martedì 15 settembre 2015

15 settembre - Il nuovo numero di Know Your Rights: Sicurezza sul Lavoro



SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!

NEWSLETTER N. 225 DEL 14/09/15


NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE


I PARERI DELLA COMMISSIONE DEGLI INTERPELLI - N.2
1
L’INFORTUNIO IN ITINERE QUESTO SCONOSCIUTO
5
IL DIRITTO DEL LAVORATORE ALLE FERIE
7
SULLA NON RESPONSABILITA’ DEL LAVORATORE PER LA RIMOZIONE DEL PARAPETTO
9
I QUESITI SUL DECRETO 81/08: SULLA SICUREZZA DEGLI STAGISTI
11
LA COLPA NEGLI INFORTUNI SUL LAVORO: LA CONDOTTA ABNORME DEL LAVORATORE
13
PATENTINO TRATTORI: CHI E QUANDO DEVE CONSEGUIRE L’ABILITAZIONE?
16


I PARERI DELLA COMMISSIONE INTERPELLI - N.2

L’articolo 12 del D.Lgs.81/08 (Testo Unico sulla sicurezza) ha previsto la costituzione della Commissione degli Interpelli, composta da rappresentanti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero della salute, della Conferenza delle Regioni e delle Provincie autonome con lo scopo di rispondere a “quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro” posti da Organismi associativi, Enti pubblici, Organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, Consigli nazionali degli ordini.
La Commissione degli Interpelli è stata effettivamente costituita con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali con Decreto del 28 settembre 2011.
Secondo il comma 3 dell’articolo 12 del D.Lgs.81/08 “Le indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1 [quelli posti alla Commissione] costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza”.
Riporto pertanto in una nuova rubrica della mia newsletter tali pareri con il link per scaricare il testo completo del quesito e del parere della Commissione.
Marco Spezia


VALUTAZIONE DEL RISCHIO STRESS LAVORO-CORRELATO
Interpello in materia di sicurezza n.5 del 22 novembre 2012

RICHIEDENTE
Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi

QUESITO
Il quesito è relativo alla possibilità che il datore di lavoro, prima di intraprendere gli interventi correttivi finalizzati alla riduzione o eliminazione del rischio stress lavoro correlato qualora nella specifica valutazione del rischio, a seguito dell’esito della cosiddetta “valutazione preliminare”, emerga un grado di rischio tale da richiedere un intervento correttivo, ma non sia possibile determinare con ragionevole certezza quali misure possano essere adeguate, possa effettuare legittimamente ulteriori indagini, utilizzando anche alcuni strumenti citati per la cosiddetta “valutazione approfondita” al fine di raccogliere informazioni sulla “percezione soggettiva” dei lavoratori.

CHIARIMENTO
Al riguardo del quesito va premesso che l’articolo 28, comma 1, del D.Lgs.81/08 prevede che la valutazione dei rischi debba riguardare tutti i rischi da lavoro, “ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato”.
Il successivo comma 1-bis dell’articolo in commento dispone, di seguito, che la relativa valutazione del rischio da stress lavoro-correlato è effettuata nel rispetto delle indicazioni fornite dalla Commissione Consultiva di cui all’articolo 6 del D.Lgs.81/08, approvate da tale organismo in data 17 novembre 2010.
Le indicazioni in ultimo citate prevedono che la valutazione del rischio da stress lavoro-correlato si svolga essenzialmente in due fasi, una necessaria (la cosiddetta valutazione preliminare) e una eventuale, la quale debba essere realizzata unicamentenel caso in cui la valutazione preliminare riveli elementi di rischio da stress lavoro-correlato e le misure di correzione adottate a seguito delta stessa si rivelino inefficaci”.
Più nel dettaglio, proseguono le indicazioni,ove dalla valutazione preliminare non emergano elementi di rischio da stress lavoro-correlato tali da richiedere il ricorso ad azioni correttive, il datore di lavoro sarà unicamente tenuto a darne conto nel Documento di Valutazione dei Rischio (DVR) e a prevedere un piano di monitoraggio. Diversamente, nel caso in cui si rilevino elementi di rischio da stress lavoro-correlato tali da richiedere il ricorso ad azioni correttive, si procede alla pianificazione e alla adozione degli opportune interventi correttivi (ad esempio, interventi organizzativi, tecnici, procedurali, comunicativi, formativi, ecc.). Ove gli interventi correttivi risultino inefficaci, si procede, nei tempi che la stessa impresa definisce nella pianificazione degli interventi, alla fase di valutazione successiva (cosiddetta valutazione approfondita)”.
La Commissione consultiva richiede al datore di lavoro che abbia riscontrato in azienda criticità legate allo stress lavoro-correlato, in sede di verifica preliminare, di pianificare e realizzare azioni correttive, il cui elenco è indicato in via esemplificativa e non tassativa.
Dunque, l’obbligo del datore di lavoro, in simili casi, è quello di adottare misure di correzione, allo scopo di eliminare o, se ciò è impossibile, ridurre al minimo il rischio da stress lavoro-correlato, mentre non è fatto obbligo al datore di lavoro utilizzare strumenti propri della valutazione cosiddetta “approfondita” al fine di meglio identificare le misure di correzione.
Al riguardo, è opinione di questa Commissione che, nondimeno, il datore di lavoro che decida in tal senso potrà, sulla base di una sua libera scelta, utilizzare anche nella fase “preliminare” della valutazione del rischio da stress lavoro-correlato strumenti usualmente riservati (si pensi, ad esempio, a un questionario) alla valutazione “approfondita”, al fine di individuare con maggiore precisione gli interventi da adottare in concreto.
Va sottolineato che tale approfondimento non potrà mai essere svincolato dalla adozione di misure di correzione ma dovrà “accompagnare” tale adozione, almeno in termini di misure minime (si pensi, a solo titolo di esempio, a una attività di informazione sul tema nei riguardi di un gruppo di lavoratori risultati “a rischio”), e che il datore di lavoro che decida di operare in tal senso dovrà avere cura di identificare con puntualità (nella documentazione relativa al DVR) tempi e modi della applicazione degli strumenti in parola, al fine di evitare che la scelta sia fatta per procrastinare il momento nel quale adottare le misure di correzione che le indicazioni impongono.

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.5 del 22 novembre 2012 è scaricabile al link:


DISPOSIZIONI IN MATERIA DI FUMO PASSIVO NEI LUOGHI DI LAVORO
Interpello in materia di sicurezza n.6 del 22 novembre 2012

RICHIEDENTE
Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici, Federbingo, Associazione Concessionari del Bingo

QUESITO
Si richiede la possibilità di ammettere la presenza di lavoratori nei locali destinati a fumatori, sempreché siano rispettate le seguenti condizioni:
-         i locali devono essere adeguati ai requisiti tecnici del D.P.C.M. del 23 dicembre 2003;
-         la presenza dei dipendenti deve essere temporanea;
-         il datore di lavoro deve rispettare gli obblighi imposti dal D.Lgs.81/08 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

CHIARIMENTO
Al riguardo va premesso che la questione trova espressa disciplina nella Legge n.3 del 2003 che ha introdotto il divieto di fumo nei locali chiusi. La suddetta normativa ha poi trovato la regolamentazione specifica nella Circolare del Ministero della salute del 17 dicembre 2004 che ha individuato le tipologia di locali chiusi, aperti a utenti o al pubblico ove è fatta salva la possibilità di attrezzare sale fumatori nel rispetto dei requisiti tecnici dettati dal D.P.C.M. del 23 dicembre 2003.
Come rimarcato dal Ministero della Salute con la richiamata circolare, l’articolo 51 della Legge 3/03 persegue il fine primario della tutela della salute dei non fumatori, con l’obiettivo della massima estensione possibile del divieto di fumare, che, come tale, deve essere ritenuto di portata generate, con la sola, limitata esclusione delle eccezioni espressamente previste”.
Il divieto di fumo riguarda tutti i lavoratori in quanto “utenti” dei locali nell’ambito dei quali prestano la loro attività. Il comma 3 del citato articolo 51, tuttavia, afferma che negli esercizi di ristorazione i locali adibiti ai non fumatori devono avere superficie prevalente rispetto alla superficie complessiva di somministrazione. Se ne deduce che negli esercizi dove è prevista la somministrazione di cibi o bevande non può non essere ammessa la presenza di lavoratori addetti al servizio, anche nei locali riservati ai fumatori.
Si ritiene, pertanto, che stante la normativa attualmente vigente, in tali locali, anche nelle sale per fumatori, sia possibile la temporanea presenza dì lavoratori addetti a specifiche mansioni.
Tuttavia, al fine della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, soggetti a svolgere la propria attività nei locali riservati ai fumatori, ancorché adeguati ai requisiti tecnici dettati dal D.P.C.M. del 23 dicembre 2003, il datore di lavoro deve attenersi agli obblighi imposti dal D.Lgs.81/08, tra cui la preliminare valutazione della presenza di agenti chimici pericolosi sul luogo di lavoro e la valutazione dei rischi per la sicurezza dei lavoratori derivanti dalla presenza di tali agenti.

Il testo completo dell’Interpello in materia di sicurezza n.5 del 22 novembre 2012 è scaricabile al link:


VALUTAZIONE DEL RISCHIO E UTILIZZO DELLE PROCEDURE STANDARDIZZATE
Interpello in materia di sicurezza n.7 del 22 novembre 2012

RICHIEDENTE
Confederazione Nazionale dell’Artigianato

QUESITO
Si richiede un parere in merito alla possibilità che le aziende fino a 10 lavoratori possano preparare il Documento di Valutazione dei Rischi (nel seguito DVR) applicando integralmente l’articolo 28 del D.Lgs.81/08, senza, tuttavia, utilizzare le procedure standardizzate di valutazione dei rischi, previste dall’articolo 29, comma 5, del medesimo decreto.

CHIARIMENTO
A tale riguardo va evidenziato come l’articolo 17, comma 1, lettera a), del D.Lgs.81/08 imponga al datore di lavoro l’obbligo (indelegabile) di valutare tutti i rischicon la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28.
L’articolo 28 del Decreto identifica, al comma 2, lettera a), l’oggetto della valutazione dei rischi nel dettaglio specificando, in particolare, cheLa scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”.
L’articolo 29 del D.Lgs.81/08 individua, poi, le modalità di effettuazione della valutazione del rischio prevedendo, al comma 5, che:I datori di lavoro che occupano fino a 10 lavoratori effettuano la valutazione dei rischi (...) sulla base delle procedure standardizzate di cui all’articolo 6, comma 8, lettera f”.
Tali procedure standardizzate, una volta pubblicato il Decreto di cui all’articolo 6, comma 8, lettera f), del D.Lgs.81/08 [Decreto effettivamente pubblicato dai Ministeri del lavoro e delle politiche sociali, della salute e dell’interno in data 30 novembre 2012], verranno utilizzate innanzitutto dalle aziende fino a 10 lavoratori, vale a dire da quelle aziende alle quali è oggi concesso di autocertificare la valutazione dei rischi (articolo 29, comma 5, secondo periodo). Tale possibilità a stata limitata dall’articolo in commento al 30 giugno 2012, termine prorogato dal Decreto Legge 12 maggio 2012, n 57, convertito con Legge 12 luglio 2012, n. 101, ai tre mesi successivi all’emanazione del citato Decreto interministeriale relativo alle “procedure standardizzate” di valutazione dei rischi o, comunque, non oltre il 31 dicembre 2012.
La previsione di cui all’articolo 29, comma 5, del D.Lgs.81/08 è diretta a fornire alle aziende di limitate dimensioni (fino a 10 lavoratori) uno strumento (appunto le procedure standardizzate per la valutazione dei rischi) che permetta alle medesime (alle quali è ancora, fino al 31dicembre 2012, consentito predisporre una autocertificazione relativa alla valutazione dei rischi) di redigere il proprio DVR in modo coerente con quanto previsto dal D.Lgs.81/08 agli articoli 28 e 29.
Il comma 2, lettera a) dell’articolo 28 del D.Lgs.81/08, nel testo inserito solo a seguito dell’emanazione del D.Lgs.106/09, puntualizza che: “La scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”.
Va rimarcato che i principi (si pensi, ad esempio, alla necessità di valutazione di “tutti i rischi” sul lavoro di cui all’articolo 28, comma 1, e a quella di rivisitare la valutazione a seguito di “modifiche del processo produttivo” e del verificarsi delle altre ipotesi descritte dall’articolo 29, comma 3) imposti al datore di lavoro in materia di valutazione dei rischi sono puntualmente elencati agli articoli 28 e 29 del D.Lgs.81/08 spettando al datore di lavoro l’onere di dimostrare, elaborando il DVR, di averli ottemperati, senza eccezioni.
Ove si abbia riguardo, dunque, alla finalità, appena rimarcata, della redazione del DVR appare chiaro come la dimostrazione di avere rispettato gli obblighi in materia di valutazione dei rischi possa essere fornita dal datore di lavoro in qualunque modo idoneo allo scopo e, quindi, attraverso qualunque procedura che consenta di preparare un DVR coerente con le previsioni degli articoli 17, 28 e 29 del D.Lgs.81/08.
Ne consegue che il datore di lavoro di una azienda fino a 10 lavoratori disporrà (a breve, come sopra evidenziato) delle procedure standardizzate quale strumento identificato dal Legislatore per la redazione del DVR in contesti lavorativi di limitate dimensioni senza che ciò implichi che egli non possa dimostrare, attraverso la predisposizione di un DVR per mezzo di procedure eventualmente non corrispondenti a quelle standardizzate, di avere rispettato integralmente le disposizioni in materia di valutazione dei rischi di cui agli articoli 17, 28 e 29 del D.Lgs.81/08.
Resta inteso, del tutto conseguenzialmente, che qualora una azienda con meno di dieci lavoratori abbia già un proprio DVR (in quanto ha deciso di non avvalersi della facoltà di autocertificare la valutazione dei rischi, ma di preparare comunque un DVR pur non essendovi obbligata) tale documento non dovrà essere necessariamente rielaborato secondo le indicazioni delle procedure standardizzate, fermi restando i sopra richiamati obblighi di aggiornamento, legati alla natura “dinamica” del DVR.



L’INFORTUNIO IN ITINERE QUESTO SCONOSCIUTO

Da: Muglia La Furia - Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro

Il mio precedente post era già chiuso quando ho avuto notizia dell’ennesimo infortunio mortale “in occasione di lavoro” accaduto in seguito a un incidente stradale. 
A perdere la vita è toccato a un diciannovenne della provincia di Rovigo che per lavoro consegnava pizze a domicilio. Ed è proprio il tema degli incidenti stradali/infortuni sul lavoro che avevo deciso di approfondire. 

Dei 490 infortuni mortali in totale dei primi 6 mesi del 2015 ho già parlato nel mio post di qualche settimana fa dal titolo “Infortuni sul lavoro al 30 giugno 2015” al link:
Con questo post voglio concentrare l’attenzione esclusivamente a quelli che assumono le sembianze di un incidente stradale per verificare se potranno essere riconosciuti quali infortuni sul lavoro e a quali condizioni. 

Da una ricerca statistica effettuata da Ornella Pezzotta, sulla base di dati INAIL, si ricava un dato impressionante.
Mediamente, negli ultimi 5 anni, il 45% degli infortuni mortali sul lavoro sono legati a un incidente stradale: il 20% “in occasione di lavoro” (è il caso del povero diciannovenne della provincia di Rovigo che per lavoro portava pizze a domicilio) mentre il 25% degli infortuni avviene “nel tragitto casa/lavoro/casa”. 

Sono molti, infatti, i lavoratori e le lavoratrici che quotidianamente si recano al lavoro senza potere domandarsi cosa accadrebbe, in caso di infortunio, sotto il profilo del riconoscimento dei danni fisici o, nei casi più gravi, di eventuali postumi invalidanti. 
Vediamo innanzitutto cosa dice la normativa ma, ancor prima, togliamoci dalla testa un vecchio retaggio per cui qualsiasi cosa dovesse accadere “30 minuti prima e 30 minuti dopo l’orario di lavoro”, determinerebbe sempre il riconoscimento di un infortunio sul lavoro e conseguente risarcimento.
E’ UNA BALLA!

L’INAIL ha più volte negato il riconoscimento dell’infortunio in “itinere” quale infortunio sul lavoro, quindi niente risarcimento ma, dopo quasi 50 anni di cause civili e di interpretazioni giurisprudenziali è finalmente intervenuta una legge, il D.Lgs.38/00, che ha introdotto la copertura assicurativa per gli infortuni subiti dai lavoratori:
-         durante il normale percorso di andata e ritorno dall’abitazione al posto di lavoro;
-         durante il normale percorso che il lavoratore deve fare per recarsi da un luogo di lavoro ad un altro;
-         durante l’abituale percorso per la consumazione dei pasti qualora non esista una mensa aziendale.
Attenzione che le eventuali interruzioni e deviazioni del normale percorso non rientrano nella copertura assicurativa ad eccezione di alcuni pochi casi di “forza maggiore” (guasto meccanico; esigenze fisiologiche, necessità di prestare soccorso in caso di incidente, chiusura di una strada).
In ogni caso, le soste dovranno essere tali da non alterare le condizioni di rischio.

Dal dicembre 2014 si segnala una grossa novità avendo l’INAIL stabilito che l’incidente occorso al lavoratore nel tragitto casa/lavoro/casa, interrotto o deviato per far fronte ad esigenze familiari (ad esempio per accompagnare il proprio figlio a scuola), potrà essere ammesso alla tutela assicurativa. L’indennizzo sarà peraltro subordinato alla verifica della necessità dell’uso del mezzo privato nonché delle modalità e delle circostanze del singolo caso. Non sarà semplice definire il significato da attribuire al concetto di “esigenze essenziali” cui la circolare fa riferimento.

Molte lavoratrici e lavoratori usano la bicicletta, propria o in condivisione (bike sharing), anche per recarsi al lavoro. E le amministrazioni pubbliche, le associazioni ambientaliste, quelle dei cicloamatori, promuovono tale opzione perché compatibile, come poche altre, con l’ambiente e la sua tutela (non inquina, non fa rumore, non consuma carburante, ecc.) senza contare che una bella pedalata fa pure bene.

L’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo di un mezzo di trasporto privato e la bicicletta è tale al pari di tutti gli altri (auto, motorino ecc.). La copertura assicurativa INAIL nel tragitto casa/lavoro/casa con mezzo privato e quindi anche con la bicicletta è prevista solo se si dimostra che il suo utilizzo è “necessitato” (ad esempio inesistenza di mezzi pubblici che colleghino l’abitazione del lavoratore al luogo di lavoro, incongruenza degli orari dei servizi pubblici con quelli lavorativi, distanza minima del percorso tale da poter essere percorsa a piedi).
Molte lavoratrici e lavoratori ciclisti, che usano la bicicletta in sostituzione del mezzo pubblico, si son visti pertanto negare il riconoscimento dell’infortunio dall’INAIL poiché avrebbero potuto usare il mezzo pubblico o, andando a piedi, nel caso di una distanza esigua. 
In questo caso l’infortunio in itinere, non essendo riconosciuto come tale, rientra nella categoria “malattia”, con la conseguente negazione di tutte le maggiori tutele previste per gli infortuni sul lavoro. E non parliamo ovviamente solo della fascia di reperibilità cui la malattia ti costringe.

Un passo in avanti per la tutela del lavoratore infortunatosi in bicicletta lo si deve alla decisione dell’INAIL del 2011 che prevede che l’infortunio venga comunque indennizzato, nonostante la possibilità di utilizzo del mezzo pubblico, quando l’incidente sia avvenuto su una pista ciclabile o in una zona interdetta al traffico veicolare giustificando tale estensione con il fatto che transitando in zona “protetta” il ciclista non assume volontariamente un maggior rischio.

Nei casi di percorso misto, effettuato in parte su percorso protetto e in parte su strada aperta ai veicoli a motore e, nel caso in cui l’infortunio si sia verificato in questo ultimo tratto, potrà essere indennizzato solo in presenza delle condizioni che rendano necessitato l’uso della bicicletta. Un primo passo verso il riconoscimento della bicicletta quale mezzo socialmente utile e, in quanto tale, meritevole di tutela alla stregua di un mezzo pubblico.

Muglia La Furia
05/09/15


P.S. Per maggiori informazioni sul problema del riconoscimento degli infortuni in itinere con la bicicletta vedasi
Il link per aderire alla Campagna per sostenere la proposta di legge è il seguente:


IL DIRITTO DEL LAVORATORE ALLE FERIE

Da Studio Cataldi
04/09/15

Le fonti del diritto al riposo. Maturazione, godimento, irrinunciabilità e mancata fruizione delle ferie.

LE FONTI
Il diritto alle ferie spetta a tutti i lavoratori dipendenti ed è disciplinato da varie fonti normative ufficiali del nostro ordinamento.
In primis, la Costituzione stabilisce all’articolo 36, comma 3, che “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”, in quanto trattasi di un mezzo necessario per tutelare la sua salute e integrità psicofisica, consentendogli di recuperare energie e attuare le sue esigenze relazionali, ricreative e familiari.
Questo diritto irrinunciabile è altresì disciplinato dal Codice Civile all’articolo 2109, il quale aggiunge che “il lavoratore ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità”.
Infine, la norma chiarisce che “non può essere computato nelle ferie il periodo di preavviso indicato nell’articolo 2118 per recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Il legislatore ha ulteriormente ampliato le disposizioni in materia con il D.Lgs. 66/03, attuativo della Direttiva comunitaria 93/104/CE così come modificata dalla Direttiva 2000/34/CE.

LA MATURAZIONE DELLE FERIE
L’articolo 2109 del Codice Civile, stante la sua genericità, è stato spesso oggetto di interventi giurisprudenziali importanti.
La Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 543 del 1990 ha stabilito l’illegittimità della norma in esame nella parte in cui disponeva che il lavoratore avesse diritto alla maturazione delle ferie dopo un anno di ininterrotto servizio.
Pertanto, la maturazione delle ferie ha inizio con la costituzione del rapporto, proseguendo in costanza di rapporto e non alla fine di ciascun anno di ininterrotto servizio (Sentenza della Corte Costituzionale n. 66 del 1963).
Le ferie maturano anche nei confronti dei lavoratori assunti in prova e le stesse devono essere monetizzate in caso di recesso dal rapporto (Sentenza della Corte Costituzionale n. 189 del 1980).
Le ferie maturano anche per i periodi di assenza in cui il lavoratore viene considerato presente in servizio in base alla legge o ai contratti collettivi, ad esempio in caso di assenza per malattia (Sentenza della Corte di Cassazione n. 14020 del 2001), infortunio sul lavoro, maternità o paternità. Non maturano, invece, in caso di congedo parentale, malattia del bambino, aspettative a varie titolo, sciopero ed altre casistiche.

DURATA DELLE FERIE
Fermo quanto previsto dall’articolo 2109 del Codice Civile, l’articolo 10 del D.Lgs. 66/03 afferma che il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane.
E’ quindi possibile distinguere tre periodi di ferie.
Un primo periodo prevede almeno due settimane consecutive che andranno fruite dal lavoratore nel corso dell’anno di maturazione.
Un secondo periodo contempla altre due settimane di cui il lavoratore potrà fruire anche in maniera frazionata nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione.
I contratti collettivi possono, in aggiunta alle quattro settimane obbligatorie e non monetizzabili previste dalla legge, stabilire ulteriori periodi di ferie fruibili, eventualmente, anche in maniera frazionata e oltre 18 mesi dalla maturazione, fatte salve le previsioni specifiche per il settore del pubblico impiego.
Le previsioni, obbligatoriamente “in melius”, dei contratti collettivi, possono riguardare non solo la durata, ma anche altre condizioni di fruizione maggiormente vantaggiose.
E’ necessario che il prestatore di lavoro ne faccia tempestiva e puntale richiesta al datore di lavoro, poiché l’esatta determinazione del periodo feriale, presupponendo una valutazione comparativa di diverse esigenze, spetta unicamente all’imprenditore quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell’impresa; al lavoratore compete soltanto la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intende fruire del riposo annuale (Sentenza della Corte di Cassazione n. 7951 del 2001).
Il datore di lavoro dovrà tuttavia rispettare i principi stabiliti dall’articolo 2109 del Codice Civile e tener conto degli interessi del lavoratore, comunicandogli con preavviso il periodo finale affinché costui possa organizzare liberamente il godimento del periodo di riposo.
E’ obbligo del datore di lavoro non solo assegnare le ferie al lavoratore, ma anche quello di corrispondergli una retribuzione uguale a quella che avrebbe percepito in caso avesse lavorato. E’ nullo ogni patto, individuale o collettivo, che preveda trattamenti deteriori.

IRRINUNCIABILITA’ E MANCATA FRUIZIONE DELLE FERIE
Trattandosi di un diritto inalienabile, le ferie spettano al lavoratore anche laddove egli non ne faccia espressa richiesta.
Se il datore di lavoro non rispetta gli obblighi di legge, egli è sottoposto a un regime sanzionatorio per inadempimento contrattuale che varia in base al numero di lavoratori e al periodo di tempo in cui tale violazione sia accertata.
Anche in caso di monetizzazione delle ferie legali è prevista una sanzione, in quanto, per consentire l’effettivo godimento del periodo di riposo, questo non può essere sostituito da un indennizzo economico, eccetto l’ipotesi di estinzione del diritto per impossibilità sopravvenuta, come nel caso di estinzione del rapporto per licenziamento legittimo, morte e dimissioni, (Sentenza della Corte di Cassazione n. 13937 del 2002) e nei contratti a tempo determinato.
Saranno pertanto nulle, per contrasto con l’articolo 36 della Costituzione, le clausole individuali o collettivi che prevedano, in sostituzione delle ferie, il pagamento di una indennità sostitutiva (Sentenza della Corte di Cassazione n. 2569 del 2001).
Per il solo fatto che in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore la relativa indennità sostitutiva, la cui funzione è quella di compensare il danno costituito dalla perdita del bene al cui soddisfacimento è destinato l’istituto delle ferie (Sentenza della Corte di Cassazione n. 16735 del 2013).
Se il lavoratore non gode delle ferie nel periodo stabilito e non chieda di goderne in altro periodo dell’anno non può desumersi alcuna rinuncia, che, comunque, sarebbe nulla per contrasto con norme imperative (articolo 36 della Costituzione e articolo 2109 del Codice Civile) e quindi il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli la relativa indennità sostitutiva delle ferie non godute (Sentenza della Corte di Cassazione n. 7951 del 2001).

MALATTIA E FERIE
In caso di malattia intervenuta prima del periodo di ferie, queste andranno godute successivamente, ad avvenuta guarigione.
Invece, la malattia insorta durante il periodo di ferie, ne sospende il decorso poiché compromette il godimento del riposo e la rigenerazione delle energie psicofisiche del lavoratore (Sentenza della Corte Costituzionale n. 616 del 1987).
La malattia ha valore sospensivo solo se pregiudica espressamente tale recupero delle energie, pertanto è richiesto che l’INPS o l’ASL effettuino dei controlli atti a verificare l’effettiva compromissione delle ferie. In tal modo il lavoratore potrà ottenere la conversione dell’assenza per ferie in assenza di malattia.
Una volta terminato il periodo di malattia, il lavoratore avrà comunque diritto di fruire delle ferie maturate, come stabilito sia dalla giurisprudenza nazionale che comunitaria.



SULLA NON RESPONSABILITA’ DEL LAVORATORE PER LA RIMOZIONE DEL PARAPETTO

Da: PuntoSicuro
31 agosto 2015
Gerardo Porreca

Non è abnorme il comportamento di un lavoratore né tale da interrompere il nesso causale fra la colpa del datore di lavoro e l’evento lesivo se è caduto da un ponteggio per la mancanza di un parapetto che ha dovuto rimuovere per potere lavorare.

Fra i casi per i quali la Corte di Cassazione è stata chiamata a esprimersi sulla responsabilità o meno del datore di lavoro per un infortunio occorso a un lavoratore dipendente in relazione al comportamento che lo stesso ha tenuto durante l’evento infortunistico di cui è stato vittima, si cita quello di cui alla sentenza in esame riguardante la caduta di un lavoratore da un ponteggio per la mancanza di una parte del parapetto di protezione. Non è da considerarsi abnorme, anomalo o comunque esorbitante, ha sostenuto la Corte suprema nella sentenza, né comunque tale da interrompere il nesso causale fra la condotta colposa del datore di lavoro per la carenza delle necessarie misure di protezione e l’evento lesivo, il comportamento di un lavoratore che è caduto da un ponteggio per la mancanza di una parte del parapetto che lo stesso ha dovuto comunque rimuovere per potere lavorare secondo le direttive ricevute.

Il Tribunale ha condannato il datore di lavoro di un’impresa alla pena dell’ammenda in relazione al reato di cui agli articoli 126 e 159, comma 2, lettera a) del D.Lgs. 81/08 per avere omesso di dotare di parapetto un ponteggio che si trovava a circa sei metri da terra, con pericolo di caduta dall’alto dell’operaio che ci stava lavorando.

Avverso la sentenza l’imputato, tramite il difensore, ha proposto impugnazione qualificata come appello, deducendo, sostanzialmente, la mancanza della prova della responsabilità penale.
Secondo la ricostruzione difensiva, infatti, l’Ufficiale di Polizia Giudiziaria che aveva proceduto all’accertamento aveva affermato che il ponteggio in questione era dotato di parapetto per tutta la sua lunghezza, salvo per un metro e mezzo, proprio nella parte nella quale stava lavorando l’operaio e, sempre secondo la difesa, la rimozione temporanea del parapetto era da addebitare allo stesso lavoratore fatta alla presenza del capocantiere che era preposto alla vigilanza.

Il ricorso, qualificato come ricorso per Cassazione ai sensi dell’articolo 568, comma 5, del Codice di Procedura Penale perché proposto contro una sentenza non appellabile, ai sensi dell’articolo 593, comma 3, del Codice di Procedura Penale, in quanto recante condanna alla sola pena dell’ammenda, è stato ritenuto inammissibile.
Lo stesso è risultato sottoscritto da un difensore non abilitato al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori il che ha determinato, ai sensi dell’articolo 613 del Codice di Procedura Penale la sua inammissibilità per Cassazione anche se convertito in questo mezzo l’atto di appello erroneamente proposto dalla parte.

La Corte di Cassazione in ogni caso, anche a prescindere da tali considerazioni, ha rilevato che il ricorso è stato comunque formulato in modo non specifico avendo lo stesso ricorrente ammesso sostanzialmente che il ponteggio era privo di parapetto proprio nella parte in cui si trovava l’operaio che stava lavorando su uno dei cornicioni.
“Il Tribunale” - ha così concluso la suprema Corte - “senza che la difesa abbia proposto alcuna contestazione con l’atto d’impugnazione, ha evidenziato che, senza l’asportazione del parapetto, data la distanza tra il ponteggio e il palazzo, non sarebbe stato possibile procedere alla riparazione; con la conseguenza che l’eliminazione dell’elemento di sicurezza non poteva essere attribuita a un’iniziativa estemporanea dal lavoratore, ma doveva essere considerata come normale per le finalità dell’intervento manutentivo, le cui modalità di esecuzione erano state determinate direttamente dall’imputato”.

Per quanto sopra detto, la Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha condannato il ricorrente, a norma dell’articolo 616 del Codice di Procedura Penale al pagamento delle spese processuali e della somma di 1.000,00 euro in favore della Cassa delle ammende.

La Sentenza n. 17385 del 27 aprile 2015 della Corte di Cassazione “Non è abnorme il comportamento di un lavoratore né tale da interrompere il nesso causale fra la colpa del datore di lavoro e l’evento lesivo se è caduto da un ponteggio per la mancanza di un parapetto che ha dovuto rimuovere per potere lavorare” è consultabile all’indirizzo:



I QUESITI SUL DECRETO 81/08: SULLA SICUREZZA DEGLI STAGISTI

Da: PuntoSicuro
02 settembre 2015
di Gerardo Porreca

Sugli obblighi di sicurezza da parte del datore di lavoro nei confronti degli stagisti utilizzati nel ciclo di produzione della propria azienda.

QUESITO

Un’azienda che produce abrasivi e che per far fronte a maggiori, ma temporanei carichi di produzione affianca ai propri dipendenti degli stagisti utilizzati per preparare, a inizio ciclo, l’abrasivo da mettere in lavorazione e alla fine del ciclo per lo smistamento e il confezionamento del prodotto da spedire, deve impartire agli stessi la formazione come da Accordo Stato Regioni? Gli stessi vanno sottoposti anche alla sorveglianza sanitaria?

RISPOSTA

Il quesito riguardante gli obblighi di sicurezza da parte di quei datori che intendono impiegare nella propria azienda in aiuto ai propri dipendenti degli stagisti, utilizzati per partecipare alle fasi lavorative della propria produzione, ci offre l’occasione per fare il punto della situazione sulle fonti normative e sulle disposizioni emanate a tutela della salute e della sicurezza di questa particolare categoria di persone.

Per potere rispondere correttamente al quesito è necessario partire dalla definizione che il legislatore ha dato del lavoratore ai fini dell’applicazione del D.Lgs. 81/08. La stessa è contenuta nell’articolo 2 comma 1 lettera a) del citato Decreto secondo il quale il lavoratore è la:
“persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari”.

Lo stesso articolo 2 comma 1 ha anche indicato però quali sono i soggetti che sono da considerarsi equiparati ai lavoratori, così come sopra definiti, precisando che:
“Al lavoratore così definito è equiparato: il socio lavoratore di cooperativa o di società, anche di fatto, che presta la sua attività per conto delle società e dell’ente stesso; l’associato in partecipazione di cui all’articolo 2549, e seguenti del Codice Civile; il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento di cui all’articolo 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196, e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro; l’allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi in cui l’allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione; i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della protezione civile; il lavoratore di cui al decreto legislativo 1 dicembre 1997, n. 468, e successive modificazioni”
dalla lettura del quale è facile osservare che fra gli equiparati ai lavoratori il legislatore, ai fini dell’applicazione del D.Lgs. 81/08, ha specificatamente inseriti appunto gli stagisti e i tirocinanti.

Per quanto sopra detto quindi e in risposta al quesito formulato, nell’ipotesi in cui presso un’azienda siano presenti soggetti che svolgano stages o tirocini formativi, il datore di lavoro sarà tenuto ad osservare nei loro confronti tutti gli obblighi previsti dal D.Lgs. 81/08 al fine di garantire la loro salute e sicurezza e di conseguenza quindi sarà tenuto ad adempiere agli obblighi formativi connessi alla specifica attività svolta, seguendo le indicazioni riportate nell’Accordo Stato-Regioni del 21/12/11 sulla formazione dei lavoratori, nonché a sottoporli a sorveglianza sanitaria.
Ciò comunque giustamente se si tiene presente che questi, lavorando in azienda assieme ai lavoratori dipendenti, corrono gli stessi loro rischi dai quali è necessario proteggerli e devono essere pertanto sia adeguatamente formati che fisicamente idonei ad affrontali.
In tal senso si è anche espresso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in risposta ad un quesito allo stesso formulato il 01/10/12.

Certo può sembrare tutto complicato per uno che vuole utilizzare uno stagista o un tirocinante caso mai per un periodo anche breve e che per ciò si auspica una semplificazione delle disposizioni di legge in materia.
Ma la prevenzione è questa e non la si applica in funzione della brevità della prestazione di lavoro o dell’esposizione ai rischi ma è finalizzata a tutelare la salute e la sicurezza di chiunque viene chiamato a prestare la propria attività per nostro conto a prescindere dalla sua età e dal tipo di rapporto.



LA COLPA NEGLI INFORTUNI SUL LAVORO: LA CONDOTTA ABNORME DEL LAVORATORE

Da: PuntoSicuro
08 settembre 2015

Come si traduce l’applicazione della regola dell’equivalenza causale, dell’articolo 41 del Codice Penale, in materia di infortuni sul lavoro?
Qual è la condotta del lavoratore idonea a un’attenuazione della responsabilità del datore di lavoro?

Pubblichiamo un estratto dell’approfondimento monografico sul tema degli infortuni sul lavoro “La colpa negli infortuni sul lavoro” Bollettino marzo 2015, Camera Penale veneziana “Antonio Pognici”, per il sito internet www.camerapenaleveneziana.it.

In tema di infortuni sul lavoro è senza dubbio possibile affermare che trova piena applicazione il principio di equivalenza causale sancito dall’articolo 41 del Codice Penale, secondo il quale il nesso causale può essere escluso solo dal sopraggiungere di una causa autonoma e successiva, da sola sufficiente a determinare l’evento. In tal senso, una volta accertata la condotta colposa del datore di lavoro (o, più in generale, del destinatario dell’obbligo di adottare le misure idonee a prevenire l’evento) la condotta del lavoratore potrà essere valorizzata, al fine di sostenere l’assenza di responsabilità del primo, solo ove possieda i requisiti richiesti dall’articolo 41, comma 2 del Codice Penale e, quindi, ove sia autonoma (non in rapporto causale con la condotta del preposto) sopravvenuta e da sola sufficiente a determinare l’evento. Residuando, in caso contrario, soltanto la possibilità di valorizzare la condotta imprudente del lavoratore ai fini della graduazione della colpa del datore di lavoro e, quindi, della commisurazione della pena.

Sotto tale profilo (vale la pena di precisarlo subito) non debbono trarre in inganno le disposizioni che, a partire dal D.Lgs 626/94, hanno certamente tracciato un ruolo attivo del lavoratore nell’organizzazione della sicurezza sui luoghi di lavoro a tutela, non solo della propria salute, ma anche delle altre persone presenti sui luoghi di lavoro; sebbene, infatti, l’evoluzione normativa sia certamente nel senso di trasformare il lavoratore da semplice soggetto passivo, beneficiario inerte di un dovere di sicurezza interamente gravante sul datore di lavoro a un compartecipe sempre più consapevole del programma di protezione di comune interesse, sicché la distinzione tra chi controlla e chi è controllato tende ad assumere connotati diversi.
Resta però sempre fermo il principio che la responsabilità dei dirigenti per l’omesso apprestamento delle misure di prevenzione non può essere esclusa dalla condotta colposa del lavoratore quando la doverosa adozione di queste misure avrebbe potuto evitare l’evento ed impedito il verificarsi dell’imprudenza da parte del lavoratore.

In proposito, anche recentemente, è stato ritenuto che in materia di infortuni sul lavoro, il D.Lgs. 626/94 (ora D.Lgs. 81/08) se da un lato prevede anche un obbligo di diligenza del lavoratore, configurando addirittura una previsione sanzionatoria a suo carico, non esime il datore di lavoro, e le altre figure ivi istituzionalizzate, e, in mancanza, il soggetto preposto alla responsabilità e al controllo della fase lavorativa specifica, dal debito di sicurezza nei confronti dei subordinati.
Questo consiste, oltre che in un dovere generico di formazione e informazione, anche in forme di controllo idonee a prevenire i rischi della lavorazione che tali soggetti, in quanto più esperti e tecnicamente competenti e capaci, debbono adoperare al fine di prevenire i rischi, ponendo in essere la necessaria diligenza, perizia e prudenza, anche in considerazione della disposizione generale di cui all’articolo 2087 del Codice Civile, norma di chiusura del sistema, da ritenersi operante nella parte in cui non è espressamente derogata da specifiche norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro.

E’, dunque, opportuno osservare come si traduce l’applicazione della regola dell’equivalenza causale in materia di infortuni sul lavoro.
Nonostante l’accennata evoluzione della disciplina in materia, il datore di lavoro resta prigioniero di quella posizione di garanzia che fa sì che egli sia responsabile non solo della disattenzione del lavoratore ma anche della sua negligenza, imprudenza imperizia in ragione di, non meglio identificati, fattori di rischio insiti nell’attività produttiva, idonei ad indurre il lavoratore a comportamenti inosservanti.
Tale principio, già in passato fatto proprio dalla Giurisprudenza di legittimità, è rimasto sostanzialmente immutato nel tempo. Così, anche in tempi recenti, numerosi arresti hanno precisato che il datore di lavoro e le altre figure istituzionalizzate sono garanti anche della correttezza dell’agire del lavoratore, essendo loro imposto di esigere dal lavoratore il rispetto delle regole di cautela, conseguendone, appunto in linea di principio, che la colpa dei medesimi, nel caso di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, non è esclusa da quella del lavoratore; imputandosi, in tal caso, l’evento dannoso in forza della posizione di garanzia che incombe sul datore di lavoro in ragione del principio dell’equivalenza causale.

E’, dunque, lecito chiedersi quale sia la condotta del lavoratore idonea ad interrompere il processo causale ai fini di un’attenuazione della responsabilità del datore di lavoro.

Già in passato la Suprema Corte aveva precisato che l’esclusione in tutto o in parte della responsabilità penale degli imprenditori, dei dirigenti e dei preposti, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, fosse configurabile soltanto quando il lavoratore ponga in essere una condotta inopinabile, esorbitante dal procedimento di lavoro a cui è addetto e incompatibile col sistema di lavorazione, oppure che si concreta nella inosservanza da parte sua di precise disposizioni antinfortunistiche.

Tale indirizzo si presenta ancora attuale individuando le due situazioni che, secondo la Giurisprudenza assolutamente dominante, sono idonee ad attenuare o elidere la responsabilità del datore di lavoro in quanto delineano un comportamento “abnorme” e, pertanto, imprevedibile del lavoratore.
Si definisce “abnorme” il comportamento che per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, L’ipotesi tipica è quella del lavoratore che violi con consapevolezza le cautele impostegli, ponendo in essere una situazione di pericolo che il datore di lavoro non può prevedere e certamente non può evitare.
Altra ipotesi è quella del lavoratore che provochi l’infortunio ponendo in essere, colposamente, un’attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, realizzando in tal modo un comportamento esorbitante rispetto al lavoro che gli è proprio, assolutamente imprevedibile (ed evitabile) per il datore di lavoro.

Il primo aspetto degno di nota è che la Giurisprudenza di legittimità con plurime sentenze ha escluso che la condotta abnorme possa concretizzarsi in una modalità, per quanto imprevedibile, di svolgimento delle mansioni assegnate al lavoratore, dovendo trattarsi di condotta che non tragga origine dal processo lavorativo assegnato alla vittima, ma che in esso trovi semplicemente occasione; in questa prospettiva l’ipotesi tipica di condotta abnorme è stata individuata in quella del lavoratore che provochi l’infortunio ponendo in essere, colposamente, un’attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, realizzando in tal modo un comportamento esorbitante rispetto al lavoro che gli è proprio, assolutamente imprevedibile (ed evitabile) per il datore di lavoro come, ad esempio, nel caso che il lavoratore si dedichi ad un’altra macchina o ad un altro lavoro, magari esorbitando nelle competenze attribuite ad altro lavoratore.
Ciò a dire che la condotta del lavoratore può dirsi abnorme quando si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è interattivo non perché eccezionale ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare.

A interrompere il nesso causale tra la condotta colposa del datore di lavoro (o del preposto) e l’evento pregiudizievole derivatone non basta, quindi, un comportamento del lavoratore, pur avventato, negligente o disattento posto in essere mentre svolge il lavoro affidatogli, trattandosi, in questo caso, di comportamento connesso all’attività lavorativa o, comunque, non esorbitante da essa e, quindi, non imprevedibile.
In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha precisato che non integra il comportamento abnorme idoneo a escludere il nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l’evento lesivo o mortale patito dal lavoratore, il compimento da parte di quest’ultimo di un’operazione che, seppure inutile e imprudente, non risulta eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo.

Tale principio di massima ha, tuttavia, incontrato qualche eccezione, seppure a fronte di una macroscopica imprevedibilità della condotta del lavoratore.

Se, come abbiamo visto, la negligenza, imprudenza, imperizia del lavoratore non è sufficiente a interrompere il nesso causale che lega l’evento e la condotta colposa del datore di lavoro, un ragionamento diverso deve essere fatto per il comportamento coscientemente e volutamente inosservante delle norme poste a tutela della salute del lavoratore da parte di quest’ultimo.
Sotto tale profilo già in passato la Suprema Corte aveva avuto occasione di distinguere la mera distrazione, assolutamente insignificante sotto il profilo causale, rispetto al comportamento coscientemente e volutamente inosservante delle norme predisposte ai fini di tutela, precisando, tuttavia, che la condotta inosservante di precetti o istruzioni o, comunque, in contrasto con particolari ordini esecutivi, è cosa ben diversa rispetto al mancato adeguamento a un mero avvertimento di pericolo.
Ciò in quanto l’obbligo dell’imprenditore di adottare le cautele idonee a prevenire ed evitare l’evento pregiudizievole è un obbligo assoluto e non può essere sostituito dall’avvertimento di pericolo rivolto al lavoratore allorché la fonte del pericolo sia proprio l’inadempienza del soggetto preposto alla sicurezza.
Anche in tale caso, tuttavia, la condotta inosservante deve rivestire il carattere della eccezionalità ed è proprio sotto tale aspetto che si aprono le porte alla discrezionalità del Giudice, ovvero nel distinguere il comportamento eccezionale da quello semplicemente irrituale ma certamente prevedibile ed evitabile con la dovuta diligenza.
In questo senso non si è mancato di osservare che, proprio in ragione della posizione di garanzia assunta dal datore di lavoro e del suo dovere, non solo di predisporre le prescritte tutele antinfortunistiche, ma anche di pretenderne l’osservanza, il comportamento inosservante del lavoratore è idoneo a interrompere il nesso causale solo ove le disposizioni violate siano immediate e specifiche, siano date dall’incaricato alla sorveglianza e siano violate in modo repentino e immediato; per contro non potrà, invece, attribuirsi alcuna rilevanza alla condotta imprudente del lavoratore, in assenza di istruzioni specifiche impartite dal preposto.
La condotta del lavoratore in sostanza deve essere assolutamente imprevedibile, così da rendere inesigibile un contegno del datore di lavoro diverso rispetto a quello osservato.

Anche in applicazione di tali principi, tuttavia, taluno ha correttamente osservato che nella prassi l’opinabile valutazione del Giudice in merito alla prevedibilità ed evitabilità o meno dell’evento da parte del datore di lavoro, incontrerà certamente il supporto di precedenti arresti giurisprudenziali.
Così ad esempio la Suprema Corte ha sottolineato che il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza del lavoratore, deve operare un controllo continuo e pressante per imporre ai dipendenti il rispetto della normativa, facendoli fuggire dalla tentazione, sempre presente di sottrarvisi instaurando prassi di lavoro non corrette.
Qualche tempo dopo la stessa Suprema Corte riconosceva l’imprevedibilità della situazione di pericolo da evitare nel caso del lavoratore deceduto per aver agito in palese violazione delle prescrizioni impostegli dal datore di lavoro. In altra circostanza il Supremo Giudice ha, per contro, escluso l’abnormità del comportamento del lavoratore che si era messo alla guida di un carrello elevatore, restando vittima di un incidente, nonostante ciò non rientrasse tra le sue mansioni.



PATENTINO TRATTORI: CHI E QUANDO DEVE CONSEGUIRE L’ABILITAZIONE?

Da: PuntoSicuro
11 settembre 2015

Disponibile il pieghevole informativo dell’INAIL “Abilitazione alla guida del trattore” con le indicazioni per la formazione e addestramento per la guida dei trattori agricoli e forestali, ai sensi dell’articolo 73, comma 5 del D.Lgs. 81/08.

Pubblichiamo il nuovo pieghevole informativo dell’INAIL relativo all’abilitazione alla guida del trattore, realizzato dal Gruppo di lavoro composto da INAIL (Direzione Centrale Prevenzione, Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti ed Insediamenti Antropici), Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali (Direzione Generale dello Sviluppo Rurale) e Coordinamento Tecnico delle Regioni, a supporto del Piano Nazionale Agricoltura.

La formazione e addestramento dei conduttori di trattori agricoli o forestali è disciplinata dall’ articolo 73, comma 5 del D.Lgs. 81/08.
Chiunque utilizzi trattori agricoli o forestali, ai sensi del citato articolo, deve essere in possesso di una formazione e un addestramento adeguati e specifici, tali da consentire l’utilizzo delle attrezzature in modo idoneo e sicuro, anche in relazione ai rischi che possano essere causati ad altre persone.
Tale formazione è attestata dall’abilitazione all’uso, in vigore, per i lavoratori del settore agricolo, dal 31/12/15.
A seguire sono illustrati i contenuti della formazione e le diverse scadenze.
I corsi, le cui modalità esecutive sono definite dall’Accordo Stato-Regioni del 22 febbraio 2012, possono essere organizzati da soggetti formatori pubblici (Regioni e Provincie autonome, Ministero del lavoro, INAIL), associazioni datoriali, ordini professionali e soggetti privati accreditati.
I corsi prevedono l’effettuazione di lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche da effettuarsi in un campo prove le cui specifiche caratteristiche sono individuate per legge.

L’Accordo Stato-Regioni del 22 febbraio 2012, che sancisce l’obbligo di specifica abilitazione professionale degli operatori addetti all’uso del trattore agricolo o forestale, fornisce indicazioni su:
-         modalità di riconoscimento dell’abilitazione;
-         soggetti formatori;
-         durata della formazione;
-         indirizzi e requisiti minimi della formazione.

Nell’allegato 8 dell’Accordo sono stabiliti i requisiti minimi dei corsi di formazione per lavoratori addetti alla conduzione di trattori agricoli o forestali (8 oppure 13 ore) e relative attrezzature intercambiabili.
La formazione è composta da un modulo giuridico (1 ora), uno tecnico (2 ore) e due pratici (uno per trattori a ruote e uno per trattori a cingoli di 5 ore ciascuno).

Il modulo giuridico della durata di 1 ora comprende i seguenti argomenti:
-         cenni di normativa generale in materia di igiene e sicurezza con particolare riferimento all’uso delle attrezzature di lavoro semoventi con operatore a bordo (D.Lgs. 81/08);
-         responsabilità dell’operatore;
-         verifica finale (questionario a risposta multipla).

Il modulo tecnico della durata di 2 ore comprende i seguenti argomenti:
-         categorie di trattori;
-         componenti principali;
-         dispositivi di comando e di sicurezza;
-         controlli da effettuare prima dell’utilizzo;
-         DPI specifici da utilizzare con i trattori;
-         modalità di utilizzo in sicurezza e rischi (rischio di capovolgimento e stabilità statica e dinamica, contatti non intenzionali con superfici calde e parti in movimento, rischi dovuti alla mobilità, utilizzo di attrezzature trainate e portate);
-         verifica finale (questionario a risposta multipla).

I moduli pratici della durata di 5 ore ciascuno per trattore a ruote oppure a cingoli comprendono i seguenti argomenti:
-         individuazione dei componenti principali;
-         individuazione dei dispositivi di comando e sicurezza;
-         controlli da effettuare prima dell’utilizzo;
-         pianificazione delle operazioni di campo;
-         esercitazioni di pratiche operative;
-         verifica pratica (prova pratica: due prove di guida con e/o senza attrezzature).

L’abilitazione ha validità di 5 anni e dovrà essere rinnovata mediante un corso di aggiornamento di almeno 4 ore.

I lavoratori autonomi, il datore di lavoro utilizzatore, il lavoratore subordinato possono documentare l’esperienza pregressa e documentata per i lavoratori del settore agricolo attraverso una dichiarazione sostituiva di atto di notorietà.
L’esperienza deve riferirsi ad un periodo di tempo non antecedente a dieci anni.
Per “lavoratori del settore agricolo” si intendono tutti i lavoratori che effettuano attività comprese tra quelle elencate all’articolo 2135 del Codice Civile (è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse).

Ai sensi della Legge 9 agosto 2013 n. 98, modificata dall’articolo 8, comma 5-bis della Legge 27 febbraio 2015, n. 11, tenendo conto anche della formazione pregressa e documentata, la formazione necessaria per i lavoratori del settore agricolo per poter condurre trattori agricoli o forestali deve essere almeno la seguente:
-         i lavoratori che alla data del 31 dicembre 2015 sono già addetti alla conduzione del trattore agricolo o forestale, ma non hanno nessuno dei requisiti (esperienza documentata o formazione) devono effettuare il corso di formazione entro il 31 dicembre 2017 e il corso di aggiornamento entro 5 anni dall’avvenuta formazione e ripeterlo ogni 5 anni;
-         i lavoratori che alla data del 31 dicembre 2015 non sono addetti alla conduzione del trattore agricolo o forestale e non hanno nessuno dei requisiti (esperienza documentata o formazione) devono effettuare il corso di formazione prima dell’utilizzo dei trattori e il corso aggiornamento entro 5 anni dall’avvenuta formazione e ripeterlo ogni 5 anni;
-         i lavoratori che alla data del 31 dicembre 2015 hanno una formazione pregressa equiparabile a quella prevista dall’Accordo del 22/02/12 (perché il corso di formazione seguito era di durata non inferiore, composto da un modulo giuridico, tecnico, pratico e da una verifica finale di apprendimento) devono effettuare il solo corso di aggiornamento entro il 31 dicembre 2020 e ripeterlo ogni 5 anni;
-         i lavoratori che alla data del 31 dicembre 2015 hanno una formazione pregressa non equiparabile a quella prevista dall’Accordo del 22/02/12 (corso di formazione di durata inferiore, ma composto da un modulo giuridico, tecnico, pratico e da una verifica finale di apprendimento) devono effettuare il solo corso di aggiornamento entro il 31 dicembre 2017 e ripeterlo ogni 5 anni;
-         i lavoratori che alla data del 31 dicembre 2015 hanno una formazione pregressa non equiparabile a quella prevista dall’Accordo del 22/02/012 (corso di formazione di durata inferiore senza verifica finale di apprendimento) devono effettuare il solo corso di aggiornamento con verifica di apprendimento entro il 13 marzo 2017 e ripeterlo ogni 5 anni.

Il documento dell’INAIL “Abilitazione alla guida del trattore” è scaricabile all’indirizzo:

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