Viva la "docente
impudente". Mortificare gli insegnanti non è un progresso
Giorgio
Lonardi*
Immagina di essere un ingegnere sposato con figli,
sulla quarantina, che lavora da dieci o quindici anni con uno stipendio medio
di 1200/1300 euro al mese, ma senza la garanzia del posto fisso. All’improvviso
il tuo datore di lavoro ti fa una proposta: ti stabilizzo a patto che tu mi dia
la disponibilità a trasferirti in qualsiasi altra regione con lo stesso
stipendio e tutte le spese a tuo carico. Che faresti? Accetteresti di
buongrado, magari ringraziando? Oppure lotteresti per ottenere migliori
condizioni? In questo caso, ricorderesti al tuo capo il lungo periodo di
precariato senza aumenti di stipendio, le problematiche familiari, le
difficoltà economiche alle quali una scelta di questo tipo ti esporrebbe ecc. Fuor
di metafora, questo è sostanzialmente ciò che sta accadendo a decine di
migliaia d’insegnanti laureati e abilitati, inclusi nelle graduatorie ad
esaurimento, che per dieci o quindici anni hanno girovagato tra scuole e
cattedre differenti, spesso a decine di chilometri da casa, in comuni diversi e
distanti tra loro. Dopo la sentenza della Corte europea del novembre scorso che
ha condannato l’Italia per reiterazione illegittima di contratti a termine nella
pubblica istruzione, il governo Renzi con la “Buona scuola” chiede a docenti
con un’età media sopra i quarant’anni, una disponibilità totale alla mobilità
sul territorio nazionale in cambio della tanto agognata stabilizzazione. A
causa della diseguale distribuzione dei posti, tuttavia, molti insegnanti,
residenti perlopiù al Sud e nelle Isole, dovranno forzatamente lasciare casa e
famiglia per spostarsi al Nord, dove le cattedre sono più numerose.
Non solo,
come se non bastasse, si prefigura per buona parte dei docenti stabilizzati un
futuro all’insegna della mortificazione professionale, poiché, dopo i tagli di
cattedre degli ultimi decenni, molti di loro dovranno essere “riciclati”, anche
se non si sa ancora in quale modo. Si tratta di un demansionamento annunciato,
con danni in termini di conoscenze e competenze per l’intero sistema
scolastico. Chi scrive, pur non provenendo dal Sud, ha alle spalle quindici
anni di precariato e ha già sperimentato cosa significhi allontanarsi per
qualche anno dalla famiglia per insegnare fuori dalla propria regione con uno
stipendio che se ne va tutto per le spese d’affitto, le bollette e la benzina.
Ma questa non è un’eccezione, è una situazione piuttosto ordinaria nel mondo
dell’insegnamento. Eppure dai post che leggo sui social e dai commenti postati
su Repubblica alla lucidissima lettera di Marcella Raiola, si evince che i
docenti non sono lavoratori come gli altri e non hanno diritto a rivendicare
alcunché. Il distillato che esce da queste saccenti chiose è un insieme
eterogeneo di qualunquismo reazionario del tipo “taci tu che un lavoro ce l’hai
ed è anche troppo ben pagato” e di servilismo filo padronale. Si tratta di una
visione che si può ben condensare nel principio per il quale non si lavora per
vivere, ma si vive per lavorare, perciò è necessario adeguarsi a ogni esigenza
del mondo del lavoro. Una concezione questa che vuole fare del lavoratore una
pedina alla mercé delle forze impersonali del mercato, con buona pace della
nostra Costituzione repubblicana che afferma il diritto al lavoro e a una vita
dignitosa. Di fronte a questa autentica disfatta delle coscienze, agevolata
dalla crisi e amplificata a dismisura dai media mainstream, le voci dei
dissidenti come Marcella Raiola che si oppongono al disegno di una scuola
aziendalistica, autoritaria e clientelare e che hanno ancora il coraggio di
affermare che il lavoratore è depositario di diritti, svolgono un ruolo
cruciale per l’educazione dei giovani e per la tenuta dell’intero sistema
democratico. È con questa convinzione che grido in faccia ai reazionari lettori
di Repubblica “Viva la docente impudente!”
* insegnante
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