Redazione di
Operai Contro,
è iniziato
il processo per gli operai assassinati all’Olivetti di Ivrea.
Sappiamo già
come finirà: Padroni e capi saranno assolti
Un operaio
DALLA STAMPA
LODOVICO
POLETTO
IVREA
«No, piano, Olivetti non si tocca». Non si tocca
l’azienda che ha dato il pane a mezzo territorio. Non si tocca Adriano, non si
toccano i simboli della città. «Perché con i soldi che mio marito ed io abbiamo
guadagnato lì, in fabbrica, abbiamo tirato su due figli. Li abbiamo mandati
all’università». Lo dice da dietro il cancello di casa sua, a Romano Canavese,
Graziella Tirassa, che s’è vista morire il marito di mesotelioma nel 2008. Lo
ripete Anna Comini, che cinque anni prima ha pianto e s’è disperata per il
calvario di suo marito ucciso, pure lui, dal tumore portato dall’asbesto. Lo
puntualizza Luigi Formento, vedovo di Franca Lombardo, pure lei stroncata da
quel male. Eppure basta bussare alla porta di una di quelle case perché si
spalanchi un mondo di sofferenza che rimanda subito ad altra gente, altre
vittime dell’amianto, altre famiglie straziate da una perdita. Ogni porta un
nome nuovo, un’altra storia. Anna Comini abita a Chiaverano, sulla collina che
sovrasta Ivrea. Casa ordinatissima, foto alle pareti. Il camino acceso. «Mio
marito era un uomo forte, uno che andava in montagna a camminare, a scalare.
Eppure in tre anni quella roba che aveva nei polmoni se l’è portato via. Quando
ha saputo che per lui non c’era scampo, ha anche pensato di farla finita. Mi
telefonò dall’ospedale dove lo avevano ricoverato per una biopsia al polmone.
Mi disse, “Sai Anna, ho pensato che mi butto nella tromba delle scale” e io
sono corsa da lui. Ma poi, alla fine, ha fatto tutta la strada che fanno tutti
in questi casi. Quando è mancato l’Inail ci ha riconosciuto la malattia
professionale. Qualche centinaia di euro al mese. Ma Dino non c’era più».
Come
non c’è più Ines Cattaneo di Castellamonte, venti chilometri da Ivrea. Anna
Comini se la ricorda come l’avesse incontrata soltanto ieri: «Ci eravamo
conosciuti in ospedale. Lavorava pure lei nelle officine di San Bernardo di
Ivrea. Mio marito era quello che si occupava di tempi di lavorazione. Cioè
provava e riprovava a montare i gommini nelle apparecchiature elettriche per
stabilire quanto tempo serviva ad un operaio per fare la stessa operazione.
Immergeva il gommino nel talco. Poi lo infilava nell’apparecchiatura elettrica.
Un Lavoro pulito, eh. Anche di responsabilità». Anche la Ines metteva i
gommini. Ma lei era un’operaia. «Non si conoscevano anche se lavoravano nella
stessa fabbrica. Ma sa, lì dentro c’erano migliaia di persone. Poi un giorno mi
chiamò suo marito per dirmi che era morta». In questa teoria senza fine di
gente che non ce l’ha fatta c’è anche Lea di Giusto, un’altra operaia
incontrata da Anna in quegli anni di ricoveri, analisi, chemioterapie,
interventi, medici e speranze che affondavano sempre prima di diventare realtà.
Ogni paese che citi è un morto. Lea era di Albiano d’Ivrea. Franca Lombardo,
era di Burolo. E via elencando. E poi c’è sempre lui, il talco. Tutte quelle
persone lo maneggiavano. E lo respiravano. Aldo Enrico Gan Sin, classe 1929,
morto alla soglia degli ottant’anni, è uno dei pochi che non metteva le mani
direttamente nella polvere. «Lui era capo officina. Organizzava il lavoro»,
racconta adesso sua moglie. Ma alla Ico, dove ha faticato negli ultimi anni, si
fabbricavano i cavi e lì il talco c’era. E c’era pure nello stabilimento di
Agliè dove montavano le macchine da scrivere. «Mi raccontava che i pezzi
arrivavano annegati in quella polvere. Che c’erano le operaie che immergevano
le mani per tirarli fuori». Allora nessuno ci pensava. Era lavoro, pane, soldi.
Villette che sorgevano lungo le strade, Fiat 127 comprate in contanti. Vacanze
al mare, o a Gressoney, la montagna degli eporediesi. Lucia De Laurenti morì
nel 2005. Stesso brutto male di tutti gli altri. Dal 1960 al 1976 aveva
lavorato ad Agliè. Stesso incarico degli altri personaggi di questa storia,
mette i gommini, valuta i tempi di lavoro degli operai. Suo marito ha un
ricordo nitido di quel lavoro, e lo ha fissato in frasi messe tutte a verbale:
«Al lavoro indossava un grembiule nero che portava a casa una volta la
settimana. Lo scuoteva prima di metterlo in lavatrice per eliminare la polvere.
Era completamente bianco». Suo figlio, Franco, è ancora più netto nei ricordi:
«Quando tornava dal lavoro mia mamma si cambiava fuori casa, immagino per non
impolverare». Con la polvere d’amianto tritata e resa finissima e bianca. Con
quello che lui chiama ancora adesso con dolcezza «borotalco».
Nessun commento:
Posta un commento