SICUREZZA SUL
LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!
NEWSLETTER N. 225
DEL 14/09/15
NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
I
PARERI DELLA COMMISSIONE DEGLI INTERPELLI - N.2
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1
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L’INFORTUNIO IN ITINERE
QUESTO SCONOSCIUTO
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5
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IL
DIRITTO DEL LAVORATORE ALLE FERIE
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7
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SULLA
NON RESPONSABILITA’ DEL LAVORATORE PER LA RIMOZIONE DEL
PARAPETTO
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9
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I
QUESITI SUL DECRETO 81/08: SULLA SICUREZZA DEGLI STAGISTI
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11
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LA COLPA NEGLI INFORTUNI SUL LAVORO: LA CONDOTTA ABNORME
DEL LAVORATORE
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13
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PATENTINO
TRATTORI: CHI E QUANDO DEVE CONSEGUIRE L’ABILITAZIONE?
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16
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I PARERI DELLA
COMMISSIONE INTERPELLI - N.2
L’articolo
12 del D.Lgs.81/08 (Testo Unico sulla sicurezza) ha previsto la costituzione
della Commissione degli Interpelli, composta da rappresentanti del Ministero
del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero della salute, della
Conferenza delle Regioni e delle Provincie autonome con lo scopo di rispondere
a “quesiti di ordine generale sull’applicazione
della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro” posti da Organismi
associativi, Enti pubblici, Organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei
lavoratori, Consigli nazionali degli ordini.
La Commissione degli
Interpelli è stata effettivamente costituita con decreto del Ministero del lavoro
e delle politiche sociali con Decreto del 28 settembre 2011.
Secondo il comma 3 dell’articolo 12 del D.Lgs.81/08 “Le indicazioni fornite
nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1
[quelli posti alla Commissione] costituiscono
criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza”.
Riporto
pertanto in una nuova rubrica della mia newsletter tali pareri con il link per
scaricare il testo completo del quesito e del parere della Commissione.
Marco
Spezia
VALUTAZIONE DEL RISCHIO
STRESS LAVORO-CORRELATO
Interpello in materia di
sicurezza n.5 del 22 novembre 2012
RICHIEDENTE
Consiglio Nazionale Ordine
degli Psicologi
QUESITO
Il quesito è relativo alla
possibilità che il datore di lavoro, prima di intraprendere gli interventi
correttivi finalizzati alla riduzione o eliminazione del rischio stress lavoro
correlato qualora nella specifica valutazione del rischio, a seguito dell’esito
della cosiddetta “valutazione preliminare”, emerga un grado di rischio tale da
richiedere un intervento correttivo, ma non sia possibile determinare con
ragionevole certezza quali misure possano essere adeguate, possa effettuare
legittimamente ulteriori indagini, utilizzando anche alcuni strumenti citati
per la cosiddetta “valutazione approfondita” al fine di raccogliere
informazioni sulla “percezione soggettiva” dei lavoratori.
CHIARIMENTO
Al riguardo del quesito va premesso che l’articolo 28, comma 1,
del D.Lgs.81/08 prevede che la valutazione dei rischi debba riguardare tutti i
rischi da lavoro, “ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi
particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato”.
Il successivo comma 1-bis dell’articolo in commento dispone, di
seguito, che la relativa valutazione del rischio da stress lavoro-correlato è
effettuata nel rispetto delle indicazioni fornite dalla Commissione Consultiva
di cui all’articolo 6 del D.Lgs.81/08, approvate da tale organismo in data 17
novembre 2010.
Le indicazioni in ultimo citate prevedono che la valutazione del
rischio da stress lavoro-correlato si svolga essenzialmente in due fasi, una
necessaria (la cosiddetta valutazione preliminare) e una eventuale, la quale
debba essere realizzata unicamente “nel caso in cui la
valutazione preliminare riveli elementi di rischio da stress lavoro-correlato e
le misure di correzione adottate a seguito delta stessa si rivelino inefficaci”.
Più nel dettaglio, proseguono le indicazioni, “ove
dalla valutazione preliminare non emergano elementi di rischio da stress
lavoro-correlato tali da richiedere il ricorso ad azioni correttive, il datore
di lavoro sarà unicamente tenuto a darne conto nel Documento di Valutazione dei
Rischio (DVR) e a prevedere un piano di monitoraggio. Diversamente, nel caso in
cui si rilevino elementi di rischio da stress lavoro-correlato tali da
richiedere il ricorso ad azioni correttive, si procede alla pianificazione e
alla adozione degli opportune interventi correttivi (ad esempio, interventi
organizzativi,
tecnici, procedurali, comunicativi, formativi,
ecc.). Ove gli interventi correttivi risultino inefficaci, si procede, nei
tempi che la stessa impresa definisce nella pianificazione degli interventi,
alla fase di valutazione successiva (cosiddetta valutazione approfondita)”.
La Commissione
consultiva richiede al datore di lavoro che abbia riscontrato in azienda
criticità legate allo stress lavoro-correlato, in sede di verifica preliminare,
di pianificare e realizzare azioni correttive, il cui elenco è indicato in via
esemplificativa e non tassativa.
Dunque, l’obbligo del
datore di lavoro, in simili casi, è quello di adottare misure di correzione,
allo scopo di eliminare o, se ciò è impossibile, ridurre al minimo il rischio
da stress lavoro-correlato, mentre non è fatto obbligo al datore di lavoro
utilizzare strumenti propri della valutazione cosiddetta “approfondita” al fine
di meglio identificare le misure di correzione.
Al riguardo, è opinione di
questa Commissione che, nondimeno, il datore di lavoro che decida in tal senso
potrà, sulla base di una sua libera scelta, utilizzare anche nella fase “preliminare”
della valutazione del rischio da stress lavoro-correlato strumenti usualmente
riservati (si pensi, ad esempio, a un questionario) alla valutazione “approfondita”,
al fine di individuare con maggiore precisione gli interventi da adottare in
concreto.
Va sottolineato che tale
approfondimento non potrà mai essere svincolato dalla adozione di misure di
correzione ma dovrà “accompagnare” tale adozione, almeno in termini di misure
minime (si pensi, a solo titolo di esempio, a una attività di informazione sul
tema nei riguardi di un gruppo di lavoratori risultati “a rischio”), e che il
datore di lavoro che decida di operare in tal senso dovrà avere cura di
identificare con puntualità (nella documentazione relativa al DVR) tempi e modi
della applicazione degli strumenti in parola, al fine di evitare che la scelta
sia fatta per procrastinare il momento nel quale adottare le misure di
correzione che le indicazioni impongono.
Il testo completo dell’Interpello
in materia di sicurezza n.5 del 22 novembre 2012 è scaricabile al link:
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI
FUMO PASSIVO NEI LUOGHI DI LAVORO
Interpello in materia di sicurezza
n.6 del 22 novembre 2012
RICHIEDENTE
Confindustria Servizi
Innovativi e Tecnologici, Federbingo, Associazione Concessionari del Bingo
QUESITO
Si richiede la possibilità
di ammettere la presenza di lavoratori nei locali destinati a fumatori, sempreché
siano rispettate le seguenti condizioni:
-
i locali devono essere
adeguati ai requisiti tecnici del D.P.C.M. del 23 dicembre 2003;
-
la presenza dei dipendenti
deve essere temporanea;
-
il datore di lavoro deve
rispettare gli obblighi imposti dal D.Lgs.81/08 in materia di tutela della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
CHIARIMENTO
Al riguardo va premesso che la questione
trova espressa disciplina nella Legge n.3 del 2003 che ha introdotto il divieto
di fumo nei locali chiusi. La suddetta normativa ha poi trovato la regolamentazione
specifica nella Circolare del Ministero della salute del 17 dicembre 2004 che
ha individuato le tipologia di locali chiusi, aperti a utenti o al pubblico ove
è fatta salva la possibilità di attrezzare sale fumatori nel rispetto dei
requisiti tecnici dettati dal D.P.C.M. del 23 dicembre 2003.
Come rimarcato dal Ministero della Salute
con la richiamata circolare, l’articolo 51 della Legge 3/03 persegue il fine
primario della “tutela della salute dei non fumatori, con l’obiettivo della massima
estensione possibile del divieto di fumare, che, come tale, deve essere
ritenuto di portata generate, con la sola, limitata esclusione delle eccezioni
espressamente previste”.
Il
divieto di fumo riguarda tutti i lavoratori in quanto “utenti” dei locali nell’ambito
dei quali prestano la loro attività. Il comma 3 del citato articolo 51,
tuttavia, afferma che negli esercizi di ristorazione i locali adibiti ai non
fumatori devono avere superficie prevalente rispetto alla superficie
complessiva di somministrazione. Se ne deduce che negli esercizi dove è
prevista la somministrazione di cibi o bevande non può non essere ammessa la
presenza di lavoratori addetti al servizio, anche nei locali riservati ai fumatori.
Si ritiene, pertanto, che
stante la normativa attualmente vigente, in tali locali, anche nelle sale per
fumatori, sia possibile la temporanea presenza dì lavoratori addetti a
specifiche mansioni.
Tuttavia, al fine della
tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, soggetti a svolgere la
propria attività nei locali riservati ai fumatori, ancorché adeguati ai
requisiti tecnici dettati dal D.P.C.M. del 23 dicembre 2003, il datore di
lavoro deve attenersi agli obblighi imposti dal D.Lgs.81/08, tra cui la
preliminare valutazione della presenza di agenti chimici pericolosi sul luogo
di lavoro e la valutazione dei rischi per la sicurezza dei lavoratori derivanti
dalla presenza di tali agenti.
Il testo completo dell’Interpello
in materia di sicurezza n.5 del 22 novembre 2012 è scaricabile al link:
VALUTAZIONE DEL RISCHIO E
UTILIZZO DELLE PROCEDURE STANDARDIZZATE
Interpello in materia di
sicurezza n.7 del 22 novembre 2012
RICHIEDENTE
Confederazione Nazionale
dell’Artigianato
QUESITO
Si richiede un parere in
merito alla possibilità che le aziende fino a 10 lavoratori possano preparare
il Documento di Valutazione dei Rischi (nel seguito DVR) applicando integralmente
l’articolo 28 del D.Lgs.81/08, senza, tuttavia, utilizzare le procedure
standardizzate di valutazione dei rischi, previste dall’articolo 29, comma 5,
del medesimo decreto.
CHIARIMENTO
A tale riguardo va evidenziato come l’articolo 17, comma 1, lettera
a), del D.Lgs.81/08 imponga al datore di lavoro l’obbligo (indelegabile) di
valutare tutti i rischi “con la conseguente elaborazione del
documento previsto dall’articolo 28”.
L’articolo 28 del Decreto identifica, al comma 2, lettera a), l’oggetto
della valutazione dei rischi nel dettaglio specificando, in particolare, che “La
scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro,
che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne
la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli
interventi aziendali e di prevenzione”.
L’articolo 29 del D.Lgs.81/08
individua, poi, le modalità di effettuazione della valutazione del rischio
prevedendo, al comma 5, che: “I datori di lavoro che
occupano fino a 10 lavoratori effettuano la valutazione dei rischi (...) sulla
base delle procedure standardizzate di cui all’articolo 6, comma 8, lettera f”.
Tali procedure standardizzate,
una volta pubblicato il Decreto di cui all’articolo 6, comma 8, lettera f), del
D.Lgs.81/08 [Decreto effettivamente pubblicato dai Ministeri del lavoro e delle
politiche sociali, della salute e dell’interno in data 30 novembre 2012], verranno
utilizzate innanzitutto dalle aziende fino a 10 lavoratori, vale a dire da
quelle aziende alle quali è oggi concesso di autocertificare la valutazione dei
rischi (articolo 29, comma 5, secondo periodo). Tale possibilità a stata
limitata dall’articolo in commento al 30 giugno 2012, termine prorogato dal Decreto
Legge 12 maggio 2012, n 57, convertito con Legge 12 luglio 2012, n. 101, ai tre
mesi successivi all’emanazione del citato Decreto interministeriale relativo
alle “procedure standardizzate” di valutazione dei rischi o, comunque, non
oltre il 31 dicembre 2012.
La previsione di cui all’articolo
29, comma 5, del D.Lgs.81/08 è diretta a fornire alle aziende di limitate
dimensioni (fino a 10 lavoratori) uno strumento (appunto le procedure
standardizzate per la valutazione dei rischi) che permetta alle medesime (alle
quali è ancora, fino al 31dicembre 2012, consentito predisporre una
autocertificazione relativa alla valutazione dei rischi) di redigere il proprio
DVR in modo coerente con quanto previsto dal D.Lgs.81/08 agli articoli 28 e 29.
Il comma 2, lettera a)
dell’articolo 28 del D.Lgs.81/08, nel testo inserito solo a seguito dell’emanazione
del D.Lgs.106/09, puntualizza che: “La
scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro,
che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo
da garantirne la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione
degli interventi aziendali e di prevenzione”.
Va rimarcato che i
principi (si pensi, ad esempio, alla necessità di valutazione di “tutti i
rischi” sul lavoro di cui all’articolo 28, comma 1, e a quella di rivisitare la
valutazione a seguito di “modifiche del
processo produttivo” e del verificarsi delle altre ipotesi descritte dall’articolo
29, comma 3) imposti al datore di lavoro in materia di valutazione dei rischi
sono puntualmente elencati agli articoli 28 e 29 del D.Lgs.81/08 spettando al
datore di lavoro l’onere di dimostrare, elaborando il DVR, di averli
ottemperati, senza eccezioni.
Ove si abbia riguardo,
dunque, alla finalità, appena rimarcata, della redazione del DVR appare chiaro
come la dimostrazione di avere rispettato gli obblighi in materia di
valutazione dei rischi possa essere fornita dal datore di lavoro in qualunque
modo idoneo allo scopo e, quindi, attraverso qualunque procedura che consenta di
preparare un DVR coerente con le previsioni degli articoli 17, 28 e 29 del
D.Lgs.81/08.
Ne consegue che il datore
di lavoro di una azienda fino a 10 lavoratori disporrà (a breve, come sopra
evidenziato) delle procedure standardizzate quale strumento identificato dal
Legislatore per la redazione del DVR in contesti lavorativi di limitate dimensioni
senza che ciò implichi che egli non possa dimostrare, attraverso la
predisposizione di un DVR per mezzo di procedure eventualmente non
corrispondenti a quelle standardizzate, di avere rispettato integralmente le
disposizioni in materia di valutazione dei rischi di cui agli articoli 17, 28 e
29 del D.Lgs.81/08.
Resta inteso, del tutto
conseguenzialmente, che qualora una azienda con meno di dieci lavoratori abbia già
un proprio DVR (in quanto ha deciso di non avvalersi della facoltà di
autocertificare la valutazione dei rischi, ma di preparare comunque un DVR pur
non essendovi obbligata) tale documento non dovrà essere necessariamente
rielaborato secondo le indicazioni delle procedure standardizzate, fermi
restando i sopra richiamati obblighi di aggiornamento, legati alla natura “dinamica”
del DVR.
L’INFORTUNIO IN ITINERE QUESTO SCONOSCIUTO
Da: Muglia La
Furia - Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro
Il mio precedente post era già chiuso quando ho avuto
notizia dell’ennesimo infortunio mortale “in occasione di lavoro” accaduto in
seguito a un incidente stradale.
A perdere la vita è toccato a un diciannovenne della
provincia di Rovigo che per lavoro consegnava pizze a domicilio. Ed è proprio
il tema degli incidenti stradali/infortuni sul lavoro che avevo deciso di
approfondire.
Dei 490 infortuni mortali in totale dei
primi 6 mesi del 2015 ho già parlato nel mio post di qualche settimana fa dal
titolo “Infortuni sul lavoro al 30 giugno 2015” al link:
Con questo post voglio concentrare l’attenzione
esclusivamente a quelli che assumono le sembianze di un incidente stradale per
verificare se potranno essere riconosciuti quali infortuni sul lavoro e a quali
condizioni.
Da una ricerca statistica effettuata da
Ornella Pezzotta, sulla base di
dati INAIL, si ricava un dato impressionante.
Mediamente, negli ultimi 5 anni, il 45%
degli infortuni mortali sul lavoro sono legati a un incidente stradale: il 20%
“in occasione di lavoro” (è il caso del povero diciannovenne della provincia di Rovigo che per lavoro portava pizze a domicilio) mentre il 25%
degli infortuni avviene “nel tragitto casa/lavoro/casa”.
Sono molti, infatti, i lavoratori e le
lavoratrici che quotidianamente si recano al lavoro senza potere domandarsi
cosa accadrebbe, in caso di infortunio, sotto il profilo del riconoscimento dei
danni fisici o, nei casi più gravi, di eventuali postumi invalidanti.
Vediamo innanzitutto cosa dice la normativa
ma, ancor prima, togliamoci dalla testa un vecchio retaggio per cui qualsiasi
cosa dovesse accadere “30 minuti prima e 30 minuti dopo l’orario di lavoro”,
determinerebbe sempre il riconoscimento di un infortunio sul lavoro e
conseguente risarcimento.
E’ UNA BALLA!
L’INAIL ha più volte negato il
riconoscimento dell’infortunio in “itinere” quale infortunio sul lavoro, quindi
niente risarcimento ma, dopo quasi 50 anni di cause civili e di interpretazioni
giurisprudenziali è finalmente intervenuta una legge, il D.Lgs.38/00, che ha
introdotto la copertura assicurativa per gli infortuni subiti dai lavoratori:
-
durante il normale percorso di andata e
ritorno dall’abitazione al posto di lavoro;
-
durante il normale percorso che il
lavoratore deve fare per recarsi da un luogo di lavoro ad un altro;
-
durante l’abituale percorso per la
consumazione dei pasti qualora non esista una mensa aziendale.
Attenzione che le eventuali
interruzioni e deviazioni del normale percorso non rientrano nella copertura
assicurativa ad eccezione di alcuni pochi casi di “forza maggiore” (guasto
meccanico; esigenze fisiologiche, necessità di prestare soccorso in caso di
incidente, chiusura di una strada).
In ogni caso, le soste dovranno essere
tali da non alterare le condizioni di rischio.
Dal dicembre 2014 si segnala una grossa
novità avendo l’INAIL stabilito che l’incidente occorso al lavoratore nel
tragitto casa/lavoro/casa, interrotto o deviato per far fronte ad esigenze
familiari (ad esempio per accompagnare il proprio figlio a scuola), potrà
essere ammesso alla tutela assicurativa. L’indennizzo sarà peraltro subordinato
alla verifica della necessità dell’uso del mezzo privato nonché delle modalità
e delle circostanze del singolo caso. Non sarà semplice definire il significato
da attribuire al concetto di “esigenze essenziali” cui la circolare fa riferimento.
Molte lavoratrici e lavoratori usano la bicicletta, propria o in condivisione (bike sharing), anche per recarsi al lavoro. E le amministrazioni pubbliche, le associazioni ambientaliste, quelle dei cicloamatori, promuovono tale opzione perché compatibile, come poche altre, con l’ambiente e la sua tutela (non inquina, non fa rumore, non consuma carburante, ecc.) senza contare che una bella pedalata fa pure bene.
L’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo di un mezzo di trasporto privato e la bicicletta è tale al pari di tutti gli altri (auto, motorino ecc.). La copertura assicurativa INAIL nel tragitto casa/lavoro/casa con mezzo privato e quindi anche con la bicicletta è prevista solo se si dimostra che il suo utilizzo è “necessitato” (ad esempio inesistenza di mezzi pubblici che colleghino l’abitazione del lavoratore al luogo di lavoro, incongruenza degli orari dei servizi pubblici con quelli lavorativi, distanza minima del percorso tale da poter essere percorsa a piedi).
Molte lavoratrici e lavoratori ciclisti,
che usano la bicicletta in sostituzione del mezzo pubblico, si son visti
pertanto negare il riconoscimento dell’infortunio dall’INAIL poiché avrebbero
potuto usare il mezzo pubblico o, andando a piedi, nel caso di una distanza
esigua.
In questo caso l’infortunio in itinere,
non essendo riconosciuto come tale, rientra nella categoria “malattia”, con la
conseguente negazione di tutte le maggiori tutele previste per gli infortuni
sul lavoro. E non parliamo ovviamente solo della fascia di reperibilità cui la
malattia ti costringe.
Un passo in avanti per la tutela del lavoratore infortunatosi in bicicletta lo si deve alla decisione dell’INAIL del 2011 che prevede che l’infortunio venga comunque indennizzato, nonostante la possibilità di utilizzo del mezzo pubblico, quando l’incidente sia avvenuto su una pista ciclabile o in una zona interdetta al traffico veicolare giustificando tale estensione con il fatto che transitando in zona “protetta” il ciclista non assume volontariamente un maggior rischio.
Un passo in avanti per la tutela del lavoratore infortunatosi in bicicletta lo si deve alla decisione dell’INAIL del 2011 che prevede che l’infortunio venga comunque indennizzato, nonostante la possibilità di utilizzo del mezzo pubblico, quando l’incidente sia avvenuto su una pista ciclabile o in una zona interdetta al traffico veicolare giustificando tale estensione con il fatto che transitando in zona “protetta” il ciclista non assume volontariamente un maggior rischio.
Nei casi di percorso misto, effettuato in parte su percorso protetto e in parte su strada aperta ai veicoli a motore e, nel caso in cui l’infortunio si sia verificato in questo ultimo tratto, potrà essere indennizzato solo in presenza delle condizioni che rendano necessitato l’uso della bicicletta. Un primo passo verso il riconoscimento della bicicletta quale mezzo socialmente utile e, in quanto tale, meritevole di tutela alla stregua di un mezzo pubblico.
Muglia La Furia
05/09/15
P.S. Per maggiori informazioni sul problema del riconoscimento degli infortuni in itinere con la bicicletta vedasi
Il link per aderire alla Campagna per
sostenere la proposta di legge è il seguente:
IL DIRITTO DEL
LAVORATORE ALLE FERIE
Da
Studio Cataldi
04/09/15
Le
fonti del diritto al riposo. Maturazione, godimento, irrinunciabilità e mancata
fruizione delle ferie.
LE
FONTI
Il
diritto alle ferie spetta a tutti i lavoratori dipendenti ed è disciplinato da
varie fonti normative ufficiali del nostro ordinamento.
In
primis, la Costituzione
stabilisce all’articolo 36, comma 3, che “il
lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non
può rinunziarvi”, in quanto trattasi di un mezzo necessario per tutelare la
sua salute e integrità psicofisica, consentendogli di recuperare energie e
attuare le sue esigenze relazionali, ricreative e familiari.
Questo
diritto irrinunciabile è altresì disciplinato dal Codice Civile all’articolo
2109, il quale aggiunge che “il
lavoratore ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito
possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto
conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La
durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità”.
Infine,
la norma chiarisce che “non può essere
computato nelle ferie il periodo di preavviso indicato nell’articolo 2118”
per recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Il
legislatore ha ulteriormente ampliato le disposizioni in materia con il D.Lgs.
66/03, attuativo della Direttiva comunitaria 93/104/CE così come modificata
dalla Direttiva 2000/34/CE.
LA MATURAZIONE
DELLE
FERIE
L’articolo
2109 del Codice Civile, stante la sua genericità, è stato spesso oggetto di
interventi giurisprudenziali importanti.
La
Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 543 del 1990 ha stabilito l’illegittimità
della norma in esame nella parte in cui disponeva che il lavoratore avesse
diritto alla maturazione delle ferie dopo un anno di ininterrotto servizio.
Pertanto,
la maturazione delle ferie ha inizio con la costituzione del rapporto,
proseguendo in costanza di rapporto e non alla fine di ciascun anno di
ininterrotto servizio (Sentenza della Corte Costituzionale n. 66 del 1963).
Le
ferie maturano anche nei confronti dei lavoratori assunti in prova e le stesse
devono essere monetizzate in caso di recesso dal rapporto (Sentenza della Corte
Costituzionale n. 189 del 1980).
Le
ferie maturano anche per i periodi di assenza in cui il lavoratore viene
considerato presente in servizio in base alla legge o ai contratti collettivi,
ad esempio in caso di assenza per malattia (Sentenza della Corte di Cassazione n.
14020 del 2001), infortunio sul lavoro, maternità o paternità. Non maturano,
invece, in caso di congedo parentale, malattia del bambino, aspettative a varie
titolo, sciopero ed altre casistiche.
DURATA
DELLE FERIE
Fermo
quanto previsto dall’articolo 2109 del Codice Civile, l’articolo 10 del D.Lgs.
66/03 afferma che il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di
ferie retribuite non inferiore a quattro settimane.
E’
quindi possibile distinguere tre periodi di ferie.
Un
primo periodo prevede almeno due settimane consecutive che andranno fruite dal
lavoratore nel corso dell’anno di maturazione.
Un
secondo periodo contempla altre due settimane di cui il lavoratore potrà fruire
anche in maniera frazionata nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di
maturazione.
I
contratti collettivi possono, in aggiunta alle quattro settimane obbligatorie e
non monetizzabili previste dalla legge, stabilire ulteriori periodi di ferie
fruibili, eventualmente, anche in maniera frazionata e oltre 18 mesi dalla
maturazione, fatte salve le previsioni specifiche per il settore del pubblico
impiego.
Le
previsioni, obbligatoriamente “in melius”, dei contratti collettivi, possono
riguardare non solo la durata, ma anche altre condizioni di fruizione
maggiormente vantaggiose.
E’
necessario che il prestatore di lavoro ne faccia tempestiva e puntale richiesta
al datore di lavoro, poiché l’esatta determinazione del periodo feriale,
presupponendo una valutazione comparativa di diverse esigenze, spetta unicamente
all’imprenditore quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e
direttivo dell’impresa; al lavoratore compete soltanto la mera facoltà di
indicare il periodo entro il quale intende fruire del riposo annuale (Sentenza
della Corte di Cassazione n. 7951 del 2001).
Il
datore di lavoro dovrà tuttavia rispettare i principi stabiliti dall’articolo
2109 del Codice Civile e tener conto degli interessi del lavoratore,
comunicandogli con preavviso il periodo finale affinché costui possa
organizzare liberamente il godimento del periodo di riposo.
E’
obbligo del datore di lavoro non solo assegnare le ferie al lavoratore, ma
anche quello di corrispondergli una retribuzione uguale a quella che avrebbe
percepito in caso avesse lavorato. E’ nullo ogni patto, individuale o
collettivo, che preveda trattamenti deteriori.
IRRINUNCIABILITA’
E MANCATA FRUIZIONE DELLE FERIE
Trattandosi
di un diritto inalienabile, le ferie spettano al lavoratore anche laddove egli
non ne faccia espressa richiesta.
Se
il datore di lavoro non rispetta gli obblighi di legge, egli è sottoposto a un
regime sanzionatorio per inadempimento contrattuale che varia in base al numero
di lavoratori e al periodo di tempo in cui tale violazione sia accertata.
Anche
in caso di monetizzazione delle ferie legali è prevista una sanzione, in
quanto, per consentire l’effettivo godimento del periodo di riposo, questo non
può essere sostituito da un indennizzo economico, eccetto l’ipotesi di
estinzione del diritto per impossibilità sopravvenuta, come nel caso di
estinzione del rapporto per licenziamento legittimo, morte e dimissioni, (Sentenza
della Corte di Cassazione n. 13937 del 2002) e nei contratti a tempo
determinato.
Saranno
pertanto nulle, per contrasto con l’articolo 36 della Costituzione, le clausole
individuali o collettivi che prevedano, in sostituzione delle ferie, il
pagamento di una indennità sostitutiva (Sentenza della Corte di Cassazione n.
2569 del 2001).
Per
il solo fatto che in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza
responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore la relativa indennità
sostitutiva, la cui funzione è quella di compensare il danno costituito dalla
perdita del bene al cui soddisfacimento è destinato l’istituto delle ferie (Sentenza
della Corte di Cassazione n. 16735 del 2013).
Se
il lavoratore non gode delle ferie nel periodo stabilito e non chieda di
goderne in altro periodo dell’anno non può desumersi alcuna rinuncia, che,
comunque, sarebbe nulla per contrasto con norme imperative (articolo 36 della Costituzione
e articolo 2109 del Codice Civile) e quindi il datore di lavoro è tenuto a
corrispondergli la relativa indennità sostitutiva delle ferie non godute (Sentenza
della Corte di Cassazione n. 7951 del 2001).
MALATTIA
E FERIE
In
caso di malattia intervenuta prima del periodo di ferie, queste andranno godute
successivamente, ad avvenuta guarigione.
Invece,
la malattia insorta durante il periodo di ferie, ne sospende il decorso poiché
compromette il godimento del riposo e la rigenerazione delle energie
psicofisiche del lavoratore (Sentenza della Corte Costituzionale n. 616 del 1987).
La
malattia ha valore sospensivo solo se pregiudica espressamente tale recupero
delle energie, pertanto è richiesto che l’INPS o l’ASL effettuino dei controlli
atti a verificare l’effettiva compromissione delle ferie. In tal modo il
lavoratore potrà ottenere la conversione dell’assenza per ferie in assenza di
malattia.
Una
volta terminato il periodo di malattia, il lavoratore avrà comunque diritto di
fruire delle ferie maturate, come stabilito sia dalla giurisprudenza nazionale
che comunitaria.
SULLA NON
RESPONSABILITA’ DEL LAVORATORE PER LA RIMOZIONE DEL PARAPETTO
Da:
PuntoSicuro
31
agosto 2015
Gerardo
Porreca
Non
è abnorme il comportamento di un lavoratore né tale da interrompere il nesso
causale fra la colpa del datore di lavoro e l’evento lesivo se è caduto da un
ponteggio per la mancanza di un parapetto che ha dovuto rimuovere per potere
lavorare.
Fra
i casi per i quali la Corte
di Cassazione è stata chiamata a esprimersi sulla responsabilità o meno del
datore di lavoro per un infortunio occorso a un lavoratore dipendente in
relazione al comportamento che lo stesso ha tenuto durante l’evento
infortunistico di cui è stato vittima, si cita quello di cui alla sentenza in
esame riguardante la caduta di un lavoratore da un ponteggio per la mancanza di
una parte del parapetto di protezione. Non è da considerarsi abnorme, anomalo o
comunque esorbitante, ha sostenuto la
Corte suprema nella sentenza, né comunque tale da
interrompere il nesso causale fra la condotta colposa del datore di lavoro per
la carenza delle necessarie misure di protezione e l’evento lesivo, il
comportamento di un lavoratore che è caduto da un ponteggio per la mancanza di
una parte del parapetto che lo stesso ha dovuto comunque rimuovere per potere
lavorare secondo le direttive ricevute.
Il
Tribunale ha condannato il datore di lavoro di un’impresa alla pena dell’ammenda
in relazione al reato di cui agli articoli 126 e 159, comma 2, lettera a) del
D.Lgs. 81/08 per avere omesso di dotare di parapetto un ponteggio che si
trovava a circa sei metri da terra, con pericolo di caduta dall’alto dell’operaio
che ci stava lavorando.
Avverso
la sentenza l’imputato, tramite il difensore, ha proposto impugnazione
qualificata come appello, deducendo, sostanzialmente, la mancanza della prova
della responsabilità penale.
Secondo
la ricostruzione difensiva, infatti, l’Ufficiale di Polizia Giudiziaria che
aveva proceduto all’accertamento aveva affermato che il ponteggio in questione
era dotato di parapetto per tutta la sua lunghezza, salvo per un metro e mezzo,
proprio nella parte nella quale stava lavorando l’operaio e, sempre secondo la
difesa, la rimozione temporanea del parapetto era da addebitare allo stesso
lavoratore fatta alla presenza del capocantiere che era preposto alla vigilanza.
Il
ricorso, qualificato come ricorso per Cassazione ai sensi dell’articolo 568,
comma 5, del Codice di Procedura Penale perché proposto contro una sentenza non
appellabile, ai sensi dell’articolo 593, comma 3, del Codice di Procedura Penale,
in quanto recante condanna alla sola pena dell’ammenda, è stato ritenuto
inammissibile.
Lo
stesso è risultato sottoscritto da un difensore non abilitato al patrocinio
davanti alle giurisdizioni superiori il che ha determinato, ai sensi dell’articolo
613 del Codice di Procedura Penale la sua inammissibilità per Cassazione anche
se convertito in questo mezzo l’atto di appello erroneamente proposto dalla
parte.
La Corte di Cassazione in
ogni caso, anche a prescindere da tali considerazioni, ha rilevato che il
ricorso è stato comunque formulato in modo non specifico avendo lo stesso
ricorrente ammesso sostanzialmente che il ponteggio era privo di parapetto
proprio nella parte in cui si trovava l’operaio che stava lavorando su uno dei
cornicioni.
“Il
Tribunale” - ha così concluso la suprema Corte - “senza che la difesa abbia
proposto alcuna contestazione con l’atto d’impugnazione, ha evidenziato che,
senza l’asportazione del parapetto, data la distanza tra il ponteggio e il
palazzo, non sarebbe stato possibile procedere alla riparazione; con la
conseguenza che l’eliminazione dell’elemento di sicurezza non poteva essere attribuita
a un’iniziativa estemporanea dal lavoratore, ma doveva essere considerata come
normale per le finalità dell’intervento manutentivo, le cui modalità di
esecuzione erano state determinate direttamente dall’imputato”.
Per
quanto sopra detto, la Corte
di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha condannato il
ricorrente, a norma dell’articolo 616 del Codice di Procedura Penale al
pagamento delle spese processuali e della somma di 1.000,00 euro in favore
della Cassa delle ammende.
La Sentenza n. 17385 del 27
aprile 2015 della Corte di Cassazione “Non è abnorme il comportamento di un
lavoratore né tale da interrompere il nesso causale fra la colpa del datore di
lavoro e l’evento lesivo se è caduto da un ponteggio per la mancanza di un parapetto
che ha dovuto rimuovere per potere lavorare” è consultabile all’indirizzo:
I QUESITI SUL
DECRETO 81/08: SULLA SICUREZZA DEGLI STAGISTI
Da:
PuntoSicuro
02
settembre 2015
di
Gerardo Porreca
Sugli
obblighi di sicurezza da parte del datore di lavoro nei confronti degli
stagisti utilizzati nel ciclo di produzione della propria azienda.
QUESITO
Un’azienda
che produce abrasivi e che per far fronte a maggiori, ma temporanei carichi di
produzione affianca ai propri dipendenti degli stagisti utilizzati per
preparare, a inizio ciclo, l’abrasivo da mettere in lavorazione e alla fine del
ciclo per lo smistamento e il confezionamento del prodotto da spedire, deve
impartire agli stessi la formazione come da Accordo Stato Regioni? Gli stessi
vanno sottoposti anche alla sorveglianza sanitaria?
RISPOSTA
Il
quesito riguardante gli obblighi di sicurezza da parte di quei datori che
intendono impiegare nella propria azienda in aiuto ai propri dipendenti degli
stagisti, utilizzati per partecipare alle fasi lavorative della propria
produzione, ci offre l’occasione per fare il punto della situazione sulle fonti
normative e sulle disposizioni emanate a tutela della salute e della sicurezza
di questa particolare categoria di persone.
Per
potere rispondere correttamente al quesito è necessario partire dalla
definizione che il legislatore ha dato del lavoratore ai fini dell’applicazione
del D.Lgs. 81/08. La stessa è contenuta nell’articolo 2 comma 1 lettera a) del
citato Decreto secondo il quale il lavoratore è la:
“persona
che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività
lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o
privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un
mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e
familiari”.
Lo
stesso articolo 2 comma 1 ha
anche indicato però quali sono i soggetti che sono da considerarsi equiparati
ai lavoratori, così come sopra definiti, precisando che:
“Al
lavoratore così definito è equiparato: il socio lavoratore di cooperativa o di
società, anche di fatto, che presta la sua attività per conto delle società e
dell’ente stesso; l’associato in partecipazione di cui all’articolo 2549, e
seguenti del Codice Civile; il soggetto beneficiario delle iniziative di
tirocini formativi e di orientamento di cui all’articolo 18 della legge 24
giugno 1997, n. 196, e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali
promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di
agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del
lavoro; l’allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante
ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori,
attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi
comprese le apparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi
in cui l’allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai
laboratori in questione; i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e
della protezione civile; il lavoratore di cui al decreto legislativo 1 dicembre
1997, n. 468, e successive modificazioni”
dalla
lettura del quale è facile osservare che fra gli equiparati ai lavoratori il
legislatore, ai fini dell’applicazione del D.Lgs. 81/08, ha specificatamente
inseriti appunto gli stagisti e i tirocinanti.
Per
quanto sopra detto quindi e in risposta al quesito formulato, nell’ipotesi in
cui presso un’azienda siano presenti soggetti che svolgano stages o tirocini
formativi, il datore di lavoro sarà tenuto ad osservare nei loro confronti
tutti gli obblighi previsti dal D.Lgs. 81/08 al fine di garantire la loro salute
e sicurezza e di conseguenza quindi sarà tenuto ad adempiere agli obblighi
formativi connessi alla specifica attività svolta, seguendo le indicazioni
riportate nell’Accordo Stato-Regioni del 21/12/11 sulla formazione dei
lavoratori, nonché a sottoporli a sorveglianza sanitaria.
Ciò
comunque giustamente se si tiene presente che questi, lavorando in azienda
assieme ai lavoratori dipendenti, corrono gli stessi loro rischi dai quali è
necessario proteggerli e devono essere pertanto sia adeguatamente formati che
fisicamente idonei ad affrontali.
In
tal senso si è anche espresso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
in risposta ad un quesito allo stesso formulato il 01/10/12.
Certo
può sembrare tutto complicato per uno che vuole utilizzare uno stagista o un
tirocinante caso mai per un periodo anche breve e che per ciò si auspica una
semplificazione delle disposizioni di legge in materia.
Ma
la prevenzione è questa e non la si applica in funzione della brevità della
prestazione di lavoro o dell’esposizione ai rischi ma è finalizzata a tutelare
la salute e la sicurezza di chiunque viene chiamato a prestare la propria
attività per nostro conto a prescindere dalla sua età e dal tipo di rapporto.
LA COLPA NEGLI INFORTUNI SUL LAVORO: LA CONDOTTA ABNORME
DEL LAVORATORE
Da:
PuntoSicuro
08
settembre 2015
Come
si traduce l’applicazione della regola dell’equivalenza causale, dell’articolo
41 del Codice Penale, in materia di infortuni sul lavoro?
Qual
è la condotta del lavoratore idonea a un’attenuazione della responsabilità del
datore di lavoro?
Pubblichiamo
un estratto dell’approfondimento monografico sul tema degli infortuni sul
lavoro “La colpa negli infortuni sul lavoro” Bollettino marzo 2015, Camera Penale
veneziana “Antonio Pognici”, per il sito internet www.camerapenaleveneziana.it.
In
tema di infortuni sul lavoro è senza dubbio possibile affermare che trova piena
applicazione il principio di equivalenza causale sancito dall’articolo 41 del Codice
Penale, secondo il quale il nesso causale può essere escluso solo dal
sopraggiungere di una causa autonoma e successiva, da sola sufficiente a
determinare l’evento. In tal senso, una volta accertata la condotta colposa del
datore di lavoro (o, più in generale, del destinatario dell’obbligo di adottare
le misure idonee a prevenire l’evento) la condotta del lavoratore potrà essere
valorizzata, al fine di sostenere l’assenza di responsabilità del primo, solo
ove possieda i requisiti richiesti dall’articolo 41, comma 2 del Codice Penale
e, quindi, ove sia autonoma (non in rapporto causale con la condotta del
preposto) sopravvenuta e da sola sufficiente a determinare l’evento.
Residuando, in caso contrario, soltanto la possibilità di valorizzare la
condotta imprudente del lavoratore ai fini della graduazione della colpa del
datore di lavoro e, quindi, della commisurazione della pena.
Sotto
tale profilo (vale la pena di precisarlo subito) non debbono trarre in inganno
le disposizioni che, a partire dal D.Lgs 626/94, hanno certamente tracciato un
ruolo attivo del lavoratore nell’organizzazione della sicurezza sui luoghi di
lavoro a tutela, non solo della propria salute, ma anche delle altre persone
presenti sui luoghi di lavoro; sebbene, infatti, l’evoluzione normativa sia
certamente nel senso di trasformare il lavoratore da semplice soggetto passivo,
beneficiario inerte di un dovere di sicurezza interamente gravante sul datore
di lavoro a un compartecipe sempre più consapevole del programma di protezione
di comune interesse, sicché la distinzione tra chi controlla e chi è
controllato tende ad assumere connotati diversi.
Resta
però sempre fermo il principio che la responsabilità dei dirigenti per l’omesso
apprestamento delle misure di prevenzione non può essere esclusa dalla condotta
colposa del lavoratore quando la doverosa adozione di queste misure avrebbe
potuto evitare l’evento ed impedito il verificarsi dell’imprudenza da parte del
lavoratore.
In
proposito, anche recentemente, è stato ritenuto che in materia di infortuni sul
lavoro, il D.Lgs. 626/94 (ora D.Lgs. 81/08) se da un lato prevede anche un
obbligo di diligenza del lavoratore, configurando addirittura una previsione
sanzionatoria a suo carico, non esime il datore di lavoro, e le altre figure
ivi istituzionalizzate, e, in mancanza, il soggetto preposto alla responsabilità
e al controllo della fase lavorativa specifica, dal debito di sicurezza nei
confronti dei subordinati.
Questo
consiste, oltre che in un dovere generico di formazione e informazione, anche
in forme di controllo idonee a prevenire i rischi della lavorazione che tali
soggetti, in quanto più esperti e tecnicamente competenti e capaci, debbono
adoperare al fine di prevenire i rischi, ponendo in essere la necessaria
diligenza, perizia e prudenza, anche in considerazione della disposizione
generale di cui all’articolo 2087 del Codice Civile, norma di chiusura del
sistema, da ritenersi operante nella parte in cui non è espressamente derogata
da specifiche norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
E’,
dunque, opportuno osservare come si traduce l’applicazione della regola dell’equivalenza
causale in materia di infortuni sul lavoro.
Nonostante
l’accennata evoluzione della disciplina in materia, il datore di lavoro resta
prigioniero di quella posizione di garanzia che fa sì che egli sia responsabile
non solo della disattenzione del lavoratore ma anche della sua negligenza,
imprudenza imperizia in ragione di, non meglio identificati, fattori di rischio
insiti nell’attività produttiva, idonei ad indurre il lavoratore a comportamenti
inosservanti.
Tale
principio, già in passato fatto proprio dalla Giurisprudenza di legittimità, è
rimasto sostanzialmente immutato nel tempo. Così, anche in tempi recenti,
numerosi arresti hanno precisato che il datore di lavoro e le altre figure
istituzionalizzate sono garanti anche della correttezza dell’agire del
lavoratore, essendo loro imposto di esigere dal lavoratore il rispetto delle regole
di cautela, conseguendone, appunto in linea di principio, che la colpa dei
medesimi, nel caso di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità
delle misure di prevenzione, non è esclusa da quella del lavoratore;
imputandosi, in tal caso, l’evento dannoso in forza della posizione di garanzia
che incombe sul datore di lavoro in ragione del principio dell’equivalenza causale.
E’,
dunque, lecito chiedersi quale sia la condotta del lavoratore idonea ad
interrompere il processo causale ai fini di un’attenuazione della
responsabilità del datore di lavoro.
Già
in passato la Suprema
Corte aveva precisato che l’esclusione in tutto o in parte
della responsabilità penale degli imprenditori, dei dirigenti e dei preposti,
nell’ambito delle rispettive attribuzioni, fosse configurabile soltanto quando
il lavoratore ponga in essere una condotta inopinabile, esorbitante dal
procedimento di lavoro a cui è addetto e incompatibile col sistema di
lavorazione, oppure che si concreta nella inosservanza da parte sua di precise
disposizioni antinfortunistiche.
Tale
indirizzo si presenta ancora attuale individuando le due situazioni che,
secondo la Giurisprudenza
assolutamente dominante, sono idonee ad attenuare o elidere la responsabilità
del datore di lavoro in quanto delineano un comportamento “abnorme” e,
pertanto, imprevedibile del lavoratore.
Si
definisce “abnorme” il comportamento che per la sua stranezza e
imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte
delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli
infortuni sul lavoro, L’ipotesi tipica è quella del lavoratore che violi con
consapevolezza le cautele impostegli, ponendo in essere una situazione di
pericolo che il datore di lavoro non può prevedere e certamente non può
evitare.
Altra
ipotesi è quella del lavoratore che provochi l’infortunio ponendo in essere,
colposamente, un’attività del tutto estranea al processo produttivo o alle
mansioni attribuite, realizzando in tal modo un comportamento esorbitante
rispetto al lavoro che gli è proprio, assolutamente imprevedibile (ed
evitabile) per il datore di lavoro.
Il
primo aspetto degno di nota è che la Giurisprudenza di legittimità con plurime
sentenze ha escluso che la condotta abnorme possa concretizzarsi in una
modalità, per quanto imprevedibile, di svolgimento delle mansioni assegnate al
lavoratore, dovendo trattarsi di condotta che non tragga origine dal processo
lavorativo assegnato alla vittima, ma che in esso trovi semplicemente
occasione; in questa prospettiva l’ipotesi tipica di condotta abnorme è stata
individuata in quella del lavoratore che provochi l’infortunio ponendo in
essere, colposamente, un’attività del tutto estranea al processo produttivo o
alle mansioni attribuite, realizzando in tal modo un comportamento esorbitante
rispetto al lavoro che gli è proprio, assolutamente imprevedibile (ed
evitabile) per il datore di lavoro come, ad esempio, nel caso che il lavoratore
si dedichi ad un’altra macchina o ad un altro lavoro, magari esorbitando nelle
competenze attribuite ad altro lavoratore.
Ciò
a dire che la condotta del lavoratore può dirsi abnorme quando si collochi in
qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in
corso. Tale comportamento è interattivo non perché eccezionale ma perché
eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a
governare.
A
interrompere il nesso causale tra la condotta colposa del datore di lavoro (o
del preposto) e l’evento pregiudizievole derivatone non basta, quindi, un
comportamento del lavoratore, pur avventato, negligente o disattento posto in
essere mentre svolge il lavoro affidatogli, trattandosi, in questo caso, di
comportamento connesso all’attività lavorativa o, comunque, non esorbitante da
essa e, quindi, non imprevedibile.
In
applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha precisato che non integra il
comportamento abnorme idoneo a escludere il nesso di causalità tra la condotta
omissiva del datore di lavoro e l’evento lesivo o mortale patito dal
lavoratore, il compimento da parte di quest’ultimo di un’operazione che,
seppure inutile e imprudente, non risulta eccentrica rispetto alle mansioni a
lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo.
Tale
principio di massima ha, tuttavia, incontrato qualche eccezione, seppure a
fronte di una macroscopica imprevedibilità della condotta del lavoratore.
Se,
come abbiamo visto, la negligenza, imprudenza, imperizia del lavoratore non è
sufficiente a interrompere il nesso causale che lega l’evento e la condotta
colposa del datore di lavoro, un ragionamento diverso deve essere fatto per il
comportamento coscientemente e volutamente inosservante delle norme poste a
tutela della salute del lavoratore da parte di quest’ultimo.
Sotto
tale profilo già in passato la
Suprema Corte aveva avuto occasione di distinguere la mera
distrazione, assolutamente insignificante sotto il profilo causale, rispetto al
comportamento coscientemente e volutamente inosservante delle norme predisposte
ai fini di tutela, precisando, tuttavia, che la condotta inosservante di
precetti o istruzioni o, comunque, in contrasto con particolari ordini
esecutivi, è cosa ben diversa rispetto al mancato adeguamento a un mero avvertimento
di pericolo.
Ciò
in quanto l’obbligo dell’imprenditore di adottare le cautele idonee a prevenire
ed evitare l’evento pregiudizievole è un obbligo assoluto e non può essere
sostituito dall’avvertimento di pericolo rivolto al lavoratore allorché la
fonte del pericolo sia proprio l’inadempienza del soggetto preposto alla
sicurezza.
Anche
in tale caso, tuttavia, la condotta inosservante deve rivestire il carattere
della eccezionalità ed è proprio sotto tale aspetto che si aprono le porte alla
discrezionalità del Giudice, ovvero nel distinguere il comportamento
eccezionale da quello semplicemente irrituale ma certamente prevedibile ed
evitabile con la dovuta diligenza.
In
questo senso non si è mancato di osservare che, proprio in ragione della
posizione di garanzia assunta dal datore di lavoro e del suo dovere, non solo
di predisporre le prescritte tutele antinfortunistiche, ma anche di pretenderne
l’osservanza, il comportamento inosservante del lavoratore è idoneo a
interrompere il nesso causale solo ove le disposizioni violate siano immediate
e specifiche, siano date dall’incaricato alla sorveglianza e siano violate in
modo repentino e immediato; per contro non potrà, invece, attribuirsi alcuna
rilevanza alla condotta imprudente del lavoratore, in assenza di istruzioni
specifiche impartite dal preposto.
La
condotta del lavoratore in sostanza deve essere assolutamente imprevedibile,
così da rendere inesigibile un contegno del datore di lavoro diverso rispetto a
quello osservato.
Anche
in applicazione di tali principi, tuttavia, taluno ha correttamente osservato
che nella prassi l’opinabile valutazione del Giudice in merito alla
prevedibilità ed evitabilità o meno dell’evento da parte del datore di lavoro,
incontrerà certamente il supporto di precedenti arresti giurisprudenziali.
Così
ad esempio la Suprema
Corte ha sottolineato che il datore di lavoro, quale
responsabile della sicurezza del lavoratore, deve operare un controllo continuo
e pressante per imporre ai dipendenti il rispetto della normativa, facendoli
fuggire dalla tentazione, sempre presente di sottrarvisi instaurando prassi di
lavoro non corrette.
Qualche
tempo dopo la stessa Suprema Corte riconosceva l’imprevedibilità della
situazione di pericolo da evitare nel caso del lavoratore deceduto per aver
agito in palese violazione delle prescrizioni impostegli dal datore di lavoro.
In altra circostanza il Supremo Giudice ha, per contro, escluso l’abnormità del
comportamento del lavoratore che si era messo alla guida di un carrello
elevatore, restando vittima di un incidente, nonostante ciò non rientrasse tra
le sue mansioni.
PATENTINO TRATTORI:
CHI E QUANDO DEVE CONSEGUIRE L’ABILITAZIONE?
Da:
PuntoSicuro
11
settembre 2015
Disponibile
il pieghevole informativo dell’INAIL “Abilitazione alla guida del trattore” con
le indicazioni per la formazione e addestramento per la guida dei trattori
agricoli e forestali, ai sensi dell’articolo 73, comma 5 del D.Lgs. 81/08.
Pubblichiamo
il nuovo pieghevole informativo dell’INAIL relativo all’abilitazione alla guida
del trattore, realizzato dal Gruppo di lavoro composto da INAIL (Direzione
Centrale Prevenzione, Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli
Impianti, Prodotti ed Insediamenti Antropici), Ministero delle politiche
agricole, alimentari e forestali (Direzione Generale dello Sviluppo Rurale) e
Coordinamento Tecnico delle Regioni, a supporto del Piano Nazionale Agricoltura.
La
formazione e addestramento dei conduttori di trattori agricoli o forestali è
disciplinata dall’ articolo 73, comma 5 del D.Lgs. 81/08.
Chiunque
utilizzi trattori agricoli o forestali, ai sensi del citato articolo, deve essere
in possesso di una formazione e un addestramento adeguati e specifici, tali da
consentire l’utilizzo delle attrezzature in modo idoneo e sicuro, anche in
relazione ai rischi che possano essere causati ad altre persone.
Tale
formazione è attestata dall’abilitazione all’uso, in vigore, per i lavoratori
del settore agricolo, dal 31/12/15.
A
seguire sono illustrati i contenuti della formazione e le diverse scadenze.
I
corsi, le cui modalità esecutive sono definite dall’Accordo Stato-Regioni del
22 febbraio 2012, possono essere organizzati da soggetti formatori pubblici
(Regioni e Provincie autonome, Ministero del lavoro, INAIL), associazioni
datoriali, ordini professionali e soggetti privati accreditati.
I
corsi prevedono l’effettuazione di lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche
da effettuarsi in un campo prove le cui specifiche caratteristiche sono
individuate per legge.
L’Accordo
Stato-Regioni del 22 febbraio 2012, che sancisce l’obbligo di specifica
abilitazione professionale degli operatori addetti all’uso del trattore
agricolo o forestale, fornisce indicazioni su:
-
modalità
di riconoscimento dell’abilitazione;
-
soggetti
formatori;
-
durata
della formazione;
-
indirizzi
e requisiti minimi della formazione.
Nell’allegato
8 dell’Accordo sono stabiliti i requisiti minimi dei corsi di formazione per
lavoratori addetti alla conduzione di trattori agricoli o forestali (8 oppure
13 ore) e relative attrezzature intercambiabili.
La
formazione è composta da un modulo giuridico (1 ora), uno tecnico (2 ore) e due
pratici (uno per trattori a ruote e uno per trattori a cingoli di 5 ore
ciascuno).
Il
modulo giuridico della durata di 1 ora comprende i seguenti argomenti:
-
cenni
di normativa generale in materia di igiene e sicurezza con particolare
riferimento all’uso delle attrezzature di lavoro semoventi con operatore a
bordo (D.Lgs. 81/08);
-
responsabilità
dell’operatore;
-
verifica
finale (questionario a risposta multipla).
Il
modulo tecnico della durata di 2 ore comprende i seguenti argomenti:
-
categorie
di trattori;
-
componenti
principali;
-
dispositivi
di comando e di sicurezza;
-
controlli
da effettuare prima dell’utilizzo;
-
DPI
specifici da utilizzare con i trattori;
-
modalità
di utilizzo in sicurezza e rischi (rischio di capovolgimento e stabilità
statica e dinamica, contatti non intenzionali con superfici calde e parti in
movimento, rischi dovuti alla mobilità, utilizzo di attrezzature trainate e
portate);
-
verifica
finale (questionario a risposta multipla).
I
moduli pratici della durata di 5 ore ciascuno per trattore a ruote oppure a
cingoli comprendono i seguenti argomenti:
-
individuazione
dei componenti principali;
-
individuazione
dei dispositivi di comando e sicurezza;
-
controlli
da effettuare prima dell’utilizzo;
-
pianificazione
delle operazioni di campo;
-
esercitazioni
di pratiche operative;
-
verifica
pratica (prova pratica: due prove di guida con e/o senza attrezzature).
L’abilitazione
ha validità di 5 anni e dovrà essere rinnovata mediante un corso di
aggiornamento di almeno 4 ore.
I
lavoratori autonomi, il datore di lavoro utilizzatore, il lavoratore
subordinato possono documentare l’esperienza pregressa e documentata per i
lavoratori del settore agricolo attraverso una dichiarazione sostituiva di atto
di notorietà.
L’esperienza
deve riferirsi ad un periodo di tempo non antecedente a dieci anni.
Per
“lavoratori del settore agricolo” si intendono tutti i lavoratori che
effettuano attività comprese tra quelle elencate all’articolo 2135 del Codice
Civile (è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività:
coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività
connesse).
Ai
sensi della Legge 9 agosto 2013 n. 98, modificata dall’articolo 8, comma 5-bis
della Legge 27 febbraio 2015, n. 11, tenendo conto anche della formazione
pregressa e documentata, la formazione necessaria per i lavoratori del settore
agricolo per poter condurre trattori agricoli o forestali deve essere almeno la
seguente:
-
i
lavoratori che alla data del 31 dicembre 2015 sono già addetti alla conduzione
del trattore agricolo o forestale, ma non hanno nessuno dei requisiti
(esperienza documentata o formazione) devono effettuare il corso di formazione
entro il 31 dicembre 2017 e il corso di aggiornamento entro 5 anni dall’avvenuta
formazione e ripeterlo ogni 5 anni;
-
i
lavoratori che alla data del 31 dicembre 2015 non sono addetti alla conduzione
del trattore agricolo o forestale e non hanno nessuno dei requisiti (esperienza
documentata o formazione) devono effettuare il corso di formazione prima dell’utilizzo
dei trattori e il corso aggiornamento entro 5 anni dall’avvenuta formazione e
ripeterlo ogni 5 anni;
-
i
lavoratori che alla data del 31 dicembre 2015 hanno una formazione pregressa
equiparabile a quella prevista dall’Accordo del 22/02/12 (perché il corso di
formazione seguito era di durata non inferiore, composto da un modulo
giuridico, tecnico, pratico e da una verifica finale di apprendimento) devono
effettuare il solo corso di aggiornamento entro il 31 dicembre 2020 e ripeterlo
ogni 5 anni;
-
i
lavoratori che alla data del 31 dicembre 2015 hanno una formazione pregressa
non equiparabile a quella prevista dall’Accordo del 22/02/12 (corso di
formazione di durata inferiore, ma composto da un modulo giuridico, tecnico,
pratico e da una verifica finale di apprendimento) devono effettuare il solo
corso di aggiornamento entro il 31 dicembre 2017 e ripeterlo ogni 5 anni;
-
i
lavoratori che alla data del 31 dicembre 2015 hanno una formazione pregressa
non equiparabile a quella prevista dall’Accordo del 22/02/012 (corso di
formazione di durata inferiore senza verifica finale di apprendimento) devono
effettuare il solo corso di aggiornamento con verifica di apprendimento entro
il 13 marzo 2017 e ripeterlo ogni 5 anni.
Il
documento dell’INAIL “Abilitazione alla guida del trattore” è scaricabile
all’indirizzo:
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