SICUREZZA SUL
LAVORO: KNOW YOUR RIGHTS!
NEWSLETTER N. 221
DEL 27/07/15
NEWSLETTER PER LA TUTELA DELLA SALUTE
E DELLA
SICUREZZA DEI LAVORATORI
INDICE
LE “FREQUENTLY ASKED
QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS - N.3
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1
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MODULISTICA PER I RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA
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5
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TARANTO ILVA: UN
MARE BOLLENTE DI RINVII A GIUDIZIO NEL PROCESSO “AMBIENTE SVENDUTO”
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6
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QUALI SONO LE RESPONSABILITA’ DEI LAVORATORI IN MATERIA DI SICUREZZA?
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8
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PREVENZIONE INCENDI: L’ANALISI DEL
RISCHIO E LE MISURE DI SICUREZZA
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11
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L’ILLUMINAZIONE NATURALE E
ARTIFICIALE DEGLI AMBIENTI DI LAVORO
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13
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LA CORRESPONSABILITA’ DEL RSPP CON
IL DATORE DI LAVORO PER UN INFORTUNIO
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16
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LE “FREQUENTLY
ASKED QUESTIONS” DI SICUREZZA SUL LAVORO - KNOW YOUR RIGHTS - N.3
Nella
mia attività di diffusione della cultura della salute e sicurezza sul lavoro,
spesso sono chiamato, da lavoratori o associazioni sindacali di base, a
svolgere delle vere e proprie “consulenze’” (ovviamente del tutto gratuite) di
ampio respiro, che poi riporto, per condividere l’esperienza con tutti, nella
mia newsletter, nella rubrica “Le consulenze di
Sicurezza sul Lavoro – Know Your Rights!”.
In qualche caso invece le richieste che mi
pervengono non richiedono consulenze di ampio respiro, ma brevi e sintetiche
risposte a domande su temi molto specifici e limitati.
Anche in questo caso mi sembra giusto e doveroso
diffondere questi brevi consulenze che hanno la forma delle cosiddette “Frequently Asked
Questions”, facendo nascere su tale argomento una nuova rubrica della mia
newsletter.
Ovviamente,
per evidenti motivi di privacy e per non creare motivi di ritorsione verso i
lavoratori o le associazioni che le hanno poste, riportando le domande ometto
il nominativo del lavoratore e dell’azienda coinvolti.
************
DOMANDA
Ciao
Marco,
Scusami
se ti disturbo.
Quando
riesci potresti gentilmente farmi avere un documento in cui, facendo
riferimento alla legge, si spiega che non è possibile bere alcolici se si guida
l’autovettura aziendale o quella propria per motivi di lavoro.
Grazie
mille!
RISPOSTA
L’attuale
normativa di tutela della sicurezza, incolumità e salute di lavoratori e di
terzi prevede il divieto di assunzione di qualsiasi tipo e in qualsiasi
quantità di bevanda alcolica in caso di utilizzo per motivi di lavoro di
autoveicoli che richiedano almeno la patente di guida di categoria B.
Tale
divieto deriva dalla Legge 30 marzo 2001, n.125 “Legge quadro in materia di
alcol e di problemi alcol correlati” (Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 90
del 18/04/01) che dedica tutto il Capo III alle “Disposizioni sulla pubblicità
e sul consumo delle bevande alcoliche e in materia di sicurezza sul lavoro”.
L’articolo
15, comma 1 di tale Legge prevede infatti che:
“Nelle attività lavorative che comportano un
elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’incolumità o
la salute dei terzi, individuate con decreto del Ministro del lavoro e della
previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità, da emanare entro
novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e’ fatto
divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e
superalcoliche”.
Il
mancato adempimento di quanto stabilito dall’articolo 15, comma 1 è punito dal
comma 4 del medesimo articolo con la sanzione amministrativa consistente nel
pagamento di una somma da lire 1 milione a lire 5 milioni [da 516 € a 2.582 €].
Se
in conseguenza di guida di autoveicoli in stato di ebbrezza derivano danni alle
persone, si applica poi l’articolo 590 del Codice Penale (lesioni personali
colpose) oppure l’ articolo 589 (omicidio colposo), con l’aggravante della
violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni.
L’articolo
15, comma 1 della Legge 125/01 non specifica le attività lavorative “che comportano un elevato rischio di
infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’incolumità o la salute dei terzi”,
rimandando a successivi atti normativi tale definizione.
Le
attività di cui sopra sono state successivamente definite dalla “Intesa
Conferenza Stato Regioni, 16 marzo 2006. Attività lavorative ad elevato rischio
infortuni” (Intesa in materia di individuazione delle attività lavorative che
comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza,
l’incolumità o la salute dei terzi, ai fini del divieto di assunzione e di
somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche, ai sensi dell’ articolo
15 della legge 30 marzo 2001, n. 125, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 75
del 30 marzo 2006).
All’articolo
1, comma 1 di tale Intesa è stabilito che:
“Le attività lavorative che comportano un
elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’incolumità o
la salute dei terzi, per le quali si fa divieto di assunzione e di somministrazione
di bevande alcoliche e superalcoliche, ai sensi dell’ articolo 15 della legge
30 marzo 2001, n. 125, sono quelle individuate nell’ allegato 1, che forma
parte integrante della presente intesa”.
All’interno
dell’allegato 1 “Attività lavorative che comportano un elevato rischio di
infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’ incolumità o la salute dei
terzi” della Intesa, al punto 8) sono comprese le:
“mansioni inerenti le seguenti attività di
trasporto:
[...]
a) addetti alla
guida di veicoli stradali per i quali è richiesto il possesso della patente di
guida categoria B, C, D, E [...];
[...]”.
Pertanto
dal combinato disposto dell’articolo 15 della Legge 125/01, dell’articolo 1,
comma 1 dell’Intesa 16/03/06 e del punto 8) dell’allegato 1 della Intesa citata
deriva il divieto, tra l’altro, di assunzione di qualunque tipo e di qualunque
quantitativo di bevande alcoliche in caso di guida di autoveicoli che
richiedano almeno la patente di guida di categoria B.
Giova
osservare che, poiché l’articolo 15 della Legge 125/01 parla di “divieto di assunzione [...] di bevande alcoliche e superalcoliche” e
che tale termine è categorico, esso non prevede un valore di tasso alcolemico
massimo da non superare (a differenze delle disposizioni di legge contenute nel
Codice della Strada), ma il divieto assoluto di assunzione di qualunque quantitativo
di alcol.
*******************
DOMANDA
Ciao
Marco,
sono
RLS in un’azienda privata.
In
azienda, quando mi trovo a parlare di sicurezza, il mio interlocutore, oltre
che il RSPP, è anche e più sovente il dirigente responsabile dei servizi, nella
seguente disposizione: davanti il dirigente e, in secondo piano, il RSPP, come
se il suo ruolo fosse secondario
Come
posso fare per capire chi veramente prende le decisioni in merito alla
sicurezza?
Ti
saluto augurandoti un buon lavoro.
RISPOSTA
In
merito a quanto mi chiedi, il D.Lgs.81/08 (nel seguito “Decreto”), come
d’altronde tutte le Direttive Europee su salute e sicurezza, è molto chiaro.
Le
decisioni relative a salute e sicurezza sul lavoro le prende il datore di
lavoro, per quanto riguarda gli interventi “strutturali” e le prende il
dirigente (se formalmente delegato) per quanto riguarda gli interventi
“operativi”, su indicazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e
Protezione (RSPP).
Il
RSPP in tutto questo non ha alcun potere (in quanto non detiene i poteri
decisionali e di spesa), ma ha solo un ruolo di consulenza al datore di lavoro
e alla gerarchia aziendale.
Infatti
se si legge il Decreto non si trova mai alcun articolo che riporta gli
“obblighi” a carico del RSPP, come di conseguenza il RSPP non è compreso
nell’apparato sanzionatorio, proprio in quanto non ha obblighi penali.
Questo
concetto è poi reso in maniera molto chiara all’articolo 33 “Compiti del
servizio di prevenzione e protezione”, dove si parla appunto di “compiti” e mai di “obblighi”:
“1. Il servizio di prevenzione e protezione
dai rischi professionali provvede:
a)
all’individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e
all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti
di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica
conoscenza dell’organizzazione aziendale;
b) ad elaborare,
per quanto di competenza, le misure preventive e protettive di cui all’articolo
28, comma 2, e i sistemi di controllo di tali misure;
c) ad elaborare le
procedure di sicurezza per le varie attività aziendali;
d) a proporre i
programmi di informazione e formazione dei lavoratori;
e) a partecipare
alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché
alla riunione periodica di cui all’articolo 35;
f) a fornire ai
lavoratori le informazioni di cui all’articolo 36.
2. I componenti del
servizio di prevenzione e protezione sono tenuti al segreto in ordine ai processi
lavorativi di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle funzioni di cui al
presente decreto legislativo.
3. Il servizio di
prevenzione e protezione è utilizzato dal datore di lavoro”.
Come
è evidente dall’articolo 33, il ruolo del RSPP è quello di “consulente” del
datore di lavoro (e infatti il comma 3 è chiarissimo nello specificare che il
RSPP “è utilizzato dal datore di lavoro”.
Ben
diversi sono gli obblighi a carico del datore di lavoro di cui all’articolo 17
del Decreto (quelli non delegabili) e del datore di lavoro o dei dirigenti (se
ad essi sono delegati con l’atto della delega di cui all’articolo 16) di cui
all’articolo 18 del Decreto.
Sono
pertanto il datore di lavoro e/o i dirigenti quelli che sono investiti dei
poteri di spesa e decisionali per attuare le misure di prevenzione e protezione
che vengono definiti dal RSPP, in quanto tecnico della sicurezza e consulente,
in sede di analisi dei rischi, ma che il RSPP non è in grado di attuare, non
avendo tali poteri.
A
confermare lo spirito del Decreto in merito alla individuazioni delle
responsabilità e dei compiti di datore di lavoro, dirigenti e RSPP sono le
definizioni date dall’articolo 2, comma 1.
Infatti
la lettera b) definisce il datore di lavoro come “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o,
comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel
cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità
dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri
decisionali e di spesa”.
La
lettera d) definisce il dirigente come “persona
che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e
funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive
del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa”.
Quindi,
secondo l’articolo 2 del decreto, datore di lavoro e dirigenti sono coloro che
hanno i poteri decisionali e di spesa (illimitati quelli del datore di lavoro,
limitati dal contenuto della delega quelli del dirigente).
La
lettera f) dell’articolo 2, comma 1 del Decreto definisce invece il RSPP come “persona in possesso delle capacità e dei
requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal datore di lavoro,
a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai
rischi”
Pertanto
il RSPP, in quanto tecnico della salute e della sicurezza qualificato (tramite
i requisiti professionali di cui all’articolo 32) coordina il Servizio di
Prevenzione e Protezione, per conto del datore di lavoro, senza avere alcun
potere decisionale e di spesa.
Infine,
relativamente al rapporto della azienda con il RLS, l’articolo 18, comma 1,
lettere n), o), p), s) impone che:
“Il datore di lavoro [...] e i dirigenti [...] devono:
-
consentire ai
lavoratori di verificare, mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza,
l’applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute;
-
consegnare
tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta
di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento [di valutazione dei
rischi];
-
elaborare il
documento di cui all’articolo 26, comma 3 [il DUVRI];
-
consultare il
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui
all’articolo 50”.
Sono
pertanto il datore di lavoro o il dirigente ad avere l’obbligo di rapportarsi
con il RLS, sia in termini di consegna della documentazione aziendale, sia in
termini della sua consultazione in merito alla politica aziendale.
In
conclusione, il RSPP definisce, in quanto tecnico della salute e della
sicurezza, le possibili misure di prevenzione e protezione (interventi su
luoghi di lavoro e attrezzature, procedure di sicurezza, fabbisogno formativo,
ecc.), ma colui che prende le decisioni su come e quando implementarle è il
datore di lavoro e/o il dirigente.
Ovviamente
tutto quanto sopra non è valido nel caso (possibile ed effettivamente presente
in molte aziende) in cui il RSPP sia anche datore di lavoro oppure dirigente
con delega specifica alla sicurezza. In tal caso il RSPP ha sia i compiti
definiti dall’articolo 33, sia gli obblighi definiti rispettivamente dagli
articoli. 17 e 18.
*******************
NOTA
Nel
testo delle “Frequently Asked Questions” sopra riportate sono state usate i
seguenti acronimi e termini:
ASL
= Azienda Sanitaria Locale
CCNL
= Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
DVR
= Documento di Valutazione dei Rischi
DUVRI
= Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenza in caso di lavori
in appalto
RSPP
= Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
RLS
= Rappresentate dei Lavoratori per la Sicurezza
D.Lgs.81/08
o Decreto: Decreto Legislativo n.81 del 9 aprile 2008 e successive modifiche e
integrazioni (cosiddetto “Testo Unico sulla sicurezza”)
MODULISTICA
PER I RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA
Da: Cobas
Pisa
20 luglio 2015
Pubblichiamo i link per scaricare modulistica
specifica per i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), con un
ringraziamento fraterno a Marco Spezia che l’ha resa disponibile.
Si inizia con quelle riguardanti le attribuzioni che
l’articolo 50 del D.Lgs.81/08 dà ai RLS e di conseguenze come richiedere alla
propria azienda di poter esercitare tali attribuzioni.
In particolare si riporta il link ai files, il cui
nome ne indica già il contenuto:
-
RLS richiesta accesso a luoghi di lavoro
-
RLS richiesta consultazione
-
RLS richiesta convocazione riunione articolo 35
-
RLS richiesta documentazione aziendale
-
RLS richiesta erogazione formazione specifica RLS
-
RLS richiesta informazioni servizi di vigilanza
Ovviamente i modelli riportati valgono sia per RLS
aziendali eletti o designati, sia per RLS territoriali (basta cambiare il
termine da RLS a RLST).
Le lettere vanno indirizzate sempre al datore di
lavoro o ai dirigenti, che sono i soggetti con potere decisionale e a cui sono
riferiti gli obblighi del D.Lgs.81/08.
Le lettere quindi non vanno indirizzate al
Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, in quanto egli è un
consulente del datore di lavoro e non l’interfaccia tra azienda e lavoratori.
Le lettere andrebbero preferibilmente inoltrate con
Raccomandata RR, con raccomandata a mano (con timbro e firma su copia per presa
visione o attribuzione di numero di protocollo), oppure con Posta Elettronica
Certificata in partenza e in arrivo.
A seguito di mancata risposta da parte dell’azienda,
la lettera andrà inoltrata per conoscenza alla servizio SPRESAL (Servizio di
Prevenzione della Sicurezza in Ambienti di Lavoro) o servizio simile della ASL
competente per territorio, allegando la ricevuta di avvenuta ricezione da parte
della azienda.
TARANTO ILVA: UN
MARE BOLLENTE DI RINVII A GIUDIZIO NEL PROCESSO “AMBIENTE SVENDUTO”
Da
Articolo 21
23
luglio 2015
di
Marianeve Santoiemma
In
un giorno caldissimo di luglio si è tenuta a Taranto, presso la caserma dei
Vigili del Fuoco, l’udienza preliminare del processo “Ambiente Svenduto”,
durato circa dieci ore. Il Giudice per l’Udienza Preliminare Vilma Gilli aveva
rinviato la decisione al 23 luglio. Avevano parlato i difensori e per l’ex
presidente della Regione Puglia Nichi Vendola era stato chiesto il non luogo a
procedere per insussistenza del fatto, per inutilizzabilità delle dichiarazioni
rese a sommarie informazioni testimoniali in quanto fornite senza le garanzie
della presenza del legale di fiducia.
La Procura di Taranto aveva
intimato lo spegnimento immediato dell’altoforno 2 all’ILVA. Il custode
giudiziario del siderurgico, Barbara Valenzano, aveva chiesto all’azienda di
attuare il Decreto di sequestro preventivo senza facoltà d’uso emesso dai
Pubblici Ministeri quando si è verificato l’incidente ad Alessandro Morricella
che ne ha causato la morte a giugno, e aveva chiesto inoltre di essere
informata entro il 24 luglio circa l’attuazione del cronoprogramma relativa
allo spegnimento dell’altoforno killer.
Le
attese erano grandi per il GUP che si doveva esprimere giovedì 23 luglio su 47
richieste di rinvio a giudizio avanzate dalla Procura e contro 44 persone e 3
società nell’inchiesta “Ambiente Svenduto” relativa al disastro ambientale che
ILVA ha causato a una intera città e a una comunità che ancora non vede fine a
una giustizia negata. 52 imputati, alcuni avevano scelto di patteggiare e
attendevano giudizio con rito abbreviato. Emilio Riva, patron dell’ILVA, era il
cinquantatresimo imputato, ma è deceduto.
In
attesa di conoscere chi e se sarebbero stati i rinviati a giudizio, gli assolti
e i condannati, si ricordano i nomi, importanti, tra cui l’ex assessore
all’Ambiente della Regione Puglia Lorenzo Nicastro, parte dell’ultima giunta di
Nichi Vendola, l’ex governatore, l’ex consigliere regionale Nicola Fratoianni,
l’ex Presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido, l’ex sindaco di Taranto
Ezio Stefàno, il Direttore Generale dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato, l’ex segretario
dell’ex Arcivescovo di Taranto, Monsignor Marco Gerardo, il consigliere
regionale della Puglia, Donato Pentassuglia, i proprietari dell’ILVA, Nicola e
Fabio Riva, l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, dirigenti
dell’ILVA, sono accusati di associazione a delinquere finalizzata al disastro
ambientale. Nichi Vendola è imputato per concussione aggravata in concorso con
Fabio Riva. Ezio Stefàno, Sindaco di Taranto, sarebbe imputato per omissione di
atti d’ufficio.
Sono
circa 800 le parti civili ammesse al processo, tra cui associazioni
ambientaliste, i parenti delle vittime, operai deceduti, sindacati, istituzioni
tra cui il Comune, la
Provincia di Taranto, la Regione Puglia e i
ministeri di Salute e Ambiente.
E
questo giovedì 23 luglio bollente si è rivelato per molti degli imputati,
perché la decisone del GUP è giunta prima dell’ora di pranzo, quando la
colonnina di mercurio segnava 40 gradi a Taranto e del cuore di chi attendeva
nemmeno i battiti più si percepivano...ed è la decisione che tutti coloro che
in questo processo hanno scritto pagine e pagine di parole, spesso raccontando
di anime volate via col nome ILVA sulle labbra, implorando giustizia, chiedendo
nelle notti insonni, trascorse sulle carte per capire dove e come provare la
connessione tra inquinamento e morte, tra giustizia negata e Stato silente, tra
corruzione e collusione, tra chi vedeva e taceva e chi subiva e moriva...una
sola cosa...la verità, quella si cercava.
E
la verità adesso emergerà nel processo perché il GUP ha deciso, assolvendo
qualcuno, condannando qualcuno, ma rinviando tutti gli altri, coloro che in
Regione, Provincia e Comune decidevano, di agire o meno, di parlare o meno, di
salvare questo territorio e tutte le sue anime...o meno.
Assolto
l’ex assessore all’Ambiente della Regione Puglia Lorenzo Nicastro perché il
fatto non sussiste. Per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato c’è
Monsignor Marco Gerardo ex segretario dell’ex Arcivescovo di Taranto Monsignor
Benigno Luigi Papa, condannato a dieci mesi di reclusione, pena sospesa per le
condizioni della legge.
La
lettura delle decisioni del GUP Gilli è la seguente: “dispone il rinvio a
giudizio per tutti i restanti imputati per l’udienza dinnanzi alla Corte
d’Assise del Tribunale di Taranto che si terrà il 20 ottobre prossimo, aula
Alessandrini ovvero luogo diverso che verrà indicato nel decreto che dispone il
giudizio”.
Il
Procuratore Capo della Repubblica Franco Sebastio ha dichiarato: “Sembra che
l’istanza accusatoria che portiamo avanti dal mio ufficio abbia trovato quasi
completo, totale accoglimento nella decisione del giudice dell’udienza
preliminare. Questa pronuncia ci rassicura un po’. A quanto pare errori
madornali non ne avremmo commessi”.
Ora
tutti al mare, gli assolti felici, i rinviati forse un po’ preoccupati, e tutti
coloro che di questo processo conoscono anche le pause e i silenzi attenderanno
questo 20 ottobre per vedere quale verità verrà fuori e quanti avranno il
coraggio e la dignità di lasciare per un attimo poltrone e incarichi per
difendersi e restituire senso a ruoli e funzioni, facendo quel gesto che ogni
persona sensibilmente dotata di ragionevolezza dovrebbe compiere, quel
difficile ma doveroso passo indietro perché Regione, Provincia e Comune sono
istituzioni pubbliche e di trasparenza e onestà dovrebbero essere vestite.
QUALI
SONO LE RESPONSABILITA’ DEI LAVORATORI IN MATERIA DI SICUREZZA?
Da:
PuntoSicuro
22 luglio 2015
di Tiziano Menduto
Un saggio di Olympus si sofferma sul ruolo, sugli
obblighi e le responsabilità del lavoratore in materia di sicurezza sul lavoro.
Focus sui casi di assenza di responsabilità, di responsabilità concorrente o di
responsabilità esclusiva del lavoratore.
Se in questi anni il legislatore ha dato rilevanza
al ruolo del lavoratore, al suo essere soggetto attivo della sicurezza, in tema
di responsabilità gli inadempimenti del lavoratore vengono ora a determinare
una inevitabile ricaduta sugli altri soggetti obbligati e incidono sulla
imputazione e ripartizione delle responsabilità in ordine all’evento dannoso.
Ad affrontare il tema della responsabilità del
lavoratore, con particolare riferimento agli orientamenti giurisprudenziali e
al D.Lgs.81/08, è un Working Paper, pubblicato da Olympus nel mese di giugno
2014, dal titolo “L’individuazione e le responsabilità del lavoratore in
materia di sicurezza sul lavoro” a cura di Mariantonietta Martinelli (Avvocato
del Foro di Trani, Specialista in Diritto del Lavoro e Sicurezza Sociale presso
l’ Università di Bari).
Affrontiamo il tema della responsabilità, partendo
dalla possibilità di assenza di responsabilità del lavoratore.
Il breve saggio ricorda innanzitutto che condizione
necessaria e sufficiente per la configurabilità di responsabilità in capo al
lavoratore inadempiente agli obblighi di sicurezza è che il datore di lavoro
abbia, a sua volta, adempiuto agli obblighi, soggettivi e oggettivi, posti
dalla legge a suo carico, in particolare, degli obblighi di prevenzione tecnica
e organizzativa, di informazione e formazione e, infine, di vigilanza e
controllo.
E dunque secondo un ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, il datore di lavoro è sempre considerato responsabile
dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee
misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga
fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non avendo alcun effetto
esimente, per l’imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per
violazione delle relative prescrizioni, l’eventuale concorso di colpa del
lavoratore. In poche parole l’inosservanza delle norme prevenzionali (da parte
di datore di lavoro, dirigente e preposto) ha valore assorbente rispetto al
comportamento del lavoratore, la cui condotta, pertanto, può assumere
rilevanza, solo dopo che da parte dei soggetti obbligati, siano state adempiute
le prescrizioni di loro competenza.
E dunque non potrà essere ascrivibile alcuna
responsabilità al lavoratore dal momento che tale evento lesivo è da ricondurre
proprio alle omissioni e/o alle mancate o insufficienti misure e cautele
approntate dal datore di lavoro e dai suoi collaboratori, e nessuna rilevanza,
in tali condizioni, assume il comportamento del lavoratore che, per quanto
negligente o persino assurdo, non risulti imprevedibile, ad esempio, perché già
ripetutamente tollerato in precedenza (Sentenza di Cassazione Penale, n. 21205
del 31 maggio 2012).
Sono segnalate, tuttavia, alcune pronunce che,
riguardo alla responsabilità civile, hanno evidenziato, pur in caso di
inadempimento all’obbligo di sicurezza da parte dello stesso datore di lavoro,
l’importanza di un’indagine preventiva sul nesso di causalità in presenza di un
concorso di cause colpose o di cooperazione colposa del lavoratore, giungendo,
in tali casi, a ridurre proporzionalmente, ma non a escludere, la misura della
responsabilità datoriale.
In ogni caso i risultati raggiunti dalla
giurisprudenza, ai fini della individuazione della responsabilità e della colpa
del datore di lavoro, attribuiscono in sostanza rilevanza decisiva all’elemento
della prevedibilità e della evitabilità dell’evento dannoso verificatosi, con
l’ordinaria diligenza professionale, richiesta al datore di lavoro ai sensi del
D.Lgs.81/08 (Sentenza di Cassazione Civile, n. 8861 del 11 aprile 2013).
Veniamo ora alla situazione di responsabilità
concorrente del lavoratore.
Se dunque i principali soggetti destinatari degli
obblighi di sicurezza abbiano adempiuto ai propri doveri/obblighi di
informazioni, formazione, preparazione e cooperazione, può assumere rilevanza,
nella imputazione e ripartizione delle responsabilità, il comportamento
inadempiente agli obblighi di sicurezza del lavoratore, che se pur non esonera
il datore di lavoro da responsabilità, ben può cooperare colposamente a causare
l’evento dannoso. La prestazione resa dal lavoratore senza l’osservanza delle
prescrizioni per la tutela e la salute della sicurezza del lavoro pone,
infatti, in essere una condotta inadempiente che pur non essendo sufficiente a
far venir meno la responsabilità del datore, concorre con essa. Si determina,
in tal caso, un concorso di cause colpose. E la condotta colposa del lavoratore
dovrà essere valutata in relazione alla violazione e alle mancanze del datore
di lavoro e degli altri soggetti obbligati.
Se, come abbiamo visto in precedenza, il lavoratore
ha diritto di aspettarsi che il datore di lavoro lo metta nelle condizioni
migliori per lavorare, il datore di lavoro ha, da parte sua, il corrispondente
diritto di attendersi, una volta compiuto quanto gli spetta, che il lavoratore
faccia quel che deve. Il datore di lavoro ha insomma diritto di fare
affidamento sull’esatto adempimento da parte del lavoratore del proprio dovere.
Ricordiamo che il datore di lavoro è chiamato a
vigilare e controllare il lavoratore nell’espletamento della sua prestazione.
Egli dovrà verificare, in particolare, che i lavoratori rispettino la normativa
e le disposizioni impartite, utilizzino i mezzi e i dispositivi di protezione
ricevuti in dotazione e sfuggano alla tentazione, sempre presente, di compiere
atti o manovre rischiose, ovvero instaurino prassi di lavoro non corrette,
potendo il medesimo datore, non essere chiamato a rispondere, ancorché in
concorso con il lavoratore, solo ove dimostri di aver vigilato attivamente sul
suo operato, ovvero rimanendone corresponsabile, ove il lavoratore,
intenzionalmente, sia venuto meno al suo obbligo formativo.
Ma fino a che punto deve spingersi l’attività di
controllo e di vigilanza del datore di lavoro?
Una recente sentenza (Sentenza di Cassazione Civile,
n. 20597 del 22 novembre 2012) ha affermato che l’obbligo di vigilanza non
implica un controllo costante su ogni lavoratore né il dovere di assicurare la
presenza del preposto dietro ogni lavoratore o di organizzare il lavoro in modo
da moltiplicare verticalmente i controlli fra dipendenti, richiedendosi, solo,
una diligenza rapportata al concreto lavoro da svolgere e, cioè, alla
ubicazione del medesimo, all’esperienza e specializzazione del lavoratore, alla
sua autonomia, alla prevedibilità della sua condotta, alla normalità della
tecnica di lavorazione. Condivisibile è il ragionamento di chi ha sostenuto che
l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro debba essere interpretato tenendo
conto del livello di competenza acquisita dal lavoratore anche grazie alla
formazione ricevuta.
Se in definitiva con la sua condotta avventata,
disattenta ovvero negligente, imprudente o imperita, il lavoratore
adeguatamente informato e formato abbia determinato o contribuito a causare
l’evento dannoso, ne risponderà in termini di concorso di colpa e il datore di
lavoro che resta il principale soggetto obbligato (sia quando ometta di
adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e non vigili che
di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente), vedrà
una proporzionale riduzione delle sue responsabilità.
Concludiamo con alcuni cenni al caso della
responsabilità esclusiva del lavoratore.
Secondo l’orientamento della giurisprudenza, è
ravvisabile una responsabilità esclusiva del lavoratore, in caso di dolo (che
in questa materia si identifica con l’autolesionismo) o di cosiddetto rischio
elettivo, da lui posti in essere (un rischio ravvisabile ad esempio quando
l’attività svolta non sia relazionabile con la prestazione lavorativa o si
spinga ben oltre i limiti della stessa).
E anche lo svolgimento di attività potenzialmente
rischiose può determinare una sua condotta gravemente colposa che, se ha avuto
efficacia determinante, nella causazione dell’evento, determina il sorgere di
responsabilità esclusiva a suo carico: il lavoratore deve rispettare l’obbligo
di adottare le modalità che si appalesino, in concreto, le meno pericolose,
ovvero deve astenersi dallo svolgimento delle stesse.
Ed è ravvisabile una sua responsabilità esclusiva
quando il suo comportamento, per il carattere anomalo o esorbitante, rispetto
alle sue mansioni o alle procedure aziendali e/o alle direttive organizzative
ricevute, risulti del tutto imprevedibile e, come tale, inevitabile, nonostante
la corretta e puntuale attuazione in azienda del sistema prevenzionale voluto
dalla legge.
Quindi, per assumere i connotati di unica causa
efficiente dell’evento il lavoratore deve mettere in atto un comportamento
abnorme e, dunque, fuori da qualsiasi controllo da parte delle persone
preposte: deve essere stato posto in essere, ad esempio, del tutto
autonomamente e al di fuori delle mansioni attribuitegli (e, pertanto, al di
fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro), ovvero deve essere
consistito in qualcosa di assolutamente imprevedibile da parte del datore di
lavoro, ovvero pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia
consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle
ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte che il lavoratore
potrebbe compiere nella esecuzione del lavoro, ovvero, infine, deve essere
stato realizzato dal lavoratore con dolo, cioè con la consapevolezza di violare
le cautele impostegli.
In definitiva è necessario dunque che il lavoratore
abbia posto nel nulla situazioni di pericolo create dal datore di lavoro o
eliminandole o modificandole in modo tale da non poter essere più a
quest’ultimo attribuite: in tal caso, pur essendo la condotta del datore di
lavoro (o degli altri suoi collaboratori responsabilizzati dalla normativa)
colposa e, persino, di per sé idonea a causare l’evento dannoso, essendo
intervenuto, successivamente, un comportamento del lavoratore assolutamente
eccezionale, esorbitante e imprevedibile, quella condotta datoriale non assume
efficienza causale rispetto all’evento, restandone il lavoratore l’unico
responsabile.
Il documento di Olympus - Osservatorio per il
monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del
lavoro “L’individuazione e le responsabilità del lavoratore in materia di
sicurezza sul lavoro” è scaricabile all’indirizzo:
PREVENZIONE INCENDI: L’ANALISI DEL
RISCHIO E LE MISURE DI SICUREZZA
Da:
PuntoSicuro
23 luglio
2015
Un documento
si sofferma sulle diverse fasi dell’analisi del rischio per la prevenzione
incendi. Focus sull’esame dei pericoli, sulla scelta degli obiettivi e sui
criteri di dimensionamento delle vie esodo.
Un’analisi
storica degli incidenti che hanno provocato incendi permette di affermare che,
laddove sono note le cause, quasi sempre l’evento incidentale è evitabile se
sono applicate in modo appropriato l’esperienza e le conoscenze esistenti.
Inoltre nella grande maggioranza degli incidenti ci sono omissioni nella
organizzazione e nella gestione della sicurezza (carenza di cultura della
sicurezza, procedure di sicurezza non osservate e/o insufficienti, ecc.). Senza
dimenticare che una significativa quota di incidenti si verifica durante gli
interventi di manutenzione e che proprio l’analisi e lo studio degli incidenti
ha permesso in questi di suggerire l’adozione di utili modifiche e
miglioramenti impiantistici.
A
sottolineare quanto sia importante migliorare la prevenzione degli incendi in
Italia, partendo da una corretta analisi dei rischi, è un documento correlato
al corso “Scienza e tecnica della prevenzione incendi” del Dipartimento di
Ingegneria Civile e Industriale dell’ Università di Pisa.
Il
documento, dal titolo “Analisi del Rischio e Individuazione misure di sicurezza
equivalenti” a cura di Claudio Chiavacci (Comando Provinciale Vigili del Fuoco
Livorno) affronta innanzitutto nel dettaglio le diverse fasi dell’analisi del
rischio incendio.
La procedura
di analisi prevede la conoscenza del vocabolario/definizioni.
E’ infatti
necessario tener conto del “vocabolario” della prevenzione incendi, ad esempio
con riferimento al Decreto Ministeriale 30 novembre 1983 (e successive
modifiche e integrazioni) che contiene termini, definizioni, definizioni
generali e simboli grafici di prevenzione incendi, coordinato con le modifiche
e le integrazioni introdotte dal Decreto Ministeriale 9 marzo 2007.
Un secondo
punto della procedura riguarda gli obiettivi della sicurezza antincendio, che
sono:
-
minimizzare
le occasioni di incendio;
-
garantire la
stabilità delle strutture portanti per il tempo necessario ad assicurare il
soccorso degli occupanti;
-
garantire
limitata propagazione del fuoco e fumo all’interno delle opere e alle opere
vicine;
-
garantire
l’allontanamento degli occupanti ovvero assicurare che gli stessi siano
soccorsi in altro modo;
-
assicurare
che le squadre di soccorso possano operare in condizioni di sicurezza.
Si arriva
poi all’esame dei “pericoli” di incendio, ad esempio con riferimento a:
-
criticità
delle sostanze (caratteristiche chimico-fisiche, instabilità, reattività,
ecc.);
-
analisi,
secondo quanto sopra, delle sostanze allo stato liquido o gassoso: analisi
delle possibili sorgenti di emissione di sostanze pericolose (e valutazione
qualitativa della probabilità di rilasci ipotizzabili); stima delle portate di
emissione e tempi di intervento per intercettazione; stima della estensione
delle zone pericolose (eventuale presenza sistemi contenimento secondari,
sistemi di allontanamento rilasci, sistemi per facilitare vaporizzazione,
ecc.); valutazione delle condizioni di ventilazione .
-
analisi,
secondo quanto sopra dei combustibili solidi: individuazione delle aree di
accumulo; separazione delle aree di accumulo; quantitativi (massimi) presenti;
grado di suddivisione e di confinamento; estensione delle zone pericolose (al
cui interno devono essere adottate appropriate misure di controllo delle
sorgenti di ignizione e di estinzione e protezione antincendio);
-
condizioni
operative (quantità, pressione, portata, temperatura, grado di suddivisione, presenza
di comburenti e/o sostanze incompatibili, ecc.);
-
entità e
vulnerabilità dei soggetti e dei beni esposti (danni attesi);
-
possibili
effetti propagativi dell’evento (effetti domino).
Successivamente
vengono le fasi di scelta degli obiettivi di sicurezza e di compensazione del
rischio incendio.
Riguardo a
queste due fasi nel documento sono riportati vari dettagli relativi agli
obiettivi e alle possibili misure costruttive, impiantistiche e gestionali.
In
particolare l’autore si sofferma sulla resistenza al fuoco, sulla
compartimentazione, sul numero e posizionamento degli estintori portatili,
sulla reazione al fuoco, sulle distanze di sicurezza e sull’ evacuazione dai
luoghi di lavoro.
Riguardo, ad
esempio ai criteri di dimensionamento delle vie esodo, l’autore segnala che:
-
ogni luogo
di lavoro deve disporre di vie di uscita alternative (ad eccezione di quelli di
piccole dimensioni o dei locali a rischio di incendio medio o basso);
-
ciascuna via
di uscita deve essere indipendente dalle altre e distribuita in modo che le persone
possano allontanarsi ordinatamente;
-
dove è
prevista più di una via di uscita, la lunghezza del percorso per raggiungere la
più vicina uscita di piano non dovrebbe essere superiore a: 15/30 metri (tempo
massimo di evacuazione 1 minuto) per aree a rischio di incendio elevato; 30/45
metri (tempo massimo di evacuazione 3 minuti) per aree a rischio di incendio
medio; 45/60 metri (tempo massimo di evacuazione 5 minuti) per aree a rischio
di incendio basso;
-
le vie di
uscita devono sempre condurre a un luogo sicuro;
-
i percorsi
di uscita in un’unica direzione devono essere evitati per quanto possibile;
qualora non possano essere evitati, il documento indica i limiti relativi alla
distanza da percorrere fino a una uscita di piano o fino al punto dove inizia
la disponibilità di due o più vie di uscita;
-
le vie di
uscita devono avere larghezza sufficiente in relazione al numero degli
occupanti; la larghezza va misurata nel punto più stretto del percorso;
-
devono
essere disponibili un numero sufficiente di uscite di adeguata larghezza da
ogni locale e piano dell’edificio;
-
le scale
devono normalmente essere protette dagli effetti di un incendio tramite strutture
e porte resistenti al fuoco; le porte devono essere dotate di dispositivo di
autochiusura, ad eccezione dei piccoli luoghi di lavoro a rischio di incendio
medio o basso, quando la distanza da un qualsiasi punto del luogo di lavoro
fino all’uscita su luogo sicuro non superi rispettivamente, come ordine di
grandezza, i valori di 45 e 60
metri (30 e 45 metri nel caso di una sola uscita);
-
le vie di uscita e le uscite di piano devono
essere sempre disponibili per l’uso e tenute libere da ostruzioni in ogni momento;
-
ogni porta
sul percorso di uscita deve poter essere aperta facilmente ed immediatamente.
E comunque
nella scelta della massima lunghezza dei percorsi di esodo bisogna attestarsi,
a parità di rischio, verso i livelli più bassi nei casi in cui il luogo di
lavoro sia:
-
frequentato
da pubblico (scarsa familiarità con ambienti);
-
utilizzato
prevalentemente da persone che necessitano di assistenza in caso di emergenza
(soggetti vulnerabili);
-
utilizzato
quale area di riposo (tempi reazione più alti);
-
utilizzato
quale area dove sono depositati e/o manipolati materiali infiammabili (rapidità
sviluppo incendio, tempi fermata di emergenza).
Il documento
fornisce indicazioni anche sul numero delle uscite di piano, sulla larghezza
delle uscite e sull’illuminazione di sicurezza.
Concludiamo
segnalando che il documento si sofferma infine sull’importanza di verificare la
conformità delle opere alle norme cogenti, sul controllo della adeguatezza
delle misure adottate e sulle misure di sicurezza equivalenti in riferimento a
scelte di strategia antincendio “alternative”.
Il documento
“Analisi del Rischio e Individuazione delle misure di sicurezza equivalenti”, a
cura di Claudio Chiavacci (Comando Provinciale Vigili del Fuoco Livorno) è
scaricabile all’indirizzo:
L’ILLUMINAZIONE NATURALE E ARTIFICIALE
DEGLI AMBIENTI DI LAVORO
Da:
PuntoSicuro
24 luglio
2015
di Tiziano
Menduto
Indicazioni
su come realizzare un’idonea illuminazione naturale e artificiale degli
ambienti di lavoro. Le grandezze fotometriche, il confort visivo, la
distribuzione delle luminanze, l’uniformità dell’illuminamento e
l’abbagliamento.
L’allegato
IV del D.Lgs.81/08 (Requisiti dei luoghi di lavoro) riporta molte indicazioni
sull’illuminazione naturale e artificiale degli ambienti di lavoro. Ad esempio
si indica che, se non sia richiesto dalle necessità delle lavorazioni e salvo
che non si tratti di locali sotterranei, i luoghi di lavoro devono disporre di
sufficiente luce naturale. In ogni caso, tutti i predetti locali e luoghi di
lavoro devono essere dotati di dispositivi che consentano un’illuminazione
artificiale adeguata per salvaguardare la sicurezza, la salute e il benessere
di lavoratori. E inoltre gli impianti di illuminazione dei locali di lavoro e
delle vie di circolazione devono essere installati in modo che il tipo
d’illuminazione previsto non rappresenti un rischio di infortunio per i lavoratori.
E, ancora, i luoghi di lavoro nei quali i lavoratori sono particolarmente
esposti a rischi in caso di guasto dell’illuminazione artificiale, devono
disporre di un’illuminazione di sicurezza di sufficiente intensità.
Per
affrontare il tema dell’illuminazione nei luoghi di lavoro riprendiamo la
presentazione del seminario tecnico dal titolo “Criteri e strumenti per
l’individuazione e l’analisi dei rischi”, organizzato dall’Ordine degli
Ingegneri della Provincia di Roma in collaborazione con l’Università degli
Studi Roma Tre il 23 Maggio 2015 a Roma. Un seminario che ha presentato le
tematiche legate ai criteri e agli strumenti utili alla valutazione dei rischi
per i lavoratori, con particolare riferimento alle problematiche
dell’illuminazione, delle vibrazioni e delle radiazioni ottiche artificiali
coerenti e incoerenti.
Nell’intervento
“Illuminazione”, a cura dell’ingegner Maurizio Tancioni, vengono presentati non
solo tutti i vari punti dell’Allegato IV del Testo Unico concernenti
l’illuminazione, ma vengono altresì ricordate le varie grandezze fotometriche
utili per attuare consapevolmente idonee strategie di illuminazione e di
valutazione dell’illuminazione degli ambienti.
Riportiamo
alcune delle grandezze ricordate nell’intervento:
-
flusso
luminoso: potenza luminosa emessa da una sorgente, quantità di luce emessa da
una sorgente nell’unità di tempo, unità di misura lumen (lm);
-
efficienza
luminosa: esprime il rendimento di una lampada o di un apparecchio illuminante,
è il rapporto tra flusso luminoso emesso (lumen) e potenza elettrica assorbita
(watt);
-
intensità
luminosa: esprime il flusso luminoso di una sorgente in una specifica
direzione, unità di misura candele (cd=lumen/steradiante).
Inoltre
bisogna ricordare che l’illuminamento E è dato dal rapporto tra il flusso
luminoso irradiato e la superficie illuminata. Esprime quanto agevolmente
l’occhio può vedere e la unità di misura è il lux [lx]. Mentre la luminanza
esprime la quantità di luce che una superficie illuminata riflette verso
l’occhio dell’osservatore (che sta guardando in quella direzione), con unità di
misura cd/m2.
L’intervento
si sofferma anche su altre grandezze, quali: rapporto di luminanza, fattore di
contrasto, temperatura di colore, indice generale di resa cromatica, ecc..
L’illuminazione
di un ambiente di lavoro deve garantire: buona visibilità, confort visivo e sicurezza.
E deve
fornire condizioni ottimali per lo svolgimento del compito visivo richiesto,
anche quando si distoglie lo sguardo dal compito o per riposo o per variazione
del compito.
Parliamo
della luce naturale.
L’intervento
ricorda che nell’illuminazione degli ambienti l’impiego della luce diurna è
importante sia per la qualità della visione e le caratteristiche di
gradevolezza e accettazione da parte degli occupanti, che per ragioni connesse
al risparmio energetico. Il contributo della luce naturale nell’illuminazione
degli interni va inoltre privilegiato in quanto la presenza nell’involucro di
un edificio di aperture verso l’esterno permette di cogliere le modulazioni del
ciclo della luce a cui sono legate importanti funzioni fisiologiche e di
mantenere un legame visivo col mondo circostante che è un bisogno psicologico
elementare dell’uomo.
Tuttavia la
luce diurna naturale è caratterizzata anche da variazioni nel tempo di
quantità, composizione spettrale e direzione e il suo ingresso negli ambienti
confinati dipende da diversi fattori (località, orientamento dell’edificio,
orientamento e caratteristiche delle chiusure trasparenti, presenza
nell’intorno di edifici o altri elementi del paesaggio, ecc.).
E la luce
naturale può dare abbagliamento a seconda della:
-
luminanza
della porzione di cielo inquadrata dalla superficie vetrata;
-
posizione e
dimensione della superficie vetrata;
-
contrasto di
luminanza tra le superfici interne;
-
presenza di
superfici riflettenti esterne o interne.
C’è la
possibilità di valutare il disturbo causato da superfici luminose estese quali
le finestre. Ad esempio è utilizzato l’indice DGI (Daylight Glare Index) che
può essere calcolato con le modalità indicate nell’Appendice B della norma UNI
10840:2000.
Veniamo
all’illuminazione artificiale.
L’ illuminazione
artificiale, ricorda l’intervento, è quella prodotta dall’insieme dei corpi
illuminanti intenzionalmente introdotti per lo svolgimento dei compiti visivi
richiesti in quel determinato luogo e per compensare la carenza o l’assenza di
illuminazione naturale.
Queste sono
alcune caratteristiche dell’ambiente di cui tener conto: distribuzione delle
luminanze, illuminamento, abbagliamento, aspetti del colore, calore apparente
della luce.
Si ricorda
che la distribuzione delle luminanze all’interno del campo visivo influenza il
grado di impegno degli organi oculari e conseguentemente la visibilità ed il
confort. Per evitare l’affaticamento visivo dovuto a ripetuti e continui
processi di adattamento, va realizzata una distribuzione equilibrata delle
luminanze, evitando variazioni e discontinuità accentuate tra le diverse aree
del campo visivo e tenendo conto dell’importanza che hanno le superfici
riflettenti presenti nell’ambiente. In particolare la norma UNI EN 12464-1:2004
consiglia, per le principali superfici di un ambiente, idonei intervalli per i
fattori di riflessione.
Si definisce
poi illuminamento medio mantenuto (Em) quel valore di illuminamento al di sotto
del quale l’illuminamento medio su una specifica superficie non può mai
scendere.
Il relatore
ricorda inoltre che i valori di illuminamento tra l’area oggetto del compito
visivo e quelli della zona immediatamente circostante (intesa come fascia di
almeno 0,5 m di larghezza intorno alla zona del compito all’interno del campo
visivo) non devono discostarsi eccessivamente per evitare l’insorgere di
affaticamento visivo e disturbi da abbagliamento.
E una buona
progettazione deve prevedere sia all’interno della zona del compito che in
quella immediatamente circostante, una buona uniformità di illuminamento.
Il documento
agli atti, relativo all’intervento in oggetto, riporta diverse tabelle relative
ai parametri di cui tenere conto nell’illuminazione di un ambiente lavorativo.
L’intervento
si sofferma anche sulla valutazione dell’abbagliamento molesto direttamente prodotto
da apparecchi di illuminazione artificiale (si utilizza l’indice unificato di
abbagliamento UGR, Unified Glare Rating), ricordando che i valori limite
dell’UGR sono previsti dalla norma UNI EN 12464-1:2004 per ogni specifico tipo
di interno, compito o attività visiva (per impianti di illuminazione non
recenti e dotati di corpi illuminanti sprovvisti di UGR, si può far riferimento
alla norma UNI 10380:1994).
Infine si fa
cenno anche al calore apparente della luce.
Infatti ogni
tipo di lampada emette luce di diversa tonalità a seconda della distribuzione
spettrale della radiazione emessa ed è contraddistinta da una propria
temperatura di colore.
Questo
parametro, espresso in kelvin (K), è usato per individuare e classificare il
colore apparente della luce emessa da una sorgente luminosa: colore
apparentemente caldo (< 3.300 K), colore apparente neutro da 3.300 K a 5.300
K e colore apparente freddo (> 5.300 K).
Concludiamo
ricordando che l’intervento si sofferma anche sull’illuminazione di sicurezza e
su come valutare l’illuminazione nei luoghi di lavoro.
Il documento
“Illuminazione”, a cura dell’ingegner Maurizio Tancioni, intervento al
seminario “Criteri e strumenti per l’individuazione e l’analisi dei rischi” è
scaricabile all’indirizzo:
LA CORRESPONSABILITA’ DEL RSPP CON
IL DATORE DI LAVORO PER UN INFORTUNIO
Da:
PuntoSicuro
27 luglio
2015
di Gerardo
Porreca
La colpa
professionale del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP)
concorre con quella dell’imprenditore in relazione agli eventi dannosi
derivanti dai suoi suggerimenti errati o dalla mancata segnalazione di una
situazione di rischio.
E’ ormai
consolidata la posizione della Corte di Cassazione in merito alla
individuazione della responsabilità del RSPP con riferimento a un infortunio
sul lavoro occorso nell’azienda presso la quale svolge la propria attività,
posizione ribadita di recente del resto dalle Sezioni Unite della stessa Corte
di Cassazione in occasione della sentenza n. 38343 del 24/04/14 relativa alla vicenda
della Thyssen-Krupp.
Il RSPP, ha
sostenuto infatti la suprema Corte nella sentenza in commento, pur svolgendo
all’interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale, ma di
consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente all’incarico
affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi
connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche
per risolverli, disincentivando, se necessario, eventuali soluzioni economicamente
più convenienti, ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la
conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a
rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della
violazione dei suoi doveri.
La Corte di
Appello ha riformata una sentenza emessa dal Tribunale, limitatamente alla
misura della pena, ridotta a mesi quattro di reclusione a seguito di giudizio
di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata
aggravante, con la quale era stato condannato il RSPP di una azienda,
responsabile del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme
in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni di un dipendente,
avendo omesso lo stesso di far predisporre idonee misure a tutela dei
lavoratori addetti all’impianto di laminazione dell’azienda. L’infortunio era
stato così ricostruito dai giudici di merito: il ciclo produttivo della
laminazione comprendeva tre fasi destinate alla formazione di lingotti
d’acciaio, alla trasformazione di essi in verghe e alla fase di raffreddamento
nella quale transitavano per una via a rulli, coperta in un primo tratto e
munita solo di ripari verticali nell’ulteriore tratto. Il lavoratore, in
quest’ultima fase, dopo aver rimosso un incaglio, si era avvicinato alla linea
di laminazione per verificarne il funzionamento ed era stato trafitto da una
verga di acciaio uscita dal canale di scorrimento che lo aveva infilzato alla
nuca.
Il giudice
di primo grado aveva ritenuto l’imputato responsabile della mancata
predisposizione di misure tecnico-organizzative che evitassero, durante il
ciclo produttivo in corso, l’accesso alla linea di laminazione dei lavoratori
addetti al controllo. La Corte territoriale, dopo aver sottolineato che la
ricostruzione dell’infortunio operata dal primo giudice non fosse contestata,
ha condiviso la centralità del profilo di colpa inerente alle misure di
protezione finalizzate a salvaguardare l’incolumità del lavoratore che, per
qualsivoglia motivo, si fosse avvicinato alla linea di laminazione sporgendosi
all’interno di essa. Il giudice di appello ha, in proposito, ritenuto che le
misure adottate non fossero idonee a precludere in modo assoluto il transito
dei lavoratori nella zona alla quale il lavoratore deceduto aveva avuto
accesso, deducendo ciò dal fatto che la totale segregazione di tale zona fosse
stata attuata dal datore di lavoro dopo l’infortunio, con l’aggiuntiva misura
per cui l’ingresso all’area segregata era stato vincolato da un sistema
automatico che consentiva l’accesso soltanto a laminatoio fermo.
Avverso la
sentenza della Corte di Appello l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione
censurando la sentenza impugnata per diversi motivi. Lo stesso ha fatto
presente che, avendo la società datrice di lavoro apportato prima
dell’infortunio rilevanti modifiche all’impianto di laminazione, ottemperando
alle prescrizioni date dall’Azienda Sanitaria Locale, i dirigenti della società
e lui stesso avevano la ragionevole convinzione che l’impianto fosse conforme
alle esigenze di sicurezza, anche perché stabilimenti con analoga attività
produttiva avevano anch’essi l’impianto non completamente segregato. La società
aveva già dato inoltre precise e rigorose direttive in base alle quali in caso
di incaglio si sarebbe dovuta rispettare una procedura di intervento secondo la
quale la rimozione di un incaglio doveva essere effettuata solo dopo che
l’impianto di lavorazione fosse stato fermato.
La Corte di
Appello, ha inoltre sostenuto il ricorrente, aveva fondato il giudizio di una
sua condotta colposa sul solo fatto che questi non avesse proposto la
segregazione totale dell’impianto, mentre avrebbe dovuto invece accertare quali
fossero i sistemi più sicuri suggeriti nelle facoltà universitarie di
ingegneria e realizzati nell’industria italiana ed estera di produzione e
lavorazione dell’acciaio, potendosi fondare tale giudizio solo sulla non
conformità dell’impianto a quelli ritenuti più sicuri secondo la miglior
scienza e la migliore tecnica nel periodo precedente il verificarsi
dell’infortunio. L’imputato ha fatto presente, altresì, di non avere nessuna
responsabilità di natura penale non avendo il potere di decidere la modifica
dell’impianto di laminazione e ha sostenuto, con riferimento alla inosservanza
dell’articolo 40, secondo comma del codice penale, che la sentenza sarebbe
erronea perché non può configurarsi un obbligo giuridico di impedire l’evento a
carico di colui che, per mancanza di poteri decisionali, non abbia il potere di
impedirlo.
La Corte di
Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato e lo ha pertanto rigettato. La
stessa con specifico riferimento alla responsabilità del RSPP ha richiamato
alcuni principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità. La Sezione IV
ha ricordato che recentemente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite “ha
ribadito il principio interpretativo secondo il quale il RSPP, pur svolgendo
all’interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza,
ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente all’incarico affidatogli e
di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi
all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per
risolverli, all’occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente
più convenienti, ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la
conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a
rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della
violazione dei suoi doveri (Sentenza di Cassazione n. 38343 del 24/04/14)”.
“Più in
generale” - ha quindi proseguito la suprema Corte - “con riguardo all’elemento
soggettivo del reato, si è chiarito che il soggetto al quale sono stati
affidati i compiti del servizio di prevenzione e protezione, previsti dall’articolo
9 del D.Lgs.626/94, può essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un
infortunio ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile a una
situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e
segnalare. Ciò sul presupposto che il sistema prevenzionistico voluto dal
legislatore affida alla informazione e alla prevenzione, organizzate in un
servizio obbligatorio, un fondamentale compito per la tutela della salute e
della sicurezza dei lavoratori. La necessità di competenze specifiche e di
requisiti professionali fissata dall’articolo 8 bis del D.Lgs.626/94 per i
Responsabili e gli Addetti al Servizio in questione è il miglior riscontro
della centralità della prevenzione e della informazione nel sistema di tutela
della integrità fisica e della personalità morale dei lavoratori”.
“La Corte di
Appello” - ha così concluso la suprema Corte - “ha poi indicato i compiti
richiesti dalla legge al RSPP ritenendo che, pur in assenza di sanzioni penali
specificamente previste dalla legge a suo carico, la sua responsabilità penale
derivasse dall’obbligo giuridico di lavorare con il datore di lavoro
individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune
indicazioni tecniche per risolverli, concorrendo la colpa professionale del
RSPP con quella dell’imprenditore in relazione agli eventi dannosi derivanti da
suoi suggerimenti errati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio.
Il giudice di appello, ha quindi correttamente affermato che, nel sistema elaborato
dal legislatore, si presume che alla segnalazione di una situazione pericolosa
da parte del RSPP segua l’adozione delle misure necessarie per ovviarvi da
parte del datore di lavoro”.
La Sentenza
della Corte di Cassazione Penale Sezione IV n.27006 del 25 giugno 2015 è consultabile
al link:
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