lunedì 27 luglio 2015

27 luglio - La Contro/Informazione sulla sicurezza sul lavoro: Konw Your Rghts



SICUREZZA SUL LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!

NEWSLETTER N. 221 DEL 27/07/15

NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA SICUREZZA DEI LAVORATORI
(a cura di Marco Spezia - sp-mail@libero.it)

INDICE


LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS - N.3
1
MODULISTICA PER I RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA
5
TARANTO ILVA: UN MARE BOLLENTE DI RINVII A GIUDIZIO NEL PROCESSO “AMBIENTE SVENDUTO”
6
QUALI SONO LE RESPONSABILITA’ DEI LAVORATORI IN MATERIA DI SICUREZZA?
8
PREVENZIONE INCENDI: L’ANALISI DEL RISCHIO E LE MISURE DI SICUREZZA
11
L’ILLUMINAZIONE NATURALE E ARTIFICIALE DEGLI AMBIENTI DI LAVORO
13
LA CORRESPONSABILITA’ DEL RSPP CON IL DATORE DI LAVORO PER UN INFORTUNIO
16



LE “FREQUENTLY ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS - N.3

Nella mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro, spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a svolgere delle vere e proprie “consulenze’” (ovviamente del tutto gratuite) di ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia newsletter.
Ovviamente, per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.

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DOMANDA
Ciao Marco,
Scusami se ti disturbo.
Quando riesci potresti gentilmente farmi avere un documento in cui, facendo riferimento alla legge, si spiega che non è possibile bere alcolici se si guida l’autovettura aziendale o quella propria per motivi di lavoro.
Grazie mille!

RISPOSTA
L’attuale normativa di tutela della sicurezza, incolumità e salute di lavoratori e di terzi prevede il divieto di assunzione di qualsiasi tipo e in qualsiasi quantità di bevanda alcolica in caso di utilizzo per motivi di lavoro di autoveicoli che richiedano almeno la patente di guida di categoria B.
Tale divieto deriva dalla Legge 30 marzo 2001, n.125 “Legge quadro in materia di alcol e di problemi alcol correlati” (Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 90 del 18/04/01) che dedica tutto il Capo III alle “Disposizioni sulla pubblicità e sul consumo delle bevande alcoliche e in materia di sicurezza sul lavoro”.
L’articolo 15, comma 1 di tale Legge prevede infatti che:
Nelle attività lavorative che comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’incolumità o la salute dei terzi, individuate con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e’ fatto divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche”.
Il mancato adempimento di quanto stabilito dall’articolo 15, comma 1 è punito dal comma 4 del medesimo articolo con la sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da lire 1 milione a lire 5 milioni [da 516 € a 2.582 €].
Se in conseguenza di guida di autoveicoli in stato di ebbrezza derivano danni alle persone, si applica poi l’articolo 590 del Codice Penale (lesioni personali colpose) oppure l’ articolo 589 (omicidio colposo), con l’aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni.
L’articolo 15, comma 1 della Legge 125/01 non specifica le attività lavorative “che comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’incolumità o la salute dei terzi”, rimandando a successivi atti normativi tale definizione.
Le attività di cui sopra sono state successivamente definite dalla “Intesa Conferenza Stato Regioni, 16 marzo 2006. Attività lavorative ad elevato rischio infortuni” (Intesa in materia di individuazione delle attività lavorative che comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’incolumità o la salute dei terzi, ai fini del divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche, ai sensi dell’ articolo 15 della legge 30 marzo 2001, n. 125, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 75 del 30 marzo 2006).
All’articolo 1, comma 1 di tale Intesa è stabilito che:
Le attività lavorative che comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’incolumità o la salute dei terzi, per le quali si fa divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche, ai sensi dell’ articolo 15 della legge 30 marzo 2001, n. 125, sono quelle individuate nell’ allegato 1, che forma parte integrante della presente intesa”.
All’interno dell’allegato 1 “Attività lavorative che comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’ incolumità o la salute dei terzi” della Intesa, al punto 8) sono comprese le:
mansioni inerenti le seguenti attività di trasporto:
[...]
a) addetti alla guida di veicoli stradali per i quali è richiesto il possesso della patente di guida categoria B, C, D, E [...];
[...]”.
Pertanto dal combinato disposto dell’articolo 15 della Legge 125/01, dell’articolo 1, comma 1 dell’Intesa 16/03/06 e del punto 8) dell’allegato 1 della Intesa citata deriva il divieto, tra l’altro, di assunzione di qualunque tipo e di qualunque quantitativo di bevande alcoliche in caso di guida di autoveicoli che richiedano almeno la patente di guida di categoria B.
Giova osservare che, poiché l’articolo 15 della Legge 125/01 parla di “divieto di assunzione [...] di bevande alcoliche e superalcoliche” e che tale termine è categorico, esso non prevede un valore di tasso alcolemico massimo da non superare (a differenze delle disposizioni di legge contenute nel Codice della Strada), ma il divieto assoluto di assunzione di qualunque quantitativo di alcol.

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DOMANDA
Ciao Marco,
sono RLS in un’azienda privata.
In azienda, quando mi trovo a parlare di sicurezza, il mio interlocutore, oltre che il RSPP, è anche e più sovente il dirigente responsabile dei servizi, nella seguente disposizione: davanti il dirigente e, in secondo piano, il RSPP, come se il suo ruolo fosse secondario
Come posso fare per capire chi veramente prende le decisioni in merito alla sicurezza?
Ti saluto augurandoti un buon lavoro.

RISPOSTA
In merito a quanto mi chiedi, il D.Lgs.81/08 (nel seguito “Decreto”), come d’altronde tutte le Direttive Europee su salute e sicurezza, è molto chiaro.
Le decisioni relative a salute e sicurezza sul lavoro le prende il datore di lavoro, per quanto riguarda gli interventi “strutturali” e le prende il dirigente (se formalmente delegato) per quanto riguarda gli interventi “operativi”, su indicazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP).
Il RSPP in tutto questo non ha alcun potere (in quanto non detiene i poteri decisionali e di spesa), ma ha solo un ruolo di consulenza al datore di lavoro e alla gerarchia aziendale.
Infatti se si legge il Decreto non si trova mai alcun articolo che riporta gli “obblighi” a carico del RSPP, come di conseguenza il RSPP non è compreso nell’apparato sanzionatorio, proprio in quanto non ha obblighi penali.
Questo concetto è poi reso in maniera molto chiara all’articolo 33 “Compiti del servizio di prevenzione e protezione”, dove si parla appunto di “compiti” e mai di “obblighi”:
1. Il servizio di prevenzione e protezione dai rischi professionali provvede:
a) all’individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale;
b) ad elaborare, per quanto di competenza, le misure preventive e protettive di cui all’articolo 28, comma 2, e i sistemi di controllo di tali misure;
c) ad elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali;
d) a proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori;
e) a partecipare alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione periodica di cui all’articolo 35;
f) a fornire ai lavoratori le informazioni di cui all’articolo 36.
2. I componenti del servizio di prevenzione e protezione sono tenuti al segreto in ordine ai processi lavorativi di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle funzioni di cui al presente decreto legislativo.
3. Il servizio di prevenzione e protezione è utilizzato dal datore di lavoro”.
Come è evidente dall’articolo 33, il ruolo del RSPP è quello di “consulente” del datore di lavoro (e infatti il comma 3 è chiarissimo nello specificare che il RSPP “è utilizzato dal datore di lavoro”.
Ben diversi sono gli obblighi a carico del datore di lavoro di cui all’articolo 17 del Decreto (quelli non delegabili) e del datore di lavoro o dei dirigenti (se ad essi sono delegati con l’atto della delega di cui all’articolo 16) di cui all’articolo 18 del Decreto.
Sono pertanto il datore di lavoro e/o i dirigenti quelli che sono investiti dei poteri di spesa e decisionali per attuare le misure di prevenzione e protezione che vengono definiti dal RSPP, in quanto tecnico della sicurezza e consulente, in sede di analisi dei rischi, ma che il RSPP non è in grado di attuare, non avendo tali poteri.
A confermare lo spirito del Decreto in merito alla individuazioni delle responsabilità e dei compiti di datore di lavoro, dirigenti e RSPP sono le definizioni date dall’articolo 2, comma 1.
Infatti la lettera b) definisce il datore di lavoro come “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”.
La lettera d) definisce il dirigente come “persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa”.
Quindi, secondo l’articolo 2 del decreto, datore di lavoro e dirigenti sono coloro che hanno i poteri decisionali e di spesa (illimitati quelli del datore di lavoro, limitati dal contenuto della delega quelli del dirigente).
La lettera f) dell’articolo 2, comma 1 del Decreto definisce invece il RSPP come “persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi
Pertanto il RSPP, in quanto tecnico della salute e della sicurezza qualificato (tramite i requisiti professionali di cui all’articolo 32) coordina il Servizio di Prevenzione e Protezione, per conto del datore di lavoro, senza avere alcun potere decisionale e di spesa.
Infine, relativamente al rapporto della azienda con il RLS, l’articolo 18, comma 1, lettere n), o), p), s) impone che:
Il datore di lavoro [...] e i dirigenti [...] devono:
-         consentire ai lavoratori di verificare, mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, l’applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute;
-         consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento [di valutazione dei rischi];
-         elaborare il documento di cui all’articolo 26, comma 3 [il DUVRI];
-         consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all’articolo 50”.
Sono pertanto il datore di lavoro o il dirigente ad avere l’obbligo di rapportarsi con il RLS, sia in termini di consegna della documentazione aziendale, sia in termini della sua consultazione in merito alla politica aziendale.
In conclusione, il RSPP definisce, in quanto tecnico della salute e della sicurezza, le possibili misure di prevenzione e protezione (interventi su luoghi di lavoro e attrezzature, procedure di sicurezza, fabbisogno formativo, ecc.), ma colui che prende le decisioni su come e quando implementarle è il datore di lavoro e/o il dirigente.
Ovviamente tutto quanto sopra non è valido nel caso (possibile ed effettivamente presente in molte aziende) in cui il RSPP sia anche datore di lavoro oppure dirigente con delega specifica alla sicurezza. In tal caso il RSPP ha sia i compiti definiti dall’articolo 33, sia gli obblighi definiti rispettivamente dagli articoli. 17 e 18.

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NOTA
Nel testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usate i seguenti acronimi e termini:
ASL = Azienda Sanitaria Locale
CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DVR = Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI = Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori in appalto
RSPP = Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS = Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08 o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)



MODULISTICA PER I RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA

Da: Cobas Pisa
20 luglio 2015

Pubblichiamo i link per scaricare modulistica specifica per i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), con un ringraziamento fraterno a Marco Spezia che l’ha resa disponibile.
Si inizia con quelle riguardanti le attribuzioni che l’articolo 50 del D.Lgs.81/08 dà ai RLS e di conseguenze come richiedere alla propria azienda di poter esercitare tali attribuzioni.

In particolare si riporta il link ai files, il cui nome ne indica già il contenuto:
-         RLS richiesta accesso a luoghi di lavoro
-         RLS richiesta consultazione
-         RLS richiesta convocazione riunione articolo 35
-         RLS richiesta documentazione aziendale
-         RLS richiesta erogazione formazione specifica RLS
-         RLS richiesta informazioni servizi di vigilanza

Ovviamente i modelli riportati valgono sia per RLS aziendali eletti o designati, sia per RLS territoriali (basta cambiare il termine da RLS a RLST).
Le lettere vanno indirizzate sempre al datore di lavoro o ai dirigenti, che sono i soggetti con potere decisionale e a cui sono riferiti gli obblighi del D.Lgs.81/08.
Le lettere quindi non vanno indirizzate al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, in quanto egli è un consulente del datore di lavoro e non l’interfaccia tra azienda e lavoratori.

Le lettere andrebbero preferibilmente inoltrate con Raccomandata RR, con raccomandata a mano (con timbro e firma su copia per presa visione o attribuzione di numero di protocollo), oppure con Posta Elettronica Certificata in partenza e in arrivo.
A seguito di mancata risposta da parte dell’azienda, la lettera andrà inoltrata per conoscenza alla servizio SPRESAL (Servizio di Prevenzione della Sicurezza in Ambienti di Lavoro) o servizio simile della ASL competente per territorio, allegando la ricevuta di avvenuta ricezione da parte della azienda.



TARANTO ILVA: UN MARE BOLLENTE DI RINVII A GIUDIZIO NEL PROCESSO “AMBIENTE SVENDUTO”

Da Articolo 21
23 luglio 2015
di Marianeve Santoiemma

In un giorno caldissimo di luglio si è tenuta a Taranto, presso la caserma dei Vigili del Fuoco, l’udienza preliminare del processo “Ambiente Svenduto”, durato circa dieci ore. Il Giudice per l’Udienza Preliminare Vilma Gilli aveva rinviato la decisione al 23 luglio. Avevano parlato i difensori e per l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola era stato chiesto il non luogo a procedere per insussistenza del fatto, per inutilizzabilità delle dichiarazioni rese a sommarie informazioni testimoniali in quanto fornite senza le garanzie della presenza del legale di fiducia.

La Procura di Taranto aveva intimato lo spegnimento immediato dell’altoforno 2 all’ILVA. Il custode giudiziario del siderurgico, Barbara Valenzano, aveva chiesto all’azienda di attuare il Decreto di sequestro preventivo senza facoltà d’uso emesso dai Pubblici Ministeri quando si è verificato l’incidente ad Alessandro Morricella che ne ha causato la morte a giugno, e aveva chiesto inoltre di essere informata entro il 24 luglio circa l’attuazione del cronoprogramma relativa allo spegnimento dell’altoforno killer.

Le attese erano grandi per il GUP che si doveva esprimere giovedì 23 luglio su 47 richieste di rinvio a giudizio avanzate dalla Procura e contro 44 persone e 3 società nell’inchiesta “Ambiente Svenduto” relativa al disastro ambientale che ILVA ha causato a una intera città e a una comunità che ancora non vede fine a una giustizia negata. 52 imputati, alcuni avevano scelto di patteggiare e attendevano giudizio con rito abbreviato. Emilio Riva, patron dell’ILVA, era il cinquantatresimo imputato, ma è deceduto.

In attesa di conoscere chi e se sarebbero stati i rinviati a giudizio, gli assolti e i condannati, si ricordano i nomi, importanti, tra cui l’ex assessore all’Ambiente della Regione Puglia Lorenzo Nicastro, parte dell’ultima giunta di Nichi Vendola, l’ex governatore, l’ex consigliere regionale Nicola Fratoianni, l’ex Presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido, l’ex sindaco di Taranto Ezio Stefàno, il Direttore Generale dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato, l’ex segretario dell’ex Arcivescovo di Taranto, Monsignor Marco Gerardo, il consigliere regionale della Puglia, Donato Pentassuglia, i proprietari dell’ILVA, Nicola e Fabio Riva, l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, dirigenti dell’ILVA, sono accusati di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale. Nichi Vendola è imputato per concussione aggravata in concorso con Fabio Riva. Ezio Stefàno, Sindaco di Taranto, sarebbe imputato per omissione di atti d’ufficio.

Sono circa 800 le parti civili ammesse al processo, tra cui associazioni ambientaliste, i parenti delle vittime, operai deceduti, sindacati, istituzioni tra cui il Comune, la Provincia di Taranto, la Regione Puglia e i ministeri di Salute e Ambiente.

E questo giovedì 23 luglio bollente si è rivelato per molti degli imputati, perché la decisone del GUP è giunta prima dell’ora di pranzo, quando la colonnina di mercurio segnava 40 gradi a Taranto e del cuore di chi attendeva nemmeno i battiti più si percepivano...ed è la decisione che tutti coloro che in questo processo hanno scritto pagine e pagine di parole, spesso raccontando di anime volate via col nome ILVA sulle labbra, implorando giustizia, chiedendo nelle notti insonni, trascorse sulle carte per capire dove e come provare la connessione tra inquinamento e morte, tra giustizia negata e Stato silente, tra corruzione e collusione, tra chi vedeva e taceva e chi subiva e moriva...una sola cosa...la verità, quella si cercava.

E la verità adesso emergerà nel processo perché il GUP ha deciso, assolvendo qualcuno, condannando qualcuno, ma rinviando tutti gli altri, coloro che in Regione, Provincia e Comune decidevano, di agire o meno, di parlare o meno, di salvare questo territorio e tutte le sue anime...o meno.

Assolto l’ex assessore all’Ambiente della Regione Puglia Lorenzo Nicastro perché il fatto non sussiste. Per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato c’è Monsignor Marco Gerardo ex segretario dell’ex Arcivescovo di Taranto Monsignor Benigno Luigi Papa, condannato a dieci mesi di reclusione, pena sospesa per le condizioni della legge.

La lettura delle decisioni del GUP Gilli è la seguente: “dispone il rinvio a giudizio per tutti i restanti imputati per l’udienza dinnanzi alla Corte d’Assise del Tribunale di Taranto che si terrà il 20 ottobre prossimo, aula Alessandrini ovvero luogo diverso che verrà indicato nel decreto che dispone il giudizio”.

Il Procuratore Capo della Repubblica Franco Sebastio ha dichiarato: “Sembra che l’istanza accusatoria che portiamo avanti dal mio ufficio abbia trovato quasi completo, totale accoglimento nella decisione del giudice dell’udienza preliminare. Questa pronuncia ci rassicura un po’. A quanto pare errori madornali non ne avremmo commessi”.

Ora tutti al mare, gli assolti felici, i rinviati forse un po’ preoccupati, e tutti coloro che di questo processo conoscono anche le pause e i silenzi attenderanno questo 20 ottobre per vedere quale verità verrà fuori e quanti avranno il coraggio e la dignità di lasciare per un attimo poltrone e incarichi per difendersi e restituire senso a ruoli e funzioni, facendo quel gesto che ogni persona sensibilmente dotata di ragionevolezza dovrebbe compiere, quel difficile ma doveroso passo indietro perché Regione, Provincia e Comune sono istituzioni pubbliche e di trasparenza e onestà dovrebbero essere vestite.



QUALI SONO LE RESPONSABILITA’ DEI LAVORATORI IN MATERIA DI SICUREZZA?

Da: PuntoSicuro
22 luglio 2015
di Tiziano Menduto

Un saggio di Olympus si sofferma sul ruolo, sugli obblighi e le responsabilità del lavoratore in materia di sicurezza sul lavoro. Focus sui casi di assenza di responsabilità, di responsabilità concorrente o di responsabilità esclusiva del lavoratore.

Se in questi anni il legislatore ha dato rilevanza al ruolo del lavoratore, al suo essere soggetto attivo della sicurezza, in tema di responsabilità gli inadempimenti del lavoratore vengono ora a determinare una inevitabile ricaduta sugli altri soggetti obbligati e incidono sulla imputazione e ripartizione delle responsabilità in ordine all’evento dannoso.

Ad affrontare il tema della responsabilità del lavoratore, con particolare riferimento agli orientamenti giurisprudenziali e al D.Lgs.81/08, è un Working Paper, pubblicato da Olympus nel mese di giugno 2014, dal titolo “L’individuazione e le responsabilità del lavoratore in materia di sicurezza sul lavoro” a cura di Mariantonietta Martinelli (Avvocato del Foro di Trani, Specialista in Diritto del Lavoro e Sicurezza Sociale presso l’ Università di Bari).

Affrontiamo il tema della responsabilità, partendo dalla possibilità di assenza di responsabilità del lavoratore.

Il breve saggio ricorda innanzitutto che condizione necessaria e sufficiente per la configurabilità di responsabilità in capo al lavoratore inadempiente agli obblighi di sicurezza è che il datore di lavoro abbia, a sua volta, adempiuto agli obblighi, soggettivi e oggettivi, posti dalla legge a suo carico, in particolare, degli obblighi di prevenzione tecnica e organizzativa, di informazione e formazione e, infine, di vigilanza e controllo.
E dunque secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, il datore di lavoro è sempre considerato responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non avendo alcun effetto esimente, per l’imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni, l’eventuale concorso di colpa del lavoratore. In poche parole l’inosservanza delle norme prevenzionali (da parte di datore di lavoro, dirigente e preposto) ha valore assorbente rispetto al comportamento del lavoratore, la cui condotta, pertanto, può assumere rilevanza, solo dopo che da parte dei soggetti obbligati, siano state adempiute le prescrizioni di loro competenza.

E dunque non potrà essere ascrivibile alcuna responsabilità al lavoratore dal momento che tale evento lesivo è da ricondurre proprio alle omissioni e/o alle mancate o insufficienti misure e cautele approntate dal datore di lavoro e dai suoi collaboratori, e nessuna rilevanza, in tali condizioni, assume il comportamento del lavoratore che, per quanto negligente o persino assurdo, non risulti imprevedibile, ad esempio, perché già ripetutamente tollerato in precedenza (Sentenza di Cassazione Penale, n. 21205 del 31 maggio 2012).

Sono segnalate, tuttavia, alcune pronunce che, riguardo alla responsabilità civile, hanno evidenziato, pur in caso di inadempimento all’obbligo di sicurezza da parte dello stesso datore di lavoro, l’importanza di un’indagine preventiva sul nesso di causalità in presenza di un concorso di cause colpose o di cooperazione colposa del lavoratore, giungendo, in tali casi, a ridurre proporzionalmente, ma non a escludere, la misura della responsabilità datoriale.

In ogni caso i risultati raggiunti dalla giurisprudenza, ai fini della individuazione della responsabilità e della colpa del datore di lavoro, attribuiscono in sostanza rilevanza decisiva all’elemento della prevedibilità e della evitabilità dell’evento dannoso verificatosi, con l’ordinaria diligenza professionale, richiesta al datore di lavoro ai sensi del D.Lgs.81/08 (Sentenza di Cassazione Civile, n. 8861 del 11 aprile 2013).

Veniamo ora alla situazione di responsabilità concorrente del lavoratore.

Se dunque i principali soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza abbiano adempiuto ai propri doveri/obblighi di informazioni, formazione, preparazione e cooperazione, può assumere rilevanza, nella imputazione e ripartizione delle responsabilità, il comportamento inadempiente agli obblighi di sicurezza del lavoratore, che se pur non esonera il datore di lavoro da responsabilità, ben può cooperare colposamente a causare l’evento dannoso. La prestazione resa dal lavoratore senza l’osservanza delle prescrizioni per la tutela e la salute della sicurezza del lavoro pone, infatti, in essere una condotta inadempiente che pur non essendo sufficiente a far venir meno la responsabilità del datore, concorre con essa. Si determina, in tal caso, un concorso di cause colpose. E la condotta colposa del lavoratore dovrà essere valutata in relazione alla violazione e alle mancanze del datore di lavoro e degli altri soggetti obbligati.

Se, come abbiamo visto in precedenza, il lavoratore ha diritto di aspettarsi che il datore di lavoro lo metta nelle condizioni migliori per lavorare, il datore di lavoro ha, da parte sua, il corrispondente diritto di attendersi, una volta compiuto quanto gli spetta, che il lavoratore faccia quel che deve. Il datore di lavoro ha insomma diritto di fare affidamento sull’esatto adempimento da parte del lavoratore del proprio dovere.

Ricordiamo che il datore di lavoro è chiamato a vigilare e controllare il lavoratore nell’espletamento della sua prestazione. Egli dovrà verificare, in particolare, che i lavoratori rispettino la normativa e le disposizioni impartite, utilizzino i mezzi e i dispositivi di protezione ricevuti in dotazione e sfuggano alla tentazione, sempre presente, di compiere atti o manovre rischiose, ovvero instaurino prassi di lavoro non corrette, potendo il medesimo datore, non essere chiamato a rispondere, ancorché in concorso con il lavoratore, solo ove dimostri di aver vigilato attivamente sul suo operato, ovvero rimanendone corresponsabile, ove il lavoratore, intenzionalmente, sia venuto meno al suo obbligo formativo.

Ma fino a che punto deve spingersi l’attività di controllo e di vigilanza del datore di lavoro?
Una recente sentenza (Sentenza di Cassazione Civile, n. 20597 del 22 novembre 2012) ha affermato che l’obbligo di vigilanza non implica un controllo costante su ogni lavoratore né il dovere di assicurare la presenza del preposto dietro ogni lavoratore o di organizzare il lavoro in modo da moltiplicare verticalmente i controlli fra dipendenti, richiedendosi, solo, una diligenza rapportata al concreto lavoro da svolgere e, cioè, alla ubicazione del medesimo, all’esperienza e specializzazione del lavoratore, alla sua autonomia, alla prevedibilità della sua condotta, alla normalità della tecnica di lavorazione. Condivisibile è il ragionamento di chi ha sostenuto che l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro debba essere interpretato tenendo conto del livello di competenza acquisita dal lavoratore anche grazie alla formazione ricevuta.

Se in definitiva con la sua condotta avventata, disattenta ovvero negligente, imprudente o imperita, il lavoratore adeguatamente informato e formato abbia determinato o contribuito a causare l’evento dannoso, ne risponderà in termini di concorso di colpa e il datore di lavoro che resta il principale soggetto obbligato (sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e non vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente), vedrà una proporzionale riduzione delle sue responsabilità.

Concludiamo con alcuni cenni al caso della responsabilità esclusiva del lavoratore.

Secondo l’orientamento della giurisprudenza, è ravvisabile una responsabilità esclusiva del lavoratore, in caso di dolo (che in questa materia si identifica con l’autolesionismo) o di cosiddetto rischio elettivo, da lui posti in essere (un rischio ravvisabile ad esempio quando l’attività svolta non sia relazionabile con la prestazione lavorativa o si spinga ben oltre i limiti della stessa).

E anche lo svolgimento di attività potenzialmente rischiose può determinare una sua condotta gravemente colposa che, se ha avuto efficacia determinante, nella causazione dell’evento, determina il sorgere di responsabilità esclusiva a suo carico: il lavoratore deve rispettare l’obbligo di adottare le modalità che si appalesino, in concreto, le meno pericolose, ovvero deve astenersi dallo svolgimento delle stesse.
Ed è ravvisabile una sua responsabilità esclusiva quando il suo comportamento, per il carattere anomalo o esorbitante, rispetto alle sue mansioni o alle procedure aziendali e/o alle direttive organizzative ricevute, risulti del tutto imprevedibile e, come tale, inevitabile, nonostante la corretta e puntuale attuazione in azienda del sistema prevenzionale voluto dalla legge.

Quindi, per assumere i connotati di unica causa efficiente dell’evento il lavoratore deve mettere in atto un comportamento abnorme e, dunque, fuori da qualsiasi controllo da parte delle persone preposte: deve essere stato posto in essere, ad esempio, del tutto autonomamente e al di fuori delle mansioni attribuitegli (e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro), ovvero deve essere consistito in qualcosa di assolutamente imprevedibile da parte del datore di lavoro, ovvero pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte che il lavoratore potrebbe compiere nella esecuzione del lavoro, ovvero, infine, deve essere stato realizzato dal lavoratore con dolo, cioè con la consapevolezza di violare le cautele impostegli.

In definitiva è necessario dunque che il lavoratore abbia posto nel nulla situazioni di pericolo create dal datore di lavoro o eliminandole o modificandole in modo tale da non poter essere più a quest’ultimo attribuite: in tal caso, pur essendo la condotta del datore di lavoro (o degli altri suoi collaboratori responsabilizzati dalla normativa) colposa e, persino, di per sé idonea a causare l’evento dannoso, essendo intervenuto, successivamente, un comportamento del lavoratore assolutamente eccezionale, esorbitante e imprevedibile, quella condotta datoriale non assume efficienza causale rispetto all’evento, restandone il lavoratore l’unico responsabile.

Il documento di Olympus - Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro “L’individuazione e le responsabilità del lavoratore in materia di sicurezza sul lavoro” è scaricabile all’indirizzo:



PREVENZIONE INCENDI: L’ANALISI DEL RISCHIO E LE MISURE DI SICUREZZA

Da: PuntoSicuro
23 luglio 2015
        
Un documento si sofferma sulle diverse fasi dell’analisi del rischio per la prevenzione incendi. Focus sull’esame dei pericoli, sulla scelta degli obiettivi e sui criteri di dimensionamento delle vie esodo.

Un’analisi storica degli incidenti che hanno provocato incendi permette di affermare che, laddove sono note le cause, quasi sempre l’evento incidentale è evitabile se sono applicate in modo appropriato l’esperienza e le conoscenze esistenti. Inoltre nella grande maggioranza degli incidenti ci sono omissioni nella organizzazione e nella gestione della sicurezza (carenza di cultura della sicurezza, procedure di sicurezza non osservate e/o insufficienti, ecc.). Senza dimenticare che una significativa quota di incidenti si verifica durante gli interventi di manutenzione e che proprio l’analisi e lo studio degli incidenti ha permesso in questi di suggerire l’adozione di utili modifiche e miglioramenti impiantistici.

A sottolineare quanto sia importante migliorare la prevenzione degli incendi in Italia, partendo da una corretta analisi dei rischi, è un documento correlato al corso “Scienza e tecnica della prevenzione incendi” del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’ Università di Pisa.

Il documento, dal titolo “Analisi del Rischio e Individuazione misure di sicurezza equivalenti” a cura di Claudio Chiavacci (Comando Provinciale Vigili del Fuoco Livorno) affronta innanzitutto nel dettaglio le diverse fasi dell’analisi del rischio incendio.

La procedura di analisi prevede la conoscenza del vocabolario/definizioni.
E’ infatti necessario tener conto del “vocabolario” della prevenzione incendi, ad esempio con riferimento al Decreto Ministeriale 30 novembre 1983 (e successive modifiche e integrazioni) che contiene termini, definizioni, definizioni generali e simboli grafici di prevenzione incendi, coordinato con le modifiche e le integrazioni introdotte dal Decreto Ministeriale 9 marzo 2007.

Un secondo punto della procedura riguarda gli obiettivi della sicurezza antincendio, che sono:
-         minimizzare le occasioni di incendio;
-         garantire la stabilità delle strutture portanti per il tempo necessario ad assicurare il soccorso degli occupanti;
-         garantire limitata propagazione del fuoco e fumo all’interno delle opere e alle opere vicine;
-         garantire l’allontanamento degli occupanti ovvero assicurare che gli stessi siano soccorsi in altro modo;
-         assicurare che le squadre di soccorso possano operare in condizioni di sicurezza.

Si arriva poi all’esame dei “pericoli” di incendio, ad esempio con riferimento a:
-         criticità delle sostanze (caratteristiche chimico-fisiche, instabilità, reattività, ecc.);
-         analisi, secondo quanto sopra, delle sostanze allo stato liquido o gassoso: analisi delle possibili sorgenti di emissione di sostanze pericolose (e valutazione qualitativa della probabilità di rilasci ipotizzabili); stima delle portate di emissione e tempi di intervento per intercettazione; stima della estensione delle zone pericolose (eventuale presenza sistemi contenimento secondari, sistemi di allontanamento rilasci, sistemi per facilitare vaporizzazione, ecc.); valutazione delle condizioni di ventilazione .
-         analisi, secondo quanto sopra dei combustibili solidi: individuazione delle aree di accumulo; separazione delle aree di accumulo; quantitativi (massimi) presenti; grado di suddivisione e di confinamento; estensione delle zone pericolose (al cui interno devono essere adottate appropriate misure di controllo delle sorgenti di ignizione e di estinzione e protezione antincendio);
-         condizioni operative (quantità, pressione, portata, temperatura, grado di suddivisione, presenza di comburenti e/o sostanze incompatibili, ecc.);
-         entità e vulnerabilità dei soggetti e dei beni esposti (danni attesi);
-         possibili effetti propagativi dell’evento (effetti domino).

Successivamente vengono le fasi di scelta degli obiettivi di sicurezza e di compensazione del rischio incendio.
Riguardo a queste due fasi nel documento sono riportati vari dettagli relativi agli obiettivi e alle possibili misure costruttive, impiantistiche e gestionali.
In particolare l’autore si sofferma sulla resistenza al fuoco, sulla compartimentazione, sul numero e posizionamento degli estintori portatili, sulla reazione al fuoco, sulle distanze di sicurezza e sull’ evacuazione dai luoghi di lavoro.

Riguardo, ad esempio ai criteri di dimensionamento delle vie esodo, l’autore segnala che:
-         ogni luogo di lavoro deve disporre di vie di uscita alternative (ad eccezione di quelli di piccole dimensioni o dei locali a rischio di incendio medio o basso);
-         ciascuna via di uscita deve essere indipendente dalle altre e distribuita in modo che le persone possano allontanarsi ordinatamente;
-         dove è prevista più di una via di uscita, la lunghezza del percorso per raggiungere la più vicina uscita di piano non dovrebbe essere superiore a: 15/30 metri (tempo massimo di evacuazione 1 minuto) per aree a rischio di incendio elevato; 30/45 metri (tempo massimo di evacuazione 3 minuti) per aree a rischio di incendio medio; 45/60 metri (tempo massimo di evacuazione 5 minuti) per aree a rischio di incendio basso;
-         le vie di uscita devono sempre condurre a un luogo sicuro;
-         i percorsi di uscita in un’unica direzione devono essere evitati per quanto possibile; qualora non possano essere evitati, il documento indica i limiti relativi alla distanza da percorrere fino a una uscita di piano o fino al punto dove inizia la disponibilità di due o più vie di uscita;
-         le vie di uscita devono avere larghezza sufficiente in relazione al numero degli occupanti; la larghezza va misurata nel punto più stretto del percorso;
-         devono essere disponibili un numero sufficiente di uscite di adeguata larghezza da ogni locale e piano dell’edificio;
-         le scale devono normalmente essere protette dagli effetti di un incendio tramite strutture e porte resistenti al fuoco; le porte devono essere dotate di dispositivo di autochiusura, ad eccezione dei piccoli luoghi di lavoro a rischio di incendio medio o basso, quando la distanza da un qualsiasi punto del luogo di lavoro fino all’uscita su luogo sicuro non superi rispettivamente, come ordine di grandezza, i valori di 45 e 60 metri (30 e 45 metri nel caso di una sola uscita);
-          le vie di uscita e le uscite di piano devono essere sempre disponibili per l’uso e tenute libere da ostruzioni in ogni momento;
-         ogni porta sul percorso di uscita deve poter essere aperta facilmente ed immediatamente.

E comunque nella scelta della massima lunghezza dei percorsi di esodo bisogna attestarsi, a parità di rischio, verso i livelli più bassi nei casi in cui il luogo di lavoro sia:
-         frequentato da pubblico (scarsa familiarità con ambienti);
-         utilizzato prevalentemente da persone che necessitano di assistenza in caso di emergenza (soggetti vulnerabili);
-         utilizzato quale area di riposo (tempi reazione più alti);
-         utilizzato quale area dove sono depositati e/o manipolati materiali infiammabili (rapidità sviluppo incendio, tempi fermata di emergenza).
Il documento fornisce indicazioni anche sul numero delle uscite di piano, sulla larghezza delle uscite e sull’illuminazione di sicurezza.

Concludiamo segnalando che il documento si sofferma infine sull’importanza di verificare la conformità delle opere alle norme cogenti, sul controllo della adeguatezza delle misure adottate e sulle misure di sicurezza equivalenti in riferimento a scelte di strategia antincendio “alternative”.

Il documento “Analisi del Rischio e Individuazione delle misure di sicurezza equivalenti”, a cura di Claudio Chiavacci (Comando Provinciale Vigili del Fuoco Livorno) è scaricabile all’indirizzo:

L’ILLUMINAZIONE NATURALE E ARTIFICIALE DEGLI AMBIENTI DI LAVORO

Da: PuntoSicuro
24 luglio 2015
di Tiziano Menduto

Indicazioni su come realizzare un’idonea illuminazione naturale e artificiale degli ambienti di lavoro. Le grandezze fotometriche, il confort visivo, la distribuzione delle luminanze, l’uniformità dell’illuminamento e l’abbagliamento.

L’allegato IV del D.Lgs.81/08 (Requisiti dei luoghi di lavoro) riporta molte indicazioni sull’illuminazione naturale e artificiale degli ambienti di lavoro. Ad esempio si indica che, se non sia richiesto dalle necessità delle lavorazioni e salvo che non si tratti di locali sotterranei, i luoghi di lavoro devono disporre di sufficiente luce naturale. In ogni caso, tutti i predetti locali e luoghi di lavoro devono essere dotati di dispositivi che consentano un’illuminazione artificiale adeguata per salvaguardare la sicurezza, la salute e il benessere di lavoratori. E inoltre gli impianti di illuminazione dei locali di lavoro e delle vie di circolazione devono essere installati in modo che il tipo d’illuminazione previsto non rappresenti un rischio di infortunio per i lavoratori. E, ancora, i luoghi di lavoro nei quali i lavoratori sono particolarmente esposti a rischi in caso di guasto dell’illuminazione artificiale, devono disporre di un’illuminazione di sicurezza di sufficiente intensità.

Per affrontare il tema dell’illuminazione nei luoghi di lavoro riprendiamo la presentazione del seminario tecnico dal titolo “Criteri e strumenti per l’individuazione e l’analisi dei rischi”, organizzato dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma in collaborazione con l’Università degli Studi Roma Tre il 23 Maggio 2015 a Roma. Un seminario che ha presentato le tematiche legate ai criteri e agli strumenti utili alla valutazione dei rischi per i lavoratori, con particolare riferimento alle problematiche dell’illuminazione, delle vibrazioni e delle radiazioni ottiche artificiali coerenti e incoerenti.

Nell’intervento “Illuminazione”, a cura dell’ingegner Maurizio Tancioni, vengono presentati non solo tutti i vari punti dell’Allegato IV del Testo Unico concernenti l’illuminazione, ma vengono altresì ricordate le varie grandezze fotometriche utili per attuare consapevolmente idonee strategie di illuminazione e di valutazione dell’illuminazione degli ambienti.
Riportiamo alcune delle grandezze ricordate nell’intervento:
-         flusso luminoso: potenza luminosa emessa da una sorgente, quantità di luce emessa da una sorgente nell’unità di tempo, unità di misura lumen (lm);
-         efficienza luminosa: esprime il rendimento di una lampada o di un apparecchio illuminante, è il rapporto tra flusso luminoso emesso (lumen) e potenza elettrica assorbita (watt);
-         intensità luminosa: esprime il flusso luminoso di una sorgente in una specifica direzione, unità di misura candele (cd=lumen/steradiante).
Inoltre bisogna ricordare che l’illuminamento E è dato dal rapporto tra il flusso luminoso irradiato e la superficie illuminata. Esprime quanto agevolmente l’occhio può vedere e la unità di misura è il lux [lx]. Mentre la luminanza esprime la quantità di luce che una superficie illuminata riflette verso l’occhio dell’osservatore (che sta guardando in quella direzione), con unità di misura cd/m2.
L’intervento si sofferma anche su altre grandezze, quali: rapporto di luminanza, fattore di contrasto, temperatura di colore, indice generale di resa cromatica, ecc..

L’illuminazione di un ambiente di lavoro deve garantire: buona visibilità, confort visivo e sicurezza.
E deve fornire condizioni ottimali per lo svolgimento del compito visivo richiesto, anche quando si distoglie lo sguardo dal compito o per riposo o per variazione del compito.

Parliamo della luce naturale.

L’intervento ricorda che nell’illuminazione degli ambienti l’impiego della luce diurna è importante sia per la qualità della visione e le caratteristiche di gradevolezza e accettazione da parte degli occupanti, che per ragioni connesse al risparmio energetico. Il contributo della luce naturale nell’illuminazione degli interni va inoltre privilegiato in quanto la presenza nell’involucro di un edificio di aperture verso l’esterno permette di cogliere le modulazioni del ciclo della luce a cui sono legate importanti funzioni fisiologiche e di mantenere un legame visivo col mondo circostante che è un bisogno psicologico elementare dell’uomo.
Tuttavia la luce diurna naturale è caratterizzata anche da variazioni nel tempo di quantità, composizione spettrale e direzione e il suo ingresso negli ambienti confinati dipende da diversi fattori (località, orientamento dell’edificio, orientamento e caratteristiche delle chiusure trasparenti, presenza nell’intorno di edifici o altri elementi del paesaggio, ecc.).
E la luce naturale può dare abbagliamento a seconda della:
-         luminanza della porzione di cielo inquadrata dalla superficie vetrata;
-         posizione e dimensione della superficie vetrata;
-         contrasto di luminanza tra le superfici interne;
-         presenza di superfici riflettenti esterne o interne.
C’è la possibilità di valutare il disturbo causato da superfici luminose estese quali le finestre. Ad esempio è utilizzato l’indice DGI (Daylight Glare Index) che può essere calcolato con le modalità indicate nell’Appendice B della norma UNI 10840:2000.

Veniamo all’illuminazione artificiale.

L’ illuminazione artificiale, ricorda l’intervento, è quella prodotta dall’insieme dei corpi illuminanti intenzionalmente introdotti per lo svolgimento dei compiti visivi richiesti in quel determinato luogo e per compensare la carenza o l’assenza di illuminazione naturale.
Queste sono alcune caratteristiche dell’ambiente di cui tener conto: distribuzione delle luminanze, illuminamento, abbagliamento, aspetti del colore, calore apparente della luce.

Si ricorda che la distribuzione delle luminanze all’interno del campo visivo influenza il grado di impegno degli organi oculari e conseguentemente la visibilità ed il confort. Per evitare l’affaticamento visivo dovuto a ripetuti e continui processi di adattamento, va realizzata una distribuzione equilibrata delle luminanze, evitando variazioni e discontinuità accentuate tra le diverse aree del campo visivo e tenendo conto dell’importanza che hanno le superfici riflettenti presenti nell’ambiente. In particolare la norma UNI EN 12464-1:2004 consiglia, per le principali superfici di un ambiente, idonei intervalli per i fattori di riflessione.
Si definisce poi illuminamento medio mantenuto (Em) quel valore di illuminamento al di sotto del quale l’illuminamento medio su una specifica superficie non può mai scendere.

Il relatore ricorda inoltre che i valori di illuminamento tra l’area oggetto del compito visivo e quelli della zona immediatamente circostante (intesa come fascia di almeno 0,5 m di larghezza intorno alla zona del compito all’interno del campo visivo) non devono discostarsi eccessivamente per evitare l’insorgere di affaticamento visivo e disturbi da abbagliamento.
E una buona progettazione deve prevedere sia all’interno della zona del compito che in quella immediatamente circostante, una buona uniformità di illuminamento.
Il documento agli atti, relativo all’intervento in oggetto, riporta diverse tabelle relative ai parametri di cui tenere conto nell’illuminazione di un ambiente lavorativo.

L’intervento si sofferma anche sulla valutazione dell’abbagliamento molesto direttamente prodotto da apparecchi di illuminazione artificiale (si utilizza l’indice unificato di abbagliamento UGR, Unified Glare Rating), ricordando che i valori limite dell’UGR sono previsti dalla norma UNI EN 12464-1:2004 per ogni specifico tipo di interno, compito o attività visiva (per impianti di illuminazione non recenti e dotati di corpi illuminanti sprovvisti di UGR, si può far riferimento alla norma UNI 10380:1994).

Infine si fa cenno anche al calore apparente della luce.
Infatti ogni tipo di lampada emette luce di diversa tonalità a seconda della distribuzione spettrale della radiazione emessa ed è contraddistinta da una propria temperatura di colore.
Questo parametro, espresso in kelvin (K), è usato per individuare e classificare il colore apparente della luce emessa da una sorgente luminosa: colore apparentemente caldo (< 3.300 K), colore apparente neutro da 3.300 K a 5.300 K e colore apparente freddo (> 5.300 K).

Concludiamo ricordando che l’intervento si sofferma anche sull’illuminazione di sicurezza e su come valutare l’illuminazione nei luoghi di lavoro.

Il documento “Illuminazione”, a cura dell’ingegner Maurizio Tancioni, intervento al seminario “Criteri e strumenti per l’individuazione e l’analisi dei rischi” è scaricabile all’indirizzo:



LA CORRESPONSABILITA’ DEL RSPP CON IL DATORE DI LAVORO PER UN INFORTUNIO

Da: PuntoSicuro
27 luglio 2015
di Gerardo Porreca

La colpa professionale del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) concorre con quella dell’imprenditore in relazione agli eventi dannosi derivanti dai suoi suggerimenti errati o dalla mancata segnalazione di una situazione di rischio.

E’ ormai consolidata la posizione della Corte di Cassazione in merito alla individuazione della responsabilità del RSPP con riferimento a un infortunio sul lavoro occorso nell’azienda presso la quale svolge la propria attività, posizione ribadita di recente del resto dalle Sezioni Unite della stessa Corte di Cassazione in occasione della sentenza n. 38343 del 24/04/14 relativa alla vicenda della Thyssen-Krupp.

Il RSPP, ha sostenuto infatti la suprema Corte nella sentenza in commento, pur svolgendo all’interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale, ma di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente all’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, disincentivando, se necessario, eventuali soluzioni economicamente più convenienti, ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri.

La Corte di Appello ha riformata una sentenza emessa dal Tribunale, limitatamente alla misura della pena, ridotta a mesi quattro di reclusione a seguito di giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante, con la quale era stato condannato il RSPP di una azienda, responsabile del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni di un dipendente, avendo omesso lo stesso di far predisporre idonee misure a tutela dei lavoratori addetti all’impianto di laminazione dell’azienda. L’infortunio era stato così ricostruito dai giudici di merito: il ciclo produttivo della laminazione comprendeva tre fasi destinate alla formazione di lingotti d’acciaio, alla trasformazione di essi in verghe e alla fase di raffreddamento nella quale transitavano per una via a rulli, coperta in un primo tratto e munita solo di ripari verticali nell’ulteriore tratto. Il lavoratore, in quest’ultima fase, dopo aver rimosso un incaglio, si era avvicinato alla linea di laminazione per verificarne il funzionamento ed era stato trafitto da una verga di acciaio uscita dal canale di scorrimento che lo aveva infilzato alla nuca.

Il giudice di primo grado aveva ritenuto l’imputato responsabile della mancata predisposizione di misure tecnico-organizzative che evitassero, durante il ciclo produttivo in corso, l’accesso alla linea di laminazione dei lavoratori addetti al controllo. La Corte territoriale, dopo aver sottolineato che la ricostruzione dell’infortunio operata dal primo giudice non fosse contestata, ha condiviso la centralità del profilo di colpa inerente alle misure di protezione finalizzate a salvaguardare l’incolumità del lavoratore che, per qualsivoglia motivo, si fosse avvicinato alla linea di laminazione sporgendosi all’interno di essa. Il giudice di appello ha, in proposito, ritenuto che le misure adottate non fossero idonee a precludere in modo assoluto il transito dei lavoratori nella zona alla quale il lavoratore deceduto aveva avuto accesso, deducendo ciò dal fatto che la totale segregazione di tale zona fosse stata attuata dal datore di lavoro dopo l’infortunio, con l’aggiuntiva misura per cui l’ingresso all’area segregata era stato vincolato da un sistema automatico che consentiva l’accesso soltanto a laminatoio fermo.

Avverso la sentenza della Corte di Appello l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione censurando la sentenza impugnata per diversi motivi. Lo stesso ha fatto presente che, avendo la società datrice di lavoro apportato prima dell’infortunio rilevanti modifiche all’impianto di laminazione, ottemperando alle prescrizioni date dall’Azienda Sanitaria Locale, i dirigenti della società e lui stesso avevano la ragionevole convinzione che l’impianto fosse conforme alle esigenze di sicurezza, anche perché stabilimenti con analoga attività produttiva avevano anch’essi l’impianto non completamente segregato. La società aveva già dato inoltre precise e rigorose direttive in base alle quali in caso di incaglio si sarebbe dovuta rispettare una procedura di intervento secondo la quale la rimozione di un incaglio doveva essere effettuata solo dopo che l’impianto di lavorazione fosse stato fermato.

La Corte di Appello, ha inoltre sostenuto il ricorrente, aveva fondato il giudizio di una sua condotta colposa sul solo fatto che questi non avesse proposto la segregazione totale dell’impianto, mentre avrebbe dovuto invece accertare quali fossero i sistemi più sicuri suggeriti nelle facoltà universitarie di ingegneria e realizzati nell’industria italiana ed estera di produzione e lavorazione dell’acciaio, potendosi fondare tale giudizio solo sulla non conformità dell’impianto a quelli ritenuti più sicuri secondo la miglior scienza e la migliore tecnica nel periodo precedente il verificarsi dell’infortunio. L’imputato ha fatto presente, altresì, di non avere nessuna responsabilità di natura penale non avendo il potere di decidere la modifica dell’impianto di laminazione e ha sostenuto, con riferimento alla inosservanza dell’articolo 40, secondo comma del codice penale, che la sentenza sarebbe erronea perché non può configurarsi un obbligo giuridico di impedire l’evento a carico di colui che, per mancanza di poteri decisionali, non abbia il potere di impedirlo.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato e lo ha pertanto rigettato. La stessa con specifico riferimento alla responsabilità del RSPP ha richiamato alcuni principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità. La Sezione IV ha ricordato che recentemente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite “ha ribadito il principio interpretativo secondo il quale il RSPP, pur svolgendo all’interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente all’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all’occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti, ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri (Sentenza di Cassazione n. 38343 del 24/04/14)”.

“Più in generale” - ha quindi proseguito la suprema Corte - “con riguardo all’elemento soggettivo del reato, si è chiarito che il soggetto al quale sono stati affidati i compiti del servizio di prevenzione e protezione, previsti dall’articolo 9 del D.Lgs.626/94, può essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile a una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare. Ciò sul presupposto che il sistema prevenzionistico voluto dal legislatore affida alla informazione e alla prevenzione, organizzate in un servizio obbligatorio, un fondamentale compito per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. La necessità di competenze specifiche e di requisiti professionali fissata dall’articolo 8 bis del D.Lgs.626/94 per i Responsabili e gli Addetti al Servizio in questione è il miglior riscontro della centralità della prevenzione e della informazione nel sistema di tutela della integrità fisica e della personalità morale dei lavoratori”.

“La Corte di Appello” - ha così concluso la suprema Corte - “ha poi indicato i compiti richiesti dalla legge al RSPP ritenendo che, pur in assenza di sanzioni penali specificamente previste dalla legge a suo carico, la sua responsabilità penale derivasse dall’obbligo giuridico di lavorare con il datore di lavoro individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, concorrendo la colpa professionale del RSPP con quella dell’imprenditore in relazione agli eventi dannosi derivanti da suoi suggerimenti errati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio. Il giudice di appello, ha quindi correttamente affermato che, nel sistema elaborato dal legislatore, si presume che alla segnalazione di una situazione pericolosa da parte del RSPP segua l’adozione delle misure necessarie per ovviarvi da parte del datore di lavoro”.

La Sentenza della Corte di Cassazione Penale Sezione IV n.27006 del 25 giugno 2015 è consultabile al link:

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