gli affitti vengono interrotti, per essere intestati a un prestanome sempre diverso, in modo da rendere complicatissimo rintracciare i veri titolari. Per sfuggire ai controlli dell’Agenzia delle Entrate. I loculi di cartongesso sono la regola, non l’eccezione. Altri due capannoni dei fratelli Pellegrini erano già stati sequestrati per abusi edilizi. Scrive il gip: «Occorre sollevare il velo di forma gettato sulla vicenda per costatare che sia conoscenza comune, per chiunque viva a Prato, che è prassi per gli imprenditori cinesi far alloggiare i loro dipendenti nei capannoni…». E poi c’è la relazione del signor Federico Baldesi, titolare di uno studio di progettazione di impianti elettrici. Il 7 aprile 2010 va a fare un sopralluogo nel capannone di via Toscana: «Situazione gravosa sia dal punto di vista del rischio incendio, sia dal punto di vista della sicurezza. Gli idranti sono fuori servizio, gli impianti elettrici non presentano i minimi requisiti di sicurezza». In un appunto di lavoro, ora agli atti, addirittura scrive così: «Capannone DISASTROSO. NB SCHIAVI». La storia era nota. Come adesso, è nota la fine. Eccola, nella voce dell’imprenditrice Lin You Lan, detta Monica, intercettata due giorni dopo la tragedia: «Guarda, tutti si sono svegliati insieme e volevano fuggire per la paura, ma il fumo era grosso e non si vedeva l’uscita. Xiaoping ha aperto la porta ed è riuscito a scappare. Urlava di fare in fretta, ma è svenuto. Quelli di sopra invece dovevano scendere le scale, non sapevano dove andare. Kai Quin si è buttato fuori dalla finestra, ed era perfetto, vestito con i bottoni… Mentre quel Wenquiu ha sbagliato tutto, perché è andato verso le scale…». La stessa Lin You Lan ha passato gli ultimi 30 giorni in Cina, dove ha risarcito con 110 mila euro ogni famiglia delle vittime. In cambio del risarcimento, è stato chiesto di non collaborare con la polizia italiana. «Quest’indagine ha scoperchiato un vaso di Pandora – dice il capo della squadra mobile Francesco Nannucci – dopo tante chiacchiere, siamo ai fatti. Italiani e cinesi fanno parte dello stesso sistema, serve ad entrambi. Io credo che domani in molti andranno a smontare i loculi dai capannoni…». L’unico operaio superstite si chiama Changzhong Chen. Ha firmato il suo primo verbale ancora ricoverato all’ospedale, con il corpo martoriato dalle ustioni: «Ero addetto alla stiratura. Lavoravo tutti i giorni fino a tarda sera, per non meno di 13 ore al giorno. Dormivo e mangiavo nel capannone, ho sempre fatto così».

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